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Teoria e tecnica del critico "fallimentare"
Qualche giorno fa parlavo con un bravo artista e in un momento di sincerità reciproca, mi ha rivolto alcune critiche (sacrosante) sul lavoro che svolgo come “critico – curatore”. Pur stimando moltissimo alcune mie capacità di scrittura, organzzazione e intuizione (scusate un po’ di autocelebrazione) ha sottolineato con intelligenza alcuni miei comportamenti che non mi rendono sempre ben accetto e richiesto da molti promettenti artisti o da taluni già affermati (con i quali, ammetto, piacerebbe anche a me lavorare).
A quanto ho capito, pare che le mie capacità di scrittura e di ragionamento sono generalmente stimate, ma la mia liberalità, disponibilità (e sopportazione) verso molti artisti considerati “minori” o la mia caratteristica personale di non comparire molto nelle occasioni dei vernissage delle mostre “che contano”, mi renderebbero “poco affidabile” o sospettosamente guardato o ancora, non preferibile da molti artisti talentuosi che mirano a riconoscimenti più vasti o nazionali. Sinceramente ho molto apprezzato la critica e la franchezza di questo discorso, per altro più volte rivoltomi anche da altri amici artisti. Devo dire che è vero: mi è capitato di scrivere per artisti non particolarmente “bravi” o affermati o tutto sommato non “maturi” per contesti più professionali; mi è capitato anche di scrivere testi “storici” su artisti scomparsi o riguardanti contestualizzazioni e ricostruzioni storiche (in fondo vengo dalla “storia dell’arte”). L’ho fatto per interessi negli argomenti, per amicizia, per asfissiante insistenza, per simpatia umana e per molti altri motivi ( ma da essi vanno esclusi, vi posso assicurare, ricompense economiche o di altra natura !!). Diserto spesso anche i “vernissage” (vado a vedere le mostre in incognito qualche giorno dopo o verso la loro conclusione) dai quali sono letteralmente terrorizzato e nei quali non mi sento particolarmente a mio agio. Non so spesso cosa dire, o cosa fare … cerco sempre volti che conosco, mi allontano impacciato dai personaggi famosi circondati dai loro codazzi. Non so ben vendere il mio prodotto e sono a disagio nel pensare di essere comunque li per farlo. Ho a lungo riflettuto su queste rimostranze e sui miei comportamenti e ho cercato di capire perché: certo, per migliori successi professionali si dovrebbero frequentare di più le mostre, stabilire approcci, contatti, relazioni, far nascere cose da cose, in maniera intenzionale o anche casuale. Si dovrebbe prestare più attenzione alle persone per le quali scrivere, scegliere i “cavalli” giusti, che portino le proprie riflessioni e capacità di intuizione e di scrittura, con loro nei successi futuri e nei contesti più importanti; si dovrebbe proporre di più, girare di più, osare di più, avere più visibilità mediatica, capacità relazionale ecc. Tutto ciò è necessario per avere un proprio spazi, possibilmente di rilievo, in un contesto molto molto particolare come quello dell’arte contemporanea italiana: inoltre per essere giovani bravi curatori si frequenta un bel corso istituzionalizzato, si conosce il grande giro e voilà, si diventa accettabili, richiesti, internazionali e si aprono le porte regali delle grandi mostre e delle grandi istituzioni e dei loro affascinanti ambienti. Un “famoso curatore” italiano mi fece sapere una volta, che aveva letto delle mie cose: ero bravo, davvero e che dovevo imparare a muovermi, andargli un po’ dietro se volevo “sfondare”. Era necessario conoscere la gente giusta, avere le relazioni che contano: lui era disponibile … ma io di meno. Tutto il castello di relazioni era “prioritario”, al di la della qualità della riflessione e della scrittura … se io avessi rifiutato, comunque ne avrebbe trovati a decine di ragazzi più giovani e ambiziosi che sapevano scrivere. Ricordo anche un’altra mia grande occasione (quella di poter lavorare con un altra famosa curatrice italiana ad una rassegna internazionale). Quello fu il mio capolavoro di cosciente inettitudine: non mi presentai al momento giusto, perché scelsi di star dietro ad una figlia piccola, anche perché ero in un imbarazzo assoluto su come dover gestire quella situazione per la quale ero stato mio malgrado fortemente “raccomandato”. Ricordo che venni da lei rimproverato per la mia assenza e trattato come un folle, ma poi il “famoso curatore” (curatrice in questo caso) persona intelligente e sensibile, mi chiese il perché e io potei spiegarglielo. Comprese meglio il mio atteggiamento e mi gratificò con ciò che di meglio poteva darmi: la sua stima e la sua confidenza umana, cose che per me sono state importantissime per maturare una identità e un pensiero, dunque un autentico “dono” intellettuale e professionale … Insomma ho perso diversi treni, e oggi vedo che molti altri hanno difficoltà a passare nuovamente per la mia stazione. Ho cercato dunque di capire il perché dei miei comportamenti. E ho trovato alcune risposte sul filo del ragionamento, risposte che credo non siano solo “personali” ma che abbiano anche qualche risvolto teorico istituzionale di qualche interesse. Innanzitutto mi sono chiarito il perché mi lascio talvolta incuriosire dai cosiddetti “artisti meno bravi” (tralascio i casi di assedio telefonico e di asfissiante pressing): io credo che sia importante che un “critico” possa dir loro qualcosa: diciamo che il medico serve ai malati e poco ai sani. Se noto qualche spunto interessante nel loro lavoro penso possa essere corretto rilevarlo per invogliarli a crescere, purchè lo si contestualizzi correttamente nell’ambito opportuno di riferimento o di livello della loro produzione. A questo proposito, si viene criticati dagli altri, in quanto “si è scritto qualcosa per” tizio o caio” ma mai si legge cosa si è scritto. E questo è un punto interessante: vale di più ciò che si è detto o il gesto compiuto ? Se si avesse la ventura di leggere le cose in questione, ci si potrebbe accorgere forse che è possibile fare discorsi non peregrini che non servono per incensare comunque ciò che è scarso ma solo per collocarlo nello specifico “ambito di senso”. Ma non li si legge. Vale di più il gesto. E’ forse così anche nel caso opposto ? Ha davvero valore o interesse ciò che viene detto? E qui apriamo ad un universo di considerazioni che cercherò di esporre attraverso questo apologo. Qualche tempo fa mi venne a trovare una giovane artista che io in passato ho (evidentemente ben) consigliato su come muoversi per la propria carriera. Cominciava ad avere i primi riscontri di mercato e di interessi di gallerie e riviste e proprio da una galleria gli viene proposto un articolo su di lei, a firma di un curatore “rampante”, tutt’ora di un certo peso relazionale e mediatico che sicuramente l’avrebbe lanciata su una importante rivista italiana. Felice per lei, lessi il pezzo che mi presentò, pur senza particolari (suoi) entusiasmi. Personalmente lo ritenni disgustoso: quel tizio non aveva capito un acca della sensibilissima personalità e della qualità della pittura che aveva davanti: tutto era giocato su becere ambiguità sessuali, molto forti, ma il pezzo pruriginosamente, “tirava”. Io le chiesi se si riconosceva in ciò che era scritto e lei mi rispose di essersi sentita trattata come una “puttana” e si era vergognata. “Allora” - le chiesi – “cosa intendi fare?” “lo lascerò pubblicare” – rispose – “perché lui (il curatore), mi ha assicurato che questo serve per attirare l’attenzione del mercato, anche se non è vero niente e ha scritto questa cosa tanto per “lanciare” un personaggio e creare attenzione” . “Ma allora, pensi sia giusto che si dica questo di te? Pensi che il tuo lavoro e la tua persona meritino questo?” – “No. Io so come sono e lo sai anche tu, ma questo mi serve, questo mi apre delle porte e una pagina intera sulla rivista più letta d’Italia – sono venuta qui solo per dirti che solo quello che tu hai scritto di me e del mio lavoro è vero e mi ha permesso di capirmi e risolvermi su tante cose e non volevo che ti sentissi offeso adesso che scelgo un altro treno. Il tuo lavoro è bello e giusto, il migliore. Volevo dirtelo … ma adesso ho bisogno di questo per andare avanti.” Ci siamo salutati amichevolmente (io con un po’ di amarezza): a me è rimasta la stima imperitura e la verità. La ragazza in questione non si è più fatta viva. Espone e vende regolarmente: la sua ricerca si è sempre più orientata sulla fisicità, la tensione erotica, l’ambiguità. La verità non era necessaria, faceva parte di un qualcosa di superabile e di superato. Morale: non importa cosa si scriva, purchè serva alla circostanza. Non è dunque importante che si “pensi” l’arte e si rifletta su di essa, ma più importante è il “potere” di mettere in visibilità e in “relazione utile”. Tutto ciò rimanda ad un tema sul quale mi capita di tornare spesso: è un tema molto profondo che riguarda la “sostanza” delle ricerche artistiche che si diffondono: essere bravi, avere qualcosa da dire, (per l’artista o il critico) può non voler dire nulla se in quel periodo il trend del mercato è differente dal tuo operare e se non trovi spazi adeguati per “comunicare” efficacemente il tuo “esserci”. Non vale la qualità della ricerca e della riflessione (se c’è, tanto meglio) ma la sua possibilità di trovare un circuito di interesse … ma questa possibilità è data da scelte “curatoriali” o redazionali, che avvengono nella maggior parte dei casi, “per circostanza interessata”, per casualità relazionale, situazioni che spesso sono indirizzate e determinate dalla possibilità di essere economicamente competitive, grazie alle inserzioni o agli appoggi di gallerie o istituzioni semipubbliche. Puoi essere bravo a capire qualcosa di arte e per questo avrai sempre eterna stima, ma la verità non è necessaria né a chi scrive, né a chi legge. Oggi non è necessario “pensare” o esprimere un pensiero è necessario essere dove le scelte comunicative si fanno e questo luogo coincide con “il potere”, ovvero la capacità economica e la gestione della comunicazione. Non è una verità che se si è bravi si è riconosciuti: la qualità del fare qualsiasi cosa non si dà “in sé” ma funziona se ben spesa o spendibile in determinati (e giusti) circuiti relazionali. E’ necessario essere lì dove si ottenga visibilità. E’ molto più utile la possibilità di rendere visibile e notabile ciò che si fa , piuttosto che la sua eventuale sostanza. Basta scegliere “l’area” che possa essere potenzialmente interessata al prodotto che proponi. Qual è in una ricerca o in un pensiero, l’elemento più “duttile”, più plasmabile allo scopo? Quello che viene trasmesso con la parola, che in realtà può dire di tutto e il contrario di tutto sulle esperienze artistiche se non viene orientata da una etica scientifica e da una autentica ricerca di senso. La parola e la comunicazione possono essere finalizzate a risultati concreti, al di là della verità o della sensatezza di ciò che affermano. In arte, che cosa è più duttile e adattabile perché si possa ottenere particolare visibilità? Si può farlo consciamente o meno, ma si sa cosa può avvantaggiare e cosa no, cosa è più “riconoscibile” o no a seconda del contesto dove ci si desidera inserire. Dunque, è l’arte che ordina e dispone il sistema che la rende nota, o è il sistema che ordina l’arte che si vuol rendere nota? Fino a che punto il gioco delle relazioni può essere condotto o giocato senza cambiare, adattare e modificare più o meno consciamente, la propria identità ? Come riconoscere l’autentico dal gioco, come sviluppare l’autonomia di un immaginario lì dove l’immaginario può essere ordinato dai fenomeni di setting della comunicazione finalizzata necessari per “farlo esistere”? Fino a che punto si è certi persino in se stessi, dell’autonomia delle proprie scelte espressive e relazionali? Temi epocali, introspettivi e desueti, chi ha davvero voglia di affrontarli? Non sono da biasimare gli artisti che in una giungla di cose hanno la necessità di mostrare e mostrarsi, ma che prezzo può pagare la loro autonomia, accettando il “setting” proposto dalle modalità parzialmente imponderabili che determinano la comunicazione sull’arte? Dal mio punto di vista ho maturato una serie di “comportamenti di autodifesa” che in definitiva sento come la mia originalità e la mia condanna ad essere sostanzialmente un “critico fallimentare” intendendo per fallimentari non gli argomenti o le cose di cui mi interesso, ma il risultato “pubblico” , il successo, il potere mediatico e non che la mia attività realizza. Sono sinceramente a disagio nella giungla di relazioni e illazioni, di poteri veri, ostentati o presunti, della logica della “casualità mondana”, non sopporto il fatto che si possa vendere comunque qualcosa, rifiutando di provare a comprenderne identità, valore e eventuale sostanza e evitando di partire da esse per costruire le relazioni . Trovo offensivo un catalogo dove non ci sia un testo e dove esso ci sia, non sia sensato o sia scritto in critichese para – italiano, inglesizzante, poetizzante oroscopizzante; o dove il testo sia meramente finalizzato alla promozione o massacrato dallo styling del format. Percepisco come un insulto la resa dell’intelligenza che “ricerca la sensatezza”, all’etica dell’esserci comunque, sia pure per il nobilissimo scopo finale di rendersi notabili e così essere finalmente liberi di essere se stessi. Non riesco ad adattarmi al convenzionalismo modaiolo, alla celebrazione del giovanilismo effimero, alla casualità delle fortune o delle disgrazie, non mi piacciono la volubilità del trend o delle relazioni interessate, non mi adatto al fatto che prima venga il “potere” (il poter fare) e poi il pensiero, non mi piace la presunzione di affermare verità e ancor meno quella del preconcetto sulle persone che mi sono di fronte; non mi piace la mancanza di rispetto dell’identità, della verità, anche (e soprattutto) se essa è più modesta o meno famosa o meno “relazionalmente intrecciata” di altre. Gli artisti usano l’imbecillità e le presunzioni dei curatori, i curatori usano l’ambizione e il talento degli artisti, tutti e due usano spesso il pubblico che osserva e non capisce e pensa che il gioco che si stia giocando abbia sempre senso. Un gioco a sfruttarsi che spesso ( ma grazie al cielo non sempre) si fonda sulle ambizioni o presunzioni privatissime, giocate in una società che ha per scopo il rendersi notevoli. Un gioco di relazioni raramente spezzato dall’onestà intellettuale di questo o quel critico da questo o quell’artista. Anche al curatore integerrimo, all’intellettuale più rigoroso, fa più comodo realizzare una rassegna con 20 raccomandati o “molto noti” su 40 ma con 50.000 euro di budget e ampia visibilità piuttosto che una mostra intellettualmente ineccepibile di (bravi) sconosciuti scarsamente ammanicati con 10.000 euro e conseguente scarsa comunicazione. Per essere su di un giornale che conta, si fa di tutto, si paga la pagina o l’attenzione, per avere il curatore “popolare” si paga ma per pagare devi vendere e devi in qualche modo, essere sicuro di farlo, che tu sia giornalista, curatore, gallerista, intellettuale, artista, amministratore. L’artista che vuole andare avanti, chiamerà il critico bravo o il critico famoso ? Meglio se bravo e famoso, ma il binomio è raro e costosissimo, anzi, spesso non lo si compra nemmeno. Il committente che vuole avere successo chiamerà il critico bravo o quello famoso? Quindi è vero, con certi miei comportamenti, mi ritaglio l’abito del perdente. Per il resto in ciò che faccio sono capace di poche cose di scarso apprezzamento, al giorno d’oggi o meglio, cerco di tendere ad esse: l’ onestà intellettuale, di qualsiasi persona io parli, la responsabilità di fare le cose al meglio; l’attenzione a documentarsi, il rispetto dei tempi e degli impegni, l’ascolto. Non è stata e non sarà mai mia intenzione osannare gli artisti di relativo calibro ma se le circostanze mi portano a parlarne, cerco di rilevarne il positivo; questo ti aliena i più bravi, ma loro non sentono il bisogno, la necessità di discutere di una possibile verità, perché partono dal presupposto (anche fondato) che con le parole si possa dire tutto e il contrario di tutto. Si preferisce più o meno consciamente il meno bravo ma “relazionalmente giusto”, che abbia un certo “potere” di far mostre interessanti e di aprire relazioni utili. Con queste riflessioni mi sono spiegato perché spesso lavoro poco ma sono assediato spesso da artisti semisconosciuti dalle relative capacità. I meno bravi desiderano i miei testi per qualificarsi, perché, al di là di ciò che io posso dire, varrà la piccola notorietà acquisita. I più bravi (ma anche i più sicuri di sé e del proprio sistema di relazione) non hanno bisogno necessariamente di indagare il senso di ciò che fanno ma piuttosto necessitano di promozione e questa non necessariamente passa attraverso l’analisi corretta di un pensiero e di una coscienza. Dunque il mio amico artista ha ragione e beninteso, questo discorso non è un biasimo nei suoi confronti o nei confronti di altri. E’ così. La logica dei sistemi di relazione impone questo atteggiamento. Mi consola il fatto che amici artisti bravi (e intelligenti) cercheranno sempre di convincere i critici o gli intellettuali che stimano ad essere più “visibili” a costruire relazioni proficue, ad avere maggiore autorità nella comunicazione, perché vorrebbero davvero che esista un critico, intellettuale bravo e capace, intelligente e “relazionalmente potente”. Tutto ciò non ha nemmeno intenzione di vendere il prodotto del “bravo e onesto” critico ma è solo un modo per riflettere sul mio intimo e personale “senso” di autenticità e coerenza che spero possa un giorno emergere più dalle scelte fatte che da teorie. Grazie comunque agli amici artisti che mi stimolano a conoscermi meglio: possono fare del bene agli intellettuali così come i critici possono far loro del bene alla loro ricerca, ma a condizione che si cerchi qualcuno che dica la verità di ciò che vede e che gli sembra di capire.
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