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I Love Abruzzo – Ex Mercati ortofrutticoli di Pescara
E’ difficile parlare di questa mostra per via delle polemiche che l’hanno accompagnata e per via del fatto che, a mio giudizio, la sua “comunicazione” è stata piuttosto scorretta, vuoi per presunzioni legate alle polemiche, vuoi per (speriamo non intenzionale) ignoranza di tanti fenomeni artistici ed espositivi presenti ed attivi sul territorio. Va doverosamente ricordato che l’arte che si fa e si è fatta in regione non è solo questa: diciamo che vi è parzialmente rappresentata. Già per questa incongruenza d’impostazione è davvero difficile parlare di questa mostra perché se se ne dice male, si sarà facilmente tacciati di risentimento, invidia, livore ecc ecc. per non essere stati chiamati a farne parte. Mi si può credere o meno, ma davvero personalmente ho rimosso l’amarezza provata quando ho constatato l’indifferenza con cui sono stati accolti 6 anni di lavoro e almeno cinque pubblicazioni indirizzate ad una ricostruzione dell’identità culturale e storica del movimento artistico in Abruzzo. Forse non erano degne, ma nessuno mi ha mai dimostrato nel merito, il perché. Devo dire poi che mi sono liberato delle ultime “sofferenze” proprio dopo aver visto “I love Abruzzo”, da solo, lontano dai clamori e dalle modaiole folle delle inaugurazioni.. Sinceramente la mostra ha i suoi pregi e i suoi difetti e non è particolarmente impressionante anche perché diverse cose sono già state viste in altre rassegne. Mi sembra l’ennesima occasione mancata, preparata in fretta, senza alcuna riflessione, in spazi difficilissimi, da curatori approssimativi per forza di cose. Qualche lavoro interessante, tantissima accademia, molti stereotipi, logiche visuali rimediate opere sacrificatissime, nessuna analisi. Mi sembra che la salvino solo alcuni artisti. Proverò comunque a “recensirla” spiegando quelli che secondo me sono i suoi limiti, così, provando a concluderla con i suoi pregi, forse verrò insultato di meno !!! Va comunque ricordato che se si affronta una mostra, bisogna saper accettare serenamente le critiche del pubblico più attento e non occasionale, per migliorarsi, non per condannare mi si creda, non è questa la mia intenzione, perché sarebbe davvero bello che simili sforzi produttivi riuscissero a dare risultati più convincenti. 1) Il dato più evidentemente limitativo è che dietro di essa non c’è alcuna idea curatoriale. Non me ne vogliano i colleghi, ma non credo che abbiano avuto grossa mano libera nella scelta degli artisti: se ne percepisce una “subordinazione” e non una autorevolezza di scelte e decisione. In conseguenza c’e anche una scarsa attenzione ai rapporti visivi tra le opere e gli spazi: l’insieme risulta alla fine essere una sorta di vetrina (che sa un po’ di fiera o di supermarket … sarà anche la suggestione del luogo che doveva essere meglio valutata) di cose, alcune molto similari, senza logiche visuali o culturali a legarle o ad evidenziarle. Certo, trovare idee e temi non è un obbligo del curatore, ma delle volte può essere utile dare senso al percorso visivo: se non ce la si fa soltanto con le opere che si debbono gestire, si può cercare quantomeno di far comprendere il perché delle scelte. E non mi si venga a dire che basta l’evidenza visiva, che “le opere bastano a se stesse” soprattutto perché in quel tipo di spazio, tutto si perde … 2) Il secondo limite grosso della mostra è il suo rapporto con gli spazi dei Mercati. Essi sono certamente suggestivi ma indubbiamente difficili: vasti, enormi, nudi: la maggior parte dei lavori avevano poco o nulla idea dello spazio dove si trovavano ed evidentemente i curatori hanno cercato di tamponare la cosa inserendo qualche elemento “monumentaleggiante” ma visivamente non coordinato, per ammassare il resto a riempire i box. Aleggia un senso generale di dispersione, di vuoto, a parte il forte riferimento visivo all’ingresso che crea un “troppo pieno” intasante nell’unico spazio umanamente dimensionato. Scelta? Mah ! a quale scopo ? Le uniche cose riuscite in rapporto al vasto spazio mi sembrano l’installazione di De Leonibus e quella molto bella, di Petrei. Il lavoro di Fiorillo (per altro già visto l’anno scorso) si perdeva totalmente visivamente e uditivamente; di altri lavori non capivi perché fossero lì, se non per bilanciare, purtroppo inefficacemente il vuoto, (tantissimi erano posti a terra) insieme ad altri elementi disseminati si perdevano completamente nel nulla casuale. Il resto dei lavori sono ospitati nei box, a parte l’interessante lavoro di Colangelo, collocato in un lato del grande spazio. Bello, al solito provocante, ma piuttosto rattrappito dalla sua collocazione, con alcuni elementi visivi di forte disturbo visivo alle spalle e intorno. Tra i lavori ospitati nei box mi hanno interessato quello di Emanuela Barbi, intelligentissimo, in grado di occupare lo spazio di un box enorme con due pezzi piccolissimi e un geniale riflessione sul rapporto luce, spazio e fondo; quello di Matteo Fato, forse un po’ ridondante ma interessantissimo nell’evidenziare il rapporto tra tecnologia, manualità, ideazione, realizzazione e poesia ; quello di Petrei, assolutamente il migliore ad interpretare luogo, spazio e a trasformalo in chiave poetica, segnica e riflessiva. Buoni anche la videoinstallazione sonora / cromatica di T’um, affascinante ed emozionante; Belli i pannelli di Di Gregorio, ma collocati in una posizione assolutamente infelice: (dovevano respirare, avere spazio e invece sono stati ammassati … mah !) Buona anche la capacità di Sabatini Odoardi di costruire una “parete” che aveva un che di ironicamente “sacrale” attraverso il congelamento plastificato di una serie di oggetti attentissimamente coordinati (grande l’effetto di texture). Tutto il resto dicevo prima, sta tra l’accademia, lo stereotipo “à la page” , la “goliardica leggerezza” ecc ecc … alcuni lavori già visti, anche se tutti più o meno hanno degli specifici spunti interessanti (in particolare, De Rubeis, Sarra, Candeloro, Pisani, Galizia ( un po’ deludente conoscendo la sua assoluta bravura !) ma alcune cose sono straviste e abusate, mal evidenziate … diciamo che c’è tanto, tanto “neo – manierismo” epigono di altre creatività. Forse ciascuno dei lavori in sé stesso ha anche una sua sensatezza, ma spesso il loro rapporto reciproco e la collocazione nello spazio li ha penalizzati. Quanto ai maestri “storici”, la scelta delle opere (e degli artisti) è risicatissima e in alcuni casi evidentemente rimediata se non inopportuna. Si è pensato di mescolarli con gli altri più giovani, ma nel caso soprattutto di Del Greco e Di Blasio non se ne è rispettata la storia e l’identità e quindi si disperdevano … un bel dipinto del ’63 di Del Greco (gli altri ammassati in un box), un disegno di Spalletti del 1983 (quasi certamente recuperato da qualche collezionista), due lavori di Jasci piuttosto deboli nel contesto (di cui una installazione (?) a parete mi spiace dirlo, irrilevante) un paio di lavori di Colangelo (uno già molto visto, l’altro, forte, “urticante” e molto più giovane di quelli di molti dei ragazzi presenti) e, tristissimo a dirsi, in un luogo errato, dimesso, laterale, a piena luce diffusa, (quindi, in grado di annullarne completamente le delicatissime riverberazioni materiche, vera genialità dell’artista) un dipinto delicatissimo, bellissimo (se non sbaglio di proprietà del Comune di Pescara) di Elio Di Blasio. Chi lo ha messo lì? Elio gli andrà di notte come un fantasma a tirargli i piedi ! Qui faccio seguire un elenco di nomi che poco potranno dire a chi crede di conoscere l’arte in regione da una tale mostra, ma che costituiranno sorprendenti scoperte se li si andranno a cercare. Mischio, citando a memoria giovani interessantissimi e maestri, stili e linguaggi; artisti che operano da decenni, altri che espongono in varie parti del mondo e d’Europa, che lavorano con gallerie nazionali e internazionali, che iniziano adesso ad affacciarsi nel mercato dell’arte ecc. senza questi nomi, manca sicuramente qualcosa per capire la realtà: Albano Paolinelli, Mario Costantini, Guido Montauti, Antonio Matarazzo, Mandra, Claudio Di Carlo, Fausto Cheng, Lea Contestabile, Luca De Felice, Antonella Cinelli, Ivan Barlafante, Oliviero Rainaldi, Massimo Piunti, Sandro Visca, Andrea Di Cesare, Giuseppe Fiducia, Franco Summa, Mauro Folci, Vito Bucciarelli, Gianni Caravaggio, Nunzio, Domenico Boffa, Cristiana Califano, Daniele Giuliani, Lino Alviani, Simone Lisciani – Petrini, Alessandro Boni, Jorg Grunert, Alessandro Rietti, Maria Antonietta Sulcanese, Mario Ceroli, Silvia Pennese, Giacomo Sabatini, Francesca Forcella, Giancarlo Pacella, Lorenza Lucchi – Basili, Roberto Pietrosanti, Georgia Tribuiani, Cecilia Falasca, Berardo Di Bartolomeo, Barbara Agreste, Stefania Di Bussolo, Gigino Falconi, Marco Appicciafuoco, Ettore Giordani, Giancarlo Sciannella, Bruno Scafetta, Marina Bolmini, Francesca Maffei …. chiedo scusa ad eventuali altri, ma questi sono quelli che mi sono ora passati per la mente anche se ammetto di non essere un citatore indiscriminato … Il problema è che se di Abruzzo si parla in questa mostra, pochissimo si dice e si coglie del suo essere, mentre molto resta di già detto altrove, quasi che si voglia provare e mostrare la capacità di adeguamento a ciò che oggi è considerato “linguaggio giusto” per essere mostrato, senza curarsi di capire in cosa e perché si debba pur parlare di “Abruzzo”. E’ una mostra che non verifica “le differenze” ma appiana le identità nel già visto, omologa, non distingue ma adegua e seleziona i linguaggi più “digeribili” nell’internazionalismo senza chiarirne, nemmeno visivamente l’originalità (che pure ci sarebbe). Veniamo al positivo: è sempre un bene accendere discussioni, riflessioni e dibattiti e sicuramente questa mostra ne ha accesi, (anche di inutili purtroppo !) ha dato l’idea della vitalità di un ambiente, è stata uno spot utile ad un buon gruppo di personalità impegnate da tempo nella promozione delle proprie attività. La mostra ha tre quattro opere davvero interessanti, altre discrete anche se, senza un progetto curatoriale serio, non si capisce di fronte a cosa e in relazione a che queste opere andrebbero apprezzate. E’ l’occasione per far comprendere ad un pubblico più vasto e a certi collezionisti l’esistenza di un forte movimento creativo che nonostante la parzialità e la limitatezza dell’ottica della proposta, esiste, fa, realizza, crea con grande attenzione ai trend espressivi nazionali e internazionali. Diciamo che la mostra è costruita secondo un progetto di marketing non particolarmente aggiornato ma che ha una sua efficacia soprattutto a livello “provinciale”:la mostra sembra intenzionata a far scoprire agli abruzzesi che l’Abruzzo è ben inserito nei linguaggi di tendenza; dentro questi “trend” internazionali, può riuscire ad entrare nella “visualizzazione” mediatica, necessaria per farsi riconoscere “praticabile” dal collezionismo, dalle esposizioni da eventuali investitori in cerca di “pubblicità” culturale. Pur non avendo la possibilità di comprendere l’identità specifica di ciascun artista, l’insieme riesce a inserirsi nel quadro della comunicazione “maggioritaria”, grazie alla sua “debolezza” semantica, presentandosi, come si conviene oggi nei sistemi “di lancio”, come contenitore di possibilità a cui soggettivamente attingere: in questo modo, senza rilievi di identità culturale e territoriale, l’operazione riesce a coinvolgere una serie di interessi in primo luogo, sul sistema locale di finanziamento e di politica culturale. Grazie poi ad una presenza sui media e sui circuiti economici che contano, offerta dal “brand” Flash Art, si potrà forse convincere le istituzioni a concentrare delle risorse economiche dignitose verso chi da tempo cerca di avere la giusta visibilità mediatica e che intende porsi alla guida anche di strutture espositive pubbliche alle quali saprà dare il giusto riconoscimento pubblicitario nel “circolo” mediatico che conta. Si potrà così realizzare, finalmente anche per l’Abruzzo, qualche realtà artistica ( un Flash Art Museum, come a Trevi?) perfettamente inserita nei meccanismi del circuito, pronta ad accogliere grandi manifestazioni e i trend nuovi dettati dai mercati internazionali e nazionali. Ad esse potremo prontamente rispondere a livello locale, accogliendole in adeguati spazi espositivi, dotati di caffetterie, spazi per lo shopping e prodotti di “merchandising”, che potranno raccogliere pubblico in cerca di “piaceri” culturalmente più dignitosi, producendo successivamente adeguati epigoni atti a interscambiarsi nel nuovo scenario globale dell’omologazione mercantile planetaria (o almeno, italiana), creando un mercato di maestri e scolari gestito da alcune gallerie “importanti” in quanto espressione di questo circuito. E vi sembra poco? Comunque se questo sia un bene o un male lo lascio decidere al lettore.
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