E' questo il titolo di un catalogo e di una mostra svoltasi dal 7 agosto al 25 settembre 2004 nella sala consiliare di Ofena, paesino abruzzese purtroppo conosciuto per ben altri motivi che quelli culturali.
Gli artisti presenti in mostra sono senz'altro interessanti e importanti per la qualità della loro ricerca artistica, come ben hanno espresso le foto del volumetto edito da Gangemi, ma ovviamente non sono i soli a rappresentare le migliori realtà delle ricerche artistiche sul territorio.
La mostra e il catalogo in questione mi hanno spinto ad alcune considerazioni critiche, anche perché recentemente mi è capitato di studiare (e pubblicare) quanto è avvenuto e avviene sul territorio , per cui mi sembra di avere un buon punto di osservazione per esprimere delle considerazioni in proposito.
Sicuramente gli artisti presentati offrono la possibilità di ampie e profonde considerazioni (che ho cercato di affrontare in un saggio del 2003) su una identità e una qualità della ricerca artistica proveniente dall'Abruzzo, ma nel testo e nella mostra in questione questi artisti non sono contestualizzati con le diverse altre identità di artisti, (storicamente inevitabili direi) al fine di avere una comprensione più esatta dell'arte contemporanea d'Abruzzo. Se non in sede di mostra, almeno nello svolgimento del testo queste figure avrebbero dovuto essere considerate. Non è tanto un problema di nomi da citarsi ma di corretta valutazione delle diverse tipologie di ricerca artistica che il territorio presenta. Ferma restando l'impossibilità di poterle rappresentare tutte e di avere la presenza di alcuni nomi fondamentali in mostra, almeno la citazione dell'esistenza di qualcos'altro sarebbe stata utile a comprendere la verità di una realtà. Nulla di tutto ciò appare.
Per questa principale ragione, il titolo della rassegna promette di presentare un qualcosa, per poi omettere buona parte della verità di ciò che propone: forse una maggiore modestia nel titolo o una maggiore informazione nel testo sarebbero state cose convenienti oltre che veritiere.
Mi permetto poi alcune notazioni sul testo che ritengo necessarie e anche difficili, perché vorrei fossero ben comprese:non vogliono essere un attacco alla "persona" del curatore (che per altro conosco e rispetto per il suo coraggio) ma soltanto una riflessione su come la scrittura riguardo l'arte possa rendere ad essa un pessimo servizio e di come questo sia stranamente accettato di buon grado dagli artisti stessi.
Devo ammettere che il lavoro che stiamo esaminando è stato per me, estremamente deludente forse perché lo aspettavo con interesse, per aver la possibilità di sentire un'altra campana rispetto a questioni e a problemi che ho seguito e che seguo con interesse. Ansioso di trovare spunti nuovi, mi sono ritrovato a leggere una risicatissima compilazione sintatticamente difficoltosa, che appare più un dettato dalle circostanze casualissime che da un qualsiasi altro rilievo culturale, critico o visivo.
Nel testo le notazioni critiche sono rarissime ( al di là di una lettura assolutamente sommaria dell'attività dei singoli artisti) e nessuna di esse originale: appartengono per lo più anche a remotissima letteratura precedente e sono idee ampiamente dibattute innanzitutto dai migliori studiosi operativi in regione (Carli, Spadano, Gasbarrini, non ultimo lo stesso Crispolti); sono anche idee che ho cercato di affrontare e portare a conclusione, ad un "fine" interpretativo, sia nei saggi pubblicati nel 2002 che nel mio volume del 2003.
Sia in campo artistico che critico, omettere il confronto con altre esperienze di ricerca è senz'altro un limite profondissimo: il volume in questione ne risente, più che sul piano iconografico, su quello testuale, al punto da presumere di presentarsi complessivamente come il volto esclusivo di una identità ma senza avere poi al suo interno una conoscenza documentata e aggiornata, un progetto evidente, un pensiero, una visione critica, una coscienza della reale condizione dell'esperienza che pretende di rappresentare. Errore per altro non nuovo agli "scrittori / curatori" locali che riescono a pubblicare a livello nazionale: accadde qualcosa di simile in un testo del 1999, che risulta in realtà, di ben altra sostanziosa qualità complessiva .
Errore grandissimo è ignorare la bibliografia recente: non tanto per una citazione di nomi, (cosa per me assolutamente irrilevante) ma perché un minimo di credibile bibliografia offre una parvenza di credibilità riguardo le proprie fonti e poi perché chi la conosce, sa che rispetto a quanto si legge, la realtà e la riflessione si trova da tempo in ben altri luoghi.
Se una operazione come quella che stiamo esaminando rimanesse in ambito locale, la cosa non sarebbe particolarmente grave da spenderci tutte queste parole, ma quando una simile pubblicazione avviene a livello nazionale, un po' più di onestà intellettuale, non dico di rispetto, ma almeno di verità scientifica non guasterebbe.
Non mancano nel testo delle considerazioni per le quali sarebbe necessario spiegare il "come" e il "perché". Evitando di farlo, risultano sconcertanti per genericità e ovvietà; cito testualmente: " … questo territorio è un esempio, direi alquanto paradossale, di come quanto più è vasta sullo stesso campo la pluralità incondizionata delle esperienze presenti, tanto più nel contempo si rafforzano e si ampliano le matrici che le accomunano. ". O anche: " E i differenziati indirizzi si distinguono anche nella scelta esecutiva, che va dalla pittura e la scultura all'impiego della fotografia e del video, nella consapevolezza che qualunque "mezzo" utilizzato serve alla concretizzazione dei contenuti e non allo sfoggio di un virtualismo ( ?) fine a se stesso." …
Ci sono poi affermazioni errate che sembrano risentire di appartenenza a "parrocchia": la scelta di "accasarsi" di trovare plauso di fronte e qualcuno, appare evidente proprio dall'omettere l'esistenza (per altro fattiva e importantissima) di altri fenomeni e situazioni. Mi spiego: chiunque abbia mai operato per le arti figurative in Abruzzo sa dei due o tre (principali ma non unici) schieramenti che si contrastano e si ostacolano a vicenda, attraverso ostracismi ostentati, studiata noncuranza, autentica reciproca sufficienza, se non con attacchi diretti o con operazioni volte a partecipare a questa o quella mostra o ad accaparrarsi questo o quel finanziamento o quella determinata presenza in quella rassegna più o meno prestigiosa: prima , a danno o in alternativa agli altri.
Vorrei però che si capisse che la mia critica a questa operazione non viene dal fatto di appartenere alla parrocchia differente (la libertà dai condizionamenti anche amicali è per me una esigenza etica e intellettuale imprescindibile) e nemmeno dal fatto di veder ignorati i propri sforzi o risultati di studio. Meno che mai lo ribadisco ancora, è una fatto personale con il curatore in questione. La mia insofferenza è dettata più che altro dal constatare per l'ennesima volta l'oblio del "pensiero critico" ovvero di ciò che può rendere "cultura" un evento visuale.
Senza nulla togliere al valore degli artisti e alle loro opere (molte delle quali già edite altrove), questo tipo di operazioni costituiscono l'esempio del rifiuto pratico e sostanziale del "pensare l'arte" e del "pensare sull'arte", per diverse ragioni: di metodo, di etica, di scientificità, di cultura.
Ho già detto che manca un qualsiasi progetto espositivo, una idea culturale che organizzi il senso dell'operazione: ci troviamo di fronte alla solita vetrina non contestualizzata, che in quanto tale, non può realmente interessare o servire a nessuno: studiosi, collezionisti e istituzioni. Le schede degli artisti (quasi tutte ridondanti) sono facilmente reperibili su internet. La mostra e il catalogo rimandano evidentemente a se stessi.
La seconda questione riguarda la pratica e le valenze dell'attività del "critico" - curatore in senso lato, e non solamente nello specifico di questa rassegna. L'atteggiamento autentico del critico, (intendendo per esso, non la stereotipata sgarbiana figura del depositario della verità), dovrebbe coscenziosamente avere presente (quanto meglio possibile) la realtà complessa che sta dietro qualsiasi fenomeno; dovrebbe esprimere una analisi che abbia almeno una linea di metodo e dovrebbe poter esprimere anche il limite intrinseco di qualsiasi affermazione, persino delle proprie. Il critico (ripeto, non quello pieno di sé, avulso dal rispetto e dal desiderio di capire) può anche peccare di qualche omissione ma deve saper esprimere anche i limiti del suo affermare e riflettere. Se non c'è questa consapevolezza, qualsiasi sua affermazione non può divenire la base di un confronto "sulla cultura", cioè, non costruisce pensiero, non sviluppa nulla, non fa nascere idee ma piuttosto le uccide imbalsamandole nella presunzione. Fuori da certe condizioni di metodo, di etica e professionalità lo scritto del curatore non può che divenire accessorio, inutile, oppure dettato da esigenze esterne al "pensare": esigenze comunicative, promozionali o altro. Cose dignitosissime, ma lontane dalla fattività del "pensare".
Ecco la mia profonda delusione è il constatare ancora una volta di come la scrittura sull'arte si condanni da sé, per insipienza, per interesse, per superficialità o per qualsiasi altro motivo, ad essere "nulla", ad essere riempitiva, a non sviluppare dinamiche di pensiero. E ancora altrettanto deludente è constatare che ciò stia bene agli artisti, stia bene cioè che non si dica la verità, che non si renda giustizia reale alla qualità della propria ricerca, limitandosi a accontentarsi delle parole che si trovano, solo perché convenzionalmente è necessario porle su un oggetto che si chiama catalogo, perché in fondo, si è già giudicato tutto il resto dell'esistente (scrittura compresa) indegno di apparire in propria compagnia.
Insomma, direi che questo lavoro non offre un gran servizio alla conoscenza dell'esperienza dell'arte nella nostra regione, in quanto risulta una operazione ancora profondamente intrisa di tantissime forme di provincialismio Non ne faccio colpa ai singoli ma ad una mentalità che si fa fatica a superare o che forse non ci si rende più conto purtroppo, di avere assunto come identità.