Nel mondo dell’arte, gli elenchi dei nomi degli artisti sembrano avere lo straordinario potere di salvare vite o condannarle, a seconda se si sia presenti o meno in essi. Probabilmente per questa ragione esistono anche nell’editoria degli, “elenchi” di artisti e affini dove si paga per esserci. L’importante è essere menzionati, comparire e, indirettamente, riconosciuti: il fatto di vedere il nostro nome insieme ad altri, stampato, espresso, citato, è segno di considerazione, autorevolezza, stima e aumenta l’autostima; ha un chiaro effetto terapeutico .
Si può dire che, soprattutto nella comunicazione contemporanea, non può che essere così: ci fa esistere il fatto che la comunicazione testimoni che esistiamo in essa, che gli altri dicano che esistiamo.
Queste semiovvie constatazioni mi sono venute in mente dopo le rimostranze di un artista non citato in un mio sgangherato elenco … e mi sono accorto e ricordato che anch’io ho fatto lo stesso, a volte solo interiormente: lamentarmi per non aver visto il mio nome indicato dove ritenevo forse necessario. L’ambizione di essere in un “elenco” mi ha colpito, mi ha toccato, offeso e provocato il non esserci e ho inconsapevolmente causato ad altri analoga sensazione pronunciando e scrivendo elenchi, giusti o sbagliati che fossero; mi sono quindi posto la questione se davvero l’elenco salvi o condanni.
Quando e che valore ha l’essere citati? Forse, non è proprio l’elenco, ma è il contesto dove esso viene pronunciato ad avere un suo peso; ha un peso l’autorevolezza del compilatore o della rivista che lo riporta, ma soprattutto è l’urgenza di apparire nella comunicazione che tende a farci attribuire peso a tante cose, anche a delle liste. Esse, in realtà non sono propriamente “noi” e ciò che facciamo; dovrebbero limitarsi a rappresentarci, considerando il fatto che per lo più, il nome della cosa (o della persona) può non essere la sostanza del suo fare o dire.
Ma perché si può essere citati o meno? Ci sono di volta in volta motivi, secondi fini, strategie che supponiamo, che identifichiamo o immaginiamo. Raramente pensiamo che ci possa essere un motivo davvero serio che non sia la dimenticanza, il dispetto, l’ostentata indifferenza. Evitiamo accuratamente di pensare che in fondo, quello che facciamo, per gli altri possa essere davvero poca cosa, o che non sia così rilevante come presupporremmo fosse.
All’”escluso dall’elenco” penso che faccia piuttosto patire la “profondità” che va a toccare la “non considerazione” attesa: ciò che amareggia è la percezione dell’inutile affannarsi a fare qualcosa che dal proprio punto di vista, è considerato “notevole” ma che evidentemente non è percepito tale dagli altri. Fa paura la mancanza di senso che si abbatte sul nostro agire, quando ci sentiamo ignorati, perché comunque riteniamo che il nostro agire abbia la sua rilevante sensatezza. Dunque, la non considerazione attesa, ci toglie certezze e sicurezze, ma il vero problema sarebbe riuscire a comprendere che cosa e come ciò che pensiamo, facciamo e realizziamo, abbia senso, non solo per me, ma per coloro che si pongono in relazione con me. Come posso essere sicuro e comprendere che realmente ciò che elaboro costruisca “cultura” ovvero, quel sistema di relazioni dinamiche, ma identificabili, che noi usiamo per orientarci nel nostro vivere e nel nostro “costruire il senso” dell’esistenza ?. Che cosa dà reale sostanza al nostro agire?
L’attività creativa e artistica, come quella teorica e intellettuale si nutrono della relazione, sono “relazione”, si svolgono “pregando” interiormente che siano relazione. Meglio ancora se “accettazione” valore, riconoscimento condiviso, che renda notevoli e ci lasci emergere e rendere notabili da un magma esistenziale. Attendiamo ansiosi una piccola memoria di noi che ci salvi dall’autoreferenzialità, che ci collochi in una relazione, aspettando che gli altri dicano di noi ciò che ameremmo sentirci dire o quello di cui ci siamo da tempo convinti che vada detto di noi
E qui la faccenda diventa speculativamente interessante: se ciò che facciamo riteniamo costruisca Cultura, chi, che cosa può dire veramente che il nostro operare sia un fattivo e significativo elemento che la caratterizza e la definisca? Ovvero, per quale ragione effettiva, ciò che facciamo è importante anche per gli altri ? La Cultura è davvero una costruzione “sensata”, che risponde a riferimenti o processi accertabili, logici e misurabili? E’ davvero quella che noi pensiamo di star costruendo? Oppure essa non è altro che un dato casuale e sommatorio di molti elementi, alcuni dei quali, non necessariamente importanti, alcuni dei quali dimenticabili, indeterminabili, assolutamente relativi e circostanziabili ? Dunque la costruzione della Cultura è un processo casuale oppure avviene rilevando la sostanza oggettiva delle diverse proposte?
Se è la comunicazione a costruire Cultura, intesa come contesto di riferimento, ( sicuramente lo è per quella immediatamente percepita come tale) si può ben parlare di assoluta o quasi casualità e transitorietà del suo strutturarsi. Va però considerato che “l’operare culturalmente”, non delinea il suo senso e la sua dinamica “costruttiva” mentre esso si sta manifestando, ma diventa tale solo nella “memoria” che si conserva. Cioè, ciò che io creativamente o intellettualmente realizzo, acquisisce senso chiaro non per sé stesso ma per il sistema di relazioni e riflessioni che esso “fa accadere” non solo nella dimensione orizzontale del presente, ma anche in quella verticale del processo storico.
Come dire, non so se questo mio pensiero sia effettivamente importante, lo sarà se genera altre idee, intersezioni, riflessioni e conseguenze nel mio presente e tra ciò che stato o che sarà. Dunque sarà importante, se sarà ricordato, analizzato e discusso, se sarà in grado di generare successive o contemporanee riflessioni.
Un problema è però dato dal fatto che noi ricordiamo ciò che ci viene reso degno di essere ricordato, cioè che la “comunicazione” nel presente, stabilisce il “setting” anche per la discussione temporalmente ”a venire”. Ma è anche vero che la ricerca nel passato (prossimo o remoto che sia) è quella operazione necessaria per consolidare la definizione di “momento culturale” e che quindi chiunque si accinga a definirlo, ha la necessità metodologica di entrare nel “passato” con coscienza e soprattutto metodologia, che consentano alla propria onestà intellettuale di poter dire di esprimere ciò che realisticamente quel momento sia stato. Lo studioso deve quindi affrontare con più attenzione le tracce di ciò che è accaduto perché la distanza temporale sia pur esigua, permette di valutare diversamente l’accaduto dall’ accadente.
Mi viene dunque da pensare che il vero senso dell’operare sta nell’attendere le risultanti e le risonanze di ciò che abbiamo “fatto accadere” a livello di pensiero, di opere o persino di “gesto”. In questo quadro, la “citazione” è il primo elemento che ci restituisce il possibile senso culturale di ciò che abbiamo operato: è il primo livello di quell’immagine di noi che vorremmo vedere oggettivarsi nel reale “sensato”, cioè nella Cultura. E’ questo ciò che più o meno consciamente cerchiamo di realizzare: rivedere l’immagine oggettiva e significativa del nostro “aver fatto” o aver pensato, tuttavia essa non sarà mai realistica in “ciò che sta accadendo” ma lo sarà con maggior chiarezza in “ciò che è (appena) accaduto”.
La “citazione” può avere diversi livelli: il più basso livello di senso è quello dell’Elenco, che tuttavia può rivestire una sua importanza: è la prima embrionale forma “oggettivante” che permette ad un “nome” di esserci rispetto ad un contesto, di essere associato ad un processo di relazioni che può costruire cultura. Ma cosa dice realmente quel nome in un elenco, di quel contesto ?
Penso quindi che un nome in un elenco sia poco o nulla perché può non essere affatto chiarita o “sensata” la ragione reale per cui esso vi è. Diverso valore avrebbe la citazione di un nome in un numero a scalare (venti, dieci, cinque, tre, due), di un nome saldato con una logica, a qualcosa di fattivo e costruttivo. La citazione in elenco toglie determinazione, affastella in un conglomerato, è subordinata ad un concetto, e il nome nell’elenco si disperde, si amalgama perde consistenza a seconda della lunghezza dell’elenco stesso..
Non sarà dunque l’elenco che dirà qualcosa di importante di noi e del nostro fare, nel bene o nel male: se si compare in un elenco, si è sicuramente relativi o subordinati al fatto che ha reso necessaria la sua compilazione. Più lungo è l’elenco, meno è importante che il nostro nome ci sia, più vasto il contesto, meno delineata la fisionomia. Dunque è la “posizione” della citazione che la rende utile, non la citazione in sé, anche se essa può generare la curiosità.
Ho cercato di chiarire così, almeno a me stesso, come superare la sofferenza da “non citazione”. Non è un banale caso da “volpe e l’uva” ma una prospettiva entro cui collocare eticamente il proprio tentativo di produrre cultura. Non dovremmo agire pensando di capire o di far capire subito la sensatezza del nostro “vedere e pensare” ma dovremmo costantemente “vedere e pensare” perché è questo che da senso e prospettiva all’agire, al di là del fatto che qualcuno lo riconosca. E’ il nostro essere e pensare che ci rende sensati, non il fatto che mi veda “riflesso” nello specchio che desidererei. Dovremmo, in conseguenza, credere di più nel tempo e in ciò che facciamo e se dovesse accadere che mai di noi verrà riconosciuta la “sensatezza”, ci rimarrà almeno la soddisfazione di aver vissuto pienamente lo spazio – tempo che abbiamo attraversato. Il che, non mi sembra cosa da poco.