RIFLESSIONI SUL RICONOSCIMENTO DELLE COPPIE DI FATTO
AI FINI GIURDICI

A cura di: Vito Sibilio

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Il dibattito internazionale sul delicato tema del riconoscimento giuridico parziale o totale delle coppie di fatto sia etero che omosessuali induce tutti ad interrogarsi sul fondamento di tale rivendicazione, sulla sua moralità e sulle ricadute che esso avrebbe (o ha) sulla convivenza civile. In vista di tali obiettivi, si formulano le seguenti riflessioni.

L’alba della storia sociale dell’uomo vede l’unione del maschio e della femmina in una comunità primordiale e naturale il cui modello è presente anche tra gli animali. La socialità umana, lungi dall’essere una facultas addita per la nostra specie, si sostanzia spontaneamente nell’unione dei due sessi. Ciò produce quell’ordinamento patriarcale – e in alcuni casi matriarcale – che è alla base della vita tribale, e poi gentilizia, sino a costituire una comunità politica, di uno o più agglomerati urbani. La famiglia, lungi dall’aver bisogno di legittimazione da parte delle società posteriori, formate anzi dalla somma di più nuclei familiari, ha una preminenza sociologica, se non cronologica, nei confronti di esse. Quando le prime modificazioni genetiche all’interno dei primati produssero la specie Homo, l’esiguo numero di individui che le ebbero per primi potè organizzarsi solo in gruppi familiari, e non in ordinamenti sociali più ampi, a cominciare da quella prima coppia in cui avvennero tali trasformazioni, e da cui, grazie all’interfecondità, discese tutto il genere umano. Questo rilievo dovrebbe da solo bastare a far comprendere come la famiglia monogamica ed eterosessuale sia l’unico vero fondamento naturale della socialità umana, e il primo esplicitarsi sociale della sua natura; essendomi in altra sede espresso sul matrimonio omosessuale, piuttosto che ripetere la mia contrarietà, preferisco sottolineare che proprio dall’originarietà della famiglia scaturisce quell’insieme di diritti positivi che la giurisprudenza le riconosce – e non concede. I diritti concessi alla famiglia umana, dagli Egizi ai giorni nostri, sono una sanzione positiva di ciò che è preesistente, e la garanzia di tutela del corpo sociale originario in seno a quello più articolato che da esso è scaturito e in cui potrebbe perdersi, senza gli opportuni accorgimenti.

Certo, la cultura delle varie epoche, introducendo nella riflessione giuridica elementi irrazionali, magari di matrice religiosa, o condizionati da circostanze contingenti, spesso ha in parte snaturato la struttura essenziale del matrimonio esogamico eterosessuale, introducendo per esempio la poligamia – basata sul presupposto biologicamente infondato della superiorità del maschio sulla femmina, ma concepibile per il numero superiore di donne rispetto a quello degli uomini – o il divorzio – reso possibile dal fatto che il mantenimento del rapporto stabile uomo-donna non era più condizione indispensabile di sopravvivenza in una società organizzata – o tollerando a margine della convivenza coniugale forme di sessualità non codificata e alternative – l’adulterio, la prostituzione, l’omosessualità, ecc., come forme di soddisfazione di quella istintualità che il matrimonio stesso, per forza di cose, doveva comprimere e domare. La coesistenza tra queste forme “anarchiche” di sessualità e la famiglia naturale, se ha sempre creato problemi morali, ha spesso garantito una valvola di sfogo a certe componenti animalesche dell’uomo, sfogate in condizioni più o meno marginali, con un impatto sociale più o meno forte, a volte in condizioni di indifferenza generali, ma mai con la pretesa di parificarle all’istinto sociale che è alla base dell’unione dell’uomo e della donna.

Nella società postmoderna, dove la reciprocità dei rapporti e la loro stabilità è spesso un fatto relativo, sono nate forme di convivenza senza vincolo alcuno, spesso moltiplicandosi, così da far porre alcuni problemi giuridici di fondo, legati all’etica stessa del diritto e della politica. Partendo dal presupposto che ho presente solo le convivenze eterosessuali, come già dicevo, faccio rilevare anzitutto che il problema non è inesistente, in quanto le coppie di fatto sono una realtà familiare, e quindi in un certo senso portatrici di quei diritti ancestrali che lo Stato deve sanzionare per forza. Il fatto è, però, che il nostro problema non è tematizzabile in senso giuridico. Creare un percorso giuridico per il riconoscimento delle coppie di fatto significa creare una figura legale simile al matrimonio, in quanto la coppia di fatto, una volta che l’ha percorsa, iscrivendosi per esempio ad un registro, cessa di essere di fatto per diventare di diritto. In poche parole, adisce ad un matrimonio senza rito, ma pur sempre imperniato sulla pubblicità del consenso all’unione da parte dei due partner. L’unione di fatto di diritto è un vero e proprio elemento di schizofrenia giuridica introdotto in qualsiasi ordinamento, in quanto vuole riconoscere giuridicamente un legame e nello stesso tempo affermare che sia meno vincolante di un altro già regolato in subiecta materia. Perciò produce una doppia discriminazione, perché o sottrae ad una coppia i diritti maggiori di un’altra sposata con un rito civile – ossia il consenso dinanzi ad un funzionario pubblico . o attribuisce a questa più doveri rispetto all’altra. L’errore sta tutto qui: nel credere che si possa tradurre in categorie giuridiche la volontà dei singoli di non contrarre impegni stabili, intesi come giuridicamente vincolabili, e che tale problema possa essere risolto mediante la semplice abolizione del rito nuziale, inteso impropriamente come elemento formale e non materiale del matrimonio. La nascita, quindi, di qualsiasi regolamentazione per le convivenze more uxorio introduce nel nostro ordinamento – e in linea di principio in qualsiasi ordinamento – un elemento spurio, costituzionalmente inaccettabile, aberrante giuridicamente, e facilmente impugnabile nelle sedi competenti. Genera infatti una duplice contraddizione: o parte dal presupposto che le coppie in quanto tali hanno dei diritti inalienabili e quindi spontanei, per cui non fa differenza se siano sposate o meno, o dall’idea che ci sia una sostanziale differenza tra le forme della convivenza umana, a seconda della volontà dei contraenti, che però diviene normativa anche per il diritto. Nel primo caso, tanto varrebbe abolire il matrimonio, in quanto realmente tutte le coppie eterosessuali sono uguali. Ma il matrimonio è l’atto giuridico che permette allo Stato di conoscere e censire le coppie da garantire, per cui è uno strumento –non un fine – a cui non può rinunciare. E non si capisce perché per alcuni debba andare bene solo l’iscrizione ad una anagrafe particolare, visto che lo scopo è lo stesso, e visto che tutte le coppie sono portatrici dei medesimi diritti. Nasce così un diallelo giuridico. Nel secondo caso, se la volontà di due persone si concretizza in un impegno di coppia libero da qualsiasi dovere, non solo riconoscerlo è impossibile, non potendosi garantire diritti a chi non voglia responsabilità, ma è ingiusto farlo, in quanto finisce, mediante una indispensabile normativa minima, per coartarlo con degli adempimenti indispensabili, o per discriminarlo, negandogli altre garanzie che le coppie normalmente riconosciute hanno. Nasce un secondo dilemma giuridico. Tali contraddizioni non sarebbero sanate neanche se si decidesse, come in Francia, di garantire a chiunque convive, anche non more uxorio, una serie di garanzie atte a facilitare la convivenza stessa.

Tutte queste questioni possono essere risolte in modo diverso, e molte di esse sono già regolate dal diritto privato, l’unico ambito in cui ricadono realmente. La legalizzazione delle coppie di fatto creerà molti abusi – come convivenze fittizie a scopo di lucro o come convivenze non regolamentate, che forse chiederanno uno statuto giuridico ancora minore – e non risolverà i veri problemi pratici (legati al sostentamento) e teorici (legati alla crisi delle relazioni umane) della famiglia, su cui lo Stato non vuole o non può intervenire. Questa corsa alla normativa delle coppie di fatto è il sacrificio che la politica deve fare al Moloch del laicismo, incapace di confrontarsi in modo fattivo con i problemi sociali se non per contestare, per una sorta di complesso psichico collettivo, la cultura tradizionale, identificata, a torto o a ragione, con il retaggio dell’odiato Cristianesimo, sul quale va presa una rivincita specie dopo la bruciante sconfitta referendaria sulla FMA. La crisi del Socialismo mondiale, e quindi della Sinistra, spinge i politici di area a leggere tali questioni in chiave di lotta tra discriminanti e discriminati, così da trovare nuove battaglie fittizie da combattere, non essendo capace di risolvere le nuove sfide sociali, completamente avulse dagli schemi ottocenteschi sia del marxismo puro che del revisionismo della II Internazionale. Questa crisi di contenuti si riverbera sulla Sinistra cattolica, che commette l’errore di inseguire i suoi antagonisti su un terreno fittizio. A questo caos, presentato come un kulturkampf, e che ha di grottesco e di comico, dobbiamo l’inutile attenzione a questa ridicola questione, e la colpevole distrazione dalle soluzioni praticabili di problemi risolvibili come la reversibilità pensionistica o la designabilità degli eredi sulla base del bisogno e della libertà di scelta. Dobbiamo l’incuria con cui si dimenticano i problemi drammatici delle famiglie, come la presenza, nel 35% di esse, di disabili. Dobbiamo l’oblio dei doveri delle coppie di fatto nei confronti dei loro figli naturali, di cui, come si vede, non si fa mai menzione.

Agli uomini di buona volontà non sia pacs, ma pax, indispensabile per lavorare con calma e profitto alla soluzione dei problemi reali con mezzi praticabili e non demagogici.


Theorèin - Febbraio 2007