RIFLESSIONI SULL'ARTE 

A cura di: Antonio Zimarino
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L'unico dire possibile
 

Forse per salvarsi un ruolo, forse per rimuovere la percezione reale della propria utilità, ci si continua ad ostinare sull’esistenza di un pensiero possibile riguardo l’arte nella nostra contemporaneità. Non che essa neghi che il pensiero non possa essere ancora espresso o pronunciato: è questa una inevitabile facoltà degli umani, ma il contemporaneo non sembra preoccuparsi di trovare tempo, modo, intenzione e voglia per capire quale sia il pensiero, in relazione a cosa si ponga, come proceda, perché si esprima e si ordina.

La percezione del “contemporaneo” in arte si rileva dall’osservazione di ciò che gli operatori riescono a rendere visibile, in relazione alle loro scelte, dalla loro idea, necessità o utilità che qualcosa si dia per visibile Per cui l’idea di contemporaneità viene orientata da ciò che si riesce a percepire di essa; ma l’arrivare a “farsi percepire” in modo sensibile ed evidente è una condizione, un processo, che sta prima dell’idea che noi stessi possiamo farci della contemporaneità.

Ciò che percepiamo come contemporaneo, attraverso gli strumenti di comunicazione e osservazione a nostra disposizione, è frutto di una scelta, di una serie concatenata di scelte che stanno dietro la possibilità di “esser vista”.

La scelta è già un “giudizio”, mentre noi non possiamo che vedere nell’immediato, ciò che ci è consentito di vedere: noi percepiamo del contemporaneo ciò che possiamo arrivare a vedere di esso ma la scelta di ciò che accede all’essere visto resta oscura nelle modalità e nelle combinazioni che la danno.

Dunque il parlare dei più di arte è già un parlare su una condizione casuale: forse, allora, sarebbe necessario criticare ( nel senso di “analizzare”) il processo, il formarsi del giudizio, la logica che gli sottende, le conseguenze e i presupposti del suo porsi: in virtù di quale necessità e di qual processo si esprime?.

Ragionando, mi riferisco ovviamente al ristretto campo delle arti visive che tuttavia ritengo essere un “luogo” che può dire molto anche su un atteggiamento esistenziale, e allo stesso tempo, un luogo che apre lo spazio ad una disamina del processo attraverso cui si costruiscono, si elaborano e si scelgono categorie relazionali o percettive. Quali processi o motivazioni stanno dietro il pensare la necessità di un pensiero sull’arte, dell’arte e attraverso l’arte? Perché “dico” dell’arte? Perché “esprimo” su di essa? Come mi esprimo? Ipotizzare risposte a riguardo, provare a delineare possibili letture della questione, ci consente di capire lo strutturarsi e l’esplicarsi di una serie di processi che costruiscono o rilevano un immaginario che a sua volta può avere una forte incidenza tanto sul costruire che sull’esprimere delle modalità dell’ essere – nel – mondo.

Dico “d’arte” perché farlo può servire alla costruzione di una rilevanza economica e mediatica che gratifica anche me; posso farlo per il desiderio di partecipare alla costruzione di un “percepito”, di un “riconosciuto”, perché ciò permette anche a me di essere conosciuto e percepito, me, con il mio pensiero e la mia conoscenza; posso farlo perché il senso di “svelamento” allevia la mia inconscia sensazione di “minorità” di fronte ad un esistente; posso farlo perché cerco risposte o perché voglio poter dare le mie; posso farlo perché ciò che vedo provoca l’intelligenza chiusa nella “semioscurità” del suo disporsi. Posso farlo perché cerco di orientarmi e di leggere un universo contraddittorio di segni e segnali; posso farlo perché non mi è sufficiente l’adagiarmi in ciò che si dice sia la “realtà”, “l’importante”. Posso farlo perché mi fanno ridere le pretese di verità, gli atteggiamenti slegati dallo stesso senso di un pensiero.

Insomma: “perché dire dell’arte” è la questione cruciale del pensare su di essa. E’ ciò che dà il “tono” attraverso cui potrò pensare e parlare, attraverso cui potrò capire o meno.

Alla radice di un esprimersi e di uno scegliere, c’è un senso esistenziale che motiva la necessità dell’espressione e della scelta stessa. C’è un atteggiamento verso le cose, un modalità di viverle e respirale. E paradossalmente, la qualità, la sensatezza del mio approccio al vedere e al vivere la relazione con l’arte, determina in qualche modo la sensatezza e la rilevanza di ciò che dirò e ciò che saprò vedere. Le cose non esistono se non sono riconosciute e l’arte stessa, l’opera che la esprime, non sarebbe nulla se non incontrasse l’intelletto, la sensibilità e l’anima che la riconosce e la “ri-esprime”. Paradossalmente l’arte è fatta dal pensiero che la riconosce: ogni cosa è in quanto riconosciuta. Ma il “come” riconosco, non è un valore secondario, e nemmeno il “perché” o il “quanto”.

Non basta dunque affermare che una cosa sia, ma bisognerebbe spiegare, capire, ipotizzare e suggerire perché essa sia e come può essere. In definitiva è la qualità del mio riconoscere che offre la possibilità di capire o ipotizzare attorno ad un senso possibile della cosa riconosciuta. Pertanto non posso dire davvero nulla di sensato delle cose, senza dire il perché sto dicendo qualcosa.

Un’arte che non dica il suo perché non è credibile e non è nemmeno credibile fino in fondo se il suo perché non è credibile. Che cosa davvero si dice oggi dell’arte? Cosa si riesce a riconoscere di essa?

Ma il problema della qualità del dire l’arte o sull’arte non sembra sussistere perché in fondo non sembra che oggi ci sia una necessità di comprendere. Forse è questo uno dei mali della coscienza e della cultura contemporanea: rifiutarsi di “riconoscere”, limitandosi ad indicare. Riconoscere è un processo complesso, interminabile, costante e continuo: è l’apertura ad una alterità, ad un esistente diverso che non si può intuire se non con l’apertura della propria singolarità: le cose vanno viste e dette per ciò che sono, o almeno, per ciò che si riesce a cogliere, senza pretesa di dirne il vero, ma sperando di dirne almeno un “possibile” credibile. Lo sforzo dell’intelligenza, il tentativo di dire dell’arte è quello di percorrere in qualche modo, l’identità dell’alterità, lasciando qui e là delle tracce che altri possono eventualmente ripercorrere, dimostrando se mai era migliore altra strada, o se quella che si sta percorrendo è credibile.

L’unica capacità di capire é cercare interminabilmente le verità dell’altro da sé. Senza questa prospettiva, il dire non ha senso o diminuisce o allontana dalla realtà osservata.

Non è possibile più tirarsi indietro da questa necessità, a meno che non ci si voglia condannare ad un gioco di marionette, ordinate del motivo occasionale. Perché dico, perché faccio, perché scelgo, e su quel perché giocare il gioco del senso e della comprensione.


Theorèin - Febbraio 2007