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Che esista oggi un sistema dell’Arte criticabile e tendenzialmente “privo di una testa” è percepibile, ma forse ancora qualcuno non ne è del tutto consapevole, esiste ancora un pubblico che è privo di difese in questo campo, sia per mancanza di tempo per approfondire l’argomento sia perché non ci si preoccupa di riflettere su certi meccanismi legati al mercato.
Questa fase di confusione prolungata nell’arte contemporanea è costantemente sfruttata dalla mediocre categoria dei cosiddetti “impiegati dell’arte”, persone che non hanno mai visto un Vélasquez e nonostante questo ne parlano spesso, persone che usano l’arte a fini personali, persone che abituate a trattare le cose con mani di piombo vorrebbero ridurre tutto ad una sorta di ipermercato dell’umano spazzando via le differenze, un market aperto 24 su 24, tutto questo in nome di una presunta liberalizzazione dell’arte, come se per liberare l’Arte (perché l’arte va liberata? non è già libera da sé?) bastasse mettere le opere confezionate una vicino all’altra su ampi scaffali accessibili a tutti con l’etichetta “a scadenza” e il prezzo. Le opere dovrebbero essere invece lasciate in pace senza manipolarle, come si va a trovare un amico (mi si perdoni il paragone) si dovrebbe andare a vedere una mostra, con lo spirito di conoscere qualcuno a casa sua. Non è più emozionante avventurarsi tra le campagne toscane per andare ad incontrare la “Visitazione” di Pontormo o un’opera di Beuys in Abruzzo o una scultura di Moore nel luogo dove vengono pensate invece di trovarle sbattute in tutte le gallerie?) Ma c’è il positivo di questa situazione di confusione: sarebbe strano se non fosse così, in una società dove prevalgono gli individualismi e le spinte ad una spesso scorretta competitività è più che normale che ci siano artisti che ambiscano più al successo e alla fama come punto di arrivo. Di conseguenza chi cade nell’illusione del successo ha già trovato la sua personale “strada” da seguire. E dunque non ha problemi di direzione. Il successo è la vera “droga pesante legalizzata” del secolo; sentir parlare di sé, vedere la propria immagine in tv, essere continuamente intervistati, diventano il centro della vita e dell’interesse. Pure maledizioni. Quindi se questa è la naturale conseguenza di un fare individuale ecco un punto di partenza dal quale ragionare. Ecco una nuova esigenza di fare chiarezza. Di dire sinceramente qual è la propria direzione, i propri valori. Dire ciò che si è, in modo tale che lo spettatore possa farsi un’idea sull’artista e sul suo lavoro. Questa sincerità fa parte della maturazione stessa di un artista. L’arte contemporanea sta vivendo un lungo periodo di artificialità, dove le cose e le persone, diventate leggere come palloncini gonfiati di aria, per esistere nella realtà devono per forza di cose essere “certificate” dall’alto, dalla Storia dell’arte, dalla letteratura, dal critico del momento o dallo scandalo. Ecco le principali certificazioni di oggi. Cioè: è arte ciò che è stato già definito come Arte, essendo stato garantito, poggiando su qualcuno che lo garantisce.Scompare il senso critico, scompare il collezionista, e il pubblico non si azzarda a parlare. La sitazione descritta è quella di una società infertile da un punto di vista creativo, anzi, procreativo di idee. Produzione di oggetti spesso inutili per l’uomo; utili per il sistema dell’arte ma non per l’uomo, per la sua conoscenza del mondo, per la sua crescita. Che fare? Occorre rendere le opere nuovamente “abitabili”, utili all’uomo, funzionali alle persone e non al sistema dell’arte che è un artificio. E poi bisogna smetterla con questa visione letteraria e letterale dell’arte, come se le opere moderne si dovessero per forza contrapporre a quelle precedenti evidenziando solo aspetti negativi nel passato, visione che vede l’arte come il luogo del più assoluto libertinaggio, della più assoluta vaghezza, dove gli artisti non sono altro che persone anormali, alcolizzati e produttori di immagini spaventose o malinconiche. Basta con questa visione! La storia dell’arte è fatta per essere sempre interpretata e arricchita, alla luce delle nuove idee e invenzioni, così è qualcosa di utile all’uomo e si basa sulle scoperte offerte dalla relazione. I poveri animali fatti a pezzi da D. Hirst che stanno lentamente decomponendosi a causa della frettolosa tecnica di conservazione sotto formaldeide dimostrano come il fruitore dell’arte oggi non possa far altro che specchiarsi dietro al massiccio vetro dell’istallazione, assolutamente estromesso da qualsiasi forma di partecipazione che non sia di orrore. Estromettere il pubblico è diventato il punto di massima forza nell’arte. Gli happening degli anni settanta forse erano così drammatici perché si era già intuito che il pubblico si stava allontanando dall’arte e diventava sempre più passivo nella partecipazione. Questa paura della perdita di pubblico si è trasformata in aggressione. La forma della pubblicità allora è intervenuta massicciamente nell’arte per realizzare un ibrido, perché sembra che più di mezz’ora lo spettatore non riesce a stare in galleria a meno che non ci siano discussioni da fare. La trasformazione dell’opera in immagine pubblicitaria è sembrata la soluzione migliore per molti. C’è solo una questione: la forma pubblicitaria non è abitabile. Non dà una visione reale delle cose, del mondo. Così tutto ritorna leggero e fluttuante. Il mercato non aiuta: se si chiede ad un giovane artista di creare trenta opere per una mostra in meno di due mesi l’artista che ne “produce” due in un mese è spacciato dal mercato. Dunque la tecnica diventa centrale. Ricordo un amico artista che si vantava di aver trovato una tecnica di produrre più di trenta quadri al mese; io ne rimasi impaurito. Infine con questo sistema gli artisti non sapranno mai se la loro arte sia valida ed apprezzata, perché non c’è un vero pubblico, un vero confronto, non si saprà mai se uno viene a vedere la tua mostra per passione o perché è stato indotto dalle tecniche di marketing. Pensandoci bene, essere famosi di questi tempi non è proprio la condizione migliore per un giovane artista. Rimane lo sfarzo: uno sfarzo al quale si dà il nome di Arte; splendide foto per splendide riviste patinate e ambienti luminosi e gallerie meravigliose. Allora viene in mente quello che si fa nei piccoli centri, con artisti meno noti, situazioni più vivibili e sane, dove è ancora possibile partecipare, dove non esiste quel pesante vetro che divide le persone. Unica differenza è la mancanza di sfarzo alla quale si era abituati. |