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Performance di Angelo Colangelo
del 22 ottobre 2006
In uno spazio pubblico aperto, tra le indolenze o le necessità di passeggio di un giorno qualsiasi in una città qualsiasi, tredici persone impersonano silenziosamente, interrotte appena da piccoli richiami di un burattinaio che si nasconde tra di loro, il disagio della relazione, l’ottusità degli individualismi. Pronte a mordersi, ma impossibilitate a farlo realmente da una museruola reale e metaforica del perbenismo della convenzionalità, mordono per davvero con gesti e con l’indifferenza reciproca lo spazio e le relazioni che intervengono inopinatamente tra loro.
Carnefici e vittime, padroni e schiavi di loro stessi, cambiano ruoli ma rimangono gli stessi di prima, cambiano schieramento ma sanno fare solo la stessa cosa. Non cambiano perché l’orizzonte non cambia, perché la museruola impedisce sì di farsi davvero male ma anche di esprimere una qualsiasi diversità, una qualsiasi differenza, un qualsiasi dialogo. Se si facessero male? Se potessero per davvero mordersi? Forse la sofferenza reale li strapperebbe alla meccanicità assurda del processo in cui sono ? Forse, se non fossero così imbavagliati saprebbero almeno cos’è il dolore dell’alienazione dall’altro? O forse la museruola è una scelta cosciente di chi in fondo recita soltanto il gioco del cattivo perché in fondo, con essa, non ci si farà mai davvero male ? Insomma la performance diretta e concepita da Angelo Colangelo in Piazza Salotto a Pescara, del giorno 22 ottobre 2006 è una specie di caustico sputo in faccia ad un universo relazionale purtroppo molto simile al nostro quotidiano: arrivati tutti da non si sa dove e diretti dove si è partiti, ci muoviamo più o meno nello stesso modo, in tante direzioni opposte e casuali, in uno spazio contestuale vasto, ma incapaci di andare oltre il microcosmo istituito convenzionalmente dalle relazioni obbligate, sterilizzati nell’espressione e nel pensiero da una museruola che sa di aggressività e repressione allo stesso tempo, che diventa “preservativo” delle relazioni feconde possibili con la parola. La metaforizzazione dei gesti espressi nell’azione appare infinita: ma sarebbe poco rinchiuderla nell’etichetta di una pur sontuosa “denuncia”. Se essa non fosse stata attuata in una sorta di moderna e consumistica “agorà” di una cittadina a metà tra l’”ancora provincia” e il “possibile centro”, se non fosse stata posta nel cuore di una città – scimmia degli stereotipi cultural – mediatici della becera Italia del litigio continuo, della presunzione confusa con l’identità, dell’egoismo esaltato come via del successo, forse la “denuncia” basterebbe a spiegarla. Ed invece il luogo e il contesto reale in cui è accaduta la configura come rappresentazione scenica di una identità e di una condizione condivisa, subita e attraversata. Ed è questo che fa male, perché in essa ci si può riconoscere partecipi, oltre che provare a riconoscere “gli altri”. In fondo, i tredici automi + burattinaio + museruola, potremmo essere davvero noi e potrebbero essere davvero coloro che ci circondano. Se l’azione si fosse limitata ad essere lo specchio ossessionato, la rappresentazione metaforica e mimetica di una condizione, ben poca speranza potremmo trovare in questa foto disperante del nostro stato di cose. Ma lo specchio svela: il “vedersi”, l’osservare attraverso una simile azione, mostra il lato oscuro del nostro comportarci e ci mette di fronte alla coscienza e al discernimento. Rappresentare significa riconoscere; rappresentare (nello spazio reale, più che in una astratta scena) è l’inizio del terapeutico percorso dell’autocoscienza e se essa non si arresta nell’introversione, ci apre alla necessità dell’alterità, della differenza e della possibilità contraria. L’azione di Colangelo, implica la necessità completiva della giustizia, la sete di autenticità, la necessità impellente e necessaria di pensare un mondo “altro”. E’ un atto così intensamente e negativamente assurdo da negarsi da sé, da portare in se stesso l’implicita necessità che così mai la realtà non sia. Va da sé quindi che ciò che è stato attuato non è un racconto tragico e nemmeno un giudizio spocchioso su ciò che non piace e non si condivide, ma è piuttosto una sorta di richiesta disperata di autenticità. Questa capacità di far nascere il desiderio di qualcosa di ulteriore, far intravedere nuove possibilità del pensiero, nuovi orizzonti e percorsi di senso, oltre ciò che materialmente si rappresenta credo sia una delle funzioni intrinsecamente “classiche” dell’arte. Ciò dimostra come “contemporaneo” può essere più classico della “forma” artistica che attribuiamo al classico e, come dicevano gli antichi è davvero classico chi sa leggere ed esprimere il senso del proprio tempo.
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