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S(Il) potere: (di) fa(re) cultura.
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Non è un errore. E’ un titolo intenzionale che vorrebbe suggerire delle variabili combinatorie e un pluralità di sensi e sottintesi: come poter fare cultura, il potere di fare cultura, il potere fa la cultura … E’ la sintesi di una riflessioneche scaturisce da una constatazione quotidiana, o comunque periodica, sulla possibilità di realizzare un progetto culturale e sul fatto che in definitiva, solo ciò che si può realizzare e far vedere, costituisce il “setting”, il riferimento per poter dire e riconoscere quale cultura si fa e cosa sia cultura. La frustrazione di qualsiasi persona coscientemente impegnata e motivata ad esprimere temi valori e riflessioni che va cogliendo nel reale, è sia quella di non veder riconosciuto ciò su cui va elaborando e riflettendo, sia quella di non avere “strumenti” adeguati perché ciò avvenga. Questa difficoltà o impossibilità è data da molteplici motivi: possono essere d’ordine “qualitativo”, (cioè, c’è poco da riconoscere) o semplicemente “comunicativo” (ovvero, non li si sa esprimere adeguatamente); in tanti altri casi, ciò semplicemente può avvenire solo per ragioni di “potere”. “Potere” (con uso nominale) è la condizione che realizza una potenzialità, a prescindere dalla qualità della stessa potenzialità. Cioè, si può fare qualcosa anche se ciò che si fa non ha senso, a condizione di avere mezzi e condizioni per farla. Non esiste un “darsi” autonomo del fatto culturale, che divenga tale per qualità intrinseca; piuttosto è vero il contrario: mi è concesso potenzialmente fare tutto, ma non è detto che nella realtà possa farlo se non ne possiedo il “mezzo” che consente alla potenzialità si darsi nella realtà. Il “potere” è avere gli strumenti per concretizzare una potenzialità ed esso è assolutamente asettico rispetto alla qualità della potenzialità. A parte le implicazioni politiche, sociali e comportamentali, la faccenda mi sembra interessante nel campo dell’attività culturale: nel contesto sociale, cosa si riconosce come “attività culturale”? Il riconoscimento soprattutto nel nostro tipo di società occidentale, avviene “in primis” non per riflessione sul fatto in sé, ma sulla sua “percezione” come tale. Il percepire un fatto come “culturale” (che costruisce senso) viene più dalla comunicazione e dalla posizione che il fatto riesce ad avere in essa, piuttosto che dalla rilevanza o dalla densità significativa del fatto stesso. Densità e rilevanza si danno in una fase riflessiva successiva che non appartiene più alla comunicazione (è inessenziale ad essa). Densità e rilevanza (quindi la sensatezza dell’evento stesso) non interessano al fine di un “setting” immediato, se mai andranno a costituire quello di una fascia molto più ristretta di fruitori critici, detentori di una cultura praticamente elitaria, che non riesce ad incidere con la stessa fattività rispetto alla cultura generata dalla semplice percezione di massa del fenomeno stesso. In definitiva può essere percepito come evento di “cultura” e può diventare determinante alla riflessione e al dibattito soprattutto ciò che può essere diffuso in modo rilevante e quindi, ogni cosa, purché possieda lo strumento per realizzare la propria evidenza. Detto in soldoni, chi ha soldi e chi ha potere, fa cultura … e la capacità di incidere sulla cultura dipende dal grado di potere che si è in grado di esercitare a livello economico o relazionale. Ovvero chi ha lo strumento per rendere rilevante la propria riflessione (o qualsiasi altra cosa ) può rendere la propria riflessione “notabile” e quindi valutabile nel contesto dei fatti che vanno a definirsi “cultura”. In estrema sintesi, è la capacità economica che seleziona il “culturale” e non la qualità intrinseca dell’espressione o la densità di elementi che il ”fatto” o il pensato mette in gioco. Perché un “progetto” diventi “cultura”, l’unica attenzione da porre é nel marketing progettuale, cioè nella strategia che utilizzo per mettere in rilievo ciò che intendo, valutando bene se esso (come fatto culturale) incontri dei bisogni o degli interessi potenziali di un determinato segmento psicosociale di riferiemento. Con qualche piccola aggiustatina, il “prodotto” viene posizionato, inserito appunto nel “setting” di ciò di cui si dovrà tener conto, al momento in cui dovrò definire o rileggere cosa “culturale” sia. Detto in modo più semplice, può fare cultura soprattutto chi detiene già la possibilità di diffondere efficacemente il proprio pensare: la possibilità è data ad esempio dall’aver già prodotto eventi culturali, o da un libro o una rivista adeguatamente diffusi e pubblicizzati, da una cattedra o da frequentazioni di ambienti universitari, da una raggiunta relativa notorietà o dalla disponibilità a relazionarsi con gli strumenti della cultura di massa, televisioni o giornali. Per ”fare cultura” bisogna entrare nelle possibilità di “potere” e di “avere potere”. Fa cultura (è determinante per essa) chi ha il “potere” di esprimere in modo rilevante il suo pensiero, indipendentemente dalla validità del pensiero stesso. Ma in definitiva fa cultura il potere di accesso alla comunicazione, che è dato dall’abilità o dalla disponibilità, economica o relazionale di entrare nel suo flusso principale: “fa cultura” la capacità di concentrare un certo potere economico e relazionale: “fa cultura” il Potere. Il discorso che intendo fare prescinde da qualsiasi senso di rivalsa o moralismo: tutto ciò lo ritengo un fatto meramente tecnico, ma appunto perché tecnico questo “potere” non sempre distingue in ciò che è in grado di mettere in evidenza. Il “potere” non distingue la qualità di ciò che può mettere in atto; ciò spetta ad altra facoltà sicuramente più densa di implicazioni e riferimenti etici, ideologici o morali, masicuramente meno determinante del “potere” stesso. So anche di non dire cose nuove, (e posso a tal scopo indicare a chi vuole una sintetica bibliografia di riferimento) ma il problema che personalmente mi pongo, è quello della necessità di continuare ancora a credere di pensare di potere “fare cultura” senza averne i mezzi. Vale la pena ? Ha senso ? Ha una sua intrinseca o estrinseca efficacia ? E’ un’ autoterapia ? E’ una dolce illusione? Vale la pena perdere tempo per essa ? Non è più utile una produzione di ortaggi biologici ? Quando si opera in area culturale ma con limitate condizioni economiche, relazionali e comunicative, si finisce rapidamente per entrare nella categoria (sublime per molti versi, e ciò detto senza ironia) dell’ “artista (anche pensatore) di merda”, come recita il titolo di un recente interessantissimo volumetto (1) oppure ci si trova relegati in circuiti talmente relativi o minoritari (adeguatamente occultati spesso dagli operatori di quelli maggioritari, a meno che reciprocamente convenienti) da non poter pensare che ciò a cui ci si dedica sinceramente e motivatamente, possa davvero, “fare cultura”.Storicamente, dovremmo riflettere meglio anche sulla “strutturazione delle culture” come prodotti di selezione economica: effettivamente in passato si potevano avere molteplici e plurali orientamenti legati a dei “poteri” (molti mecenati, molti, sovrani, molti nobili in grado di valorizzare ciò che il proprio gusto o ambiente di riferimento riteneva notevole). Attualmente la selezione della “cultura” sembra avvenire innanzitutto, a livello strumentale, per via di comunicazione, ma implicitamente, per via di un “potere” che può e sa gestire i costi e i metodi della comunicazione. E il potere è essenzialmente nell’ordine della gestione delle risorse economiche e delle relazioni, sia esse di origine privata che pubblica; in sostanza oggi attraverso le scienze manageriali, possiamo “progettare” dei comportamenti che generino un “potere”, proprio costruendo relazioni che impegnino persone, rapporti e risorse, in un sistema di reciproche convenienze. In questo “progettare” per il potere, l’elemento più labile e meno determinante è proprio la cultura stessa: è più importante il “poter fare” o il “pensare” ? e quale dei due elementi è il più adattabile? Evidentemente “costruire il poter fare” è un fatto “tecnico” e in quanto tale, non giudicabile: è giudicabile invece come questo sistema di relazioni si attua, si pone e si dispone anche in relazione alla qualità di ciò che si intende proporre come “evento culturale”. Quanto poi questo valutare serva a chi o a che cosa, è un altro paio di maniche dal momento che non si può facilmente rilevarlo o farlo rilevare e il riuscire a farlo, è inessenziale. Tutto ciò rimanda ancora alla sublime figura del “pensatore di merda” dove la merda non è l’oggetto del pensiero, ma la condizione dove il pensatore spesso esercita la sua inutile funzione. (1) Teoria e tecnica dell’artista di merda, Casini, Roma, 2004 |