RIFLESSIONI SULL'ARTE 

A cura di: Antonio Zimarino
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Ripensare i fondamenti
 

Spesso mi chiedo, organizzando, allestendo e visitando mostre d’arte, dove stia il senso profondo e reale di ciò che si sta facendo. Analizzo con grande attenzione e un po’ di sconcerto, le strutture e le modalità del “rito”, dalla produzione alla discussione e poi le altre forme convenzionali più o meno necessarie, dal “vernissage” al complesso sistema relazionale che scatta durante il suo svolgersi, o all’altrettando difficile e casuale rapporto con l’informazione. Da un lato constato l’inanità e la futilità di tante cose, dall’altro rimango a pensare al grosso “dramma” che realmente si svolge attorno a queste situazioni: desideri di attenzione, pretese, dichiarazioni, ambizioni, pregiudizi, sorrisi forzosi, ma poco, molto poco parlare di ciò che sarebbe la giustificazione dell’intera messa in scena: l’arte. L’arte sembra “fuori”. L’arte appare davvero un pretesto convenzionale per inscenare la commedia del “darsi senso”: l’arte è un pretesto per credere, sperare e autoconvincersi di fare esistenzialmente qualcosa di (forse) utile. Tanto per chi la guarda e la frequenta e tanto, troppo spesso oggi, anche per chi la produce e per chi ne parla. In realtà il gioco delle parti che sta dietro la produzione e la fruizione dell’evento – mostra, mette a nudo un fatto sostanziale: l’arte conteporanea sembra oggi il pretesto d’altro. E’ il pretesto dell’esistenza di un mercato ricco e complesso, che coinvolge una elité economica e culturale che ci tiene bene a definirsi e a mostrarsi come tale. E’ il pretesto della generazione e della giustificazione di “sensazioni”, emozioni, atteggiamenti, comportamenti individualistici trasgressivi, anch’essi elitari. E’ il pretesto per riconoscersi e farsi riconoscere appartenenti ad un milieu superiore. L’arte e la posizione che si occupa nel suo gioco, sa offrire unaa certificazione qualitativa d’importanza pubblica e mediatica . Nella costruzione di una mostra, nella gestione del sistema di relazioni di questo microcosmo professionale, paradossalmente l’anello debole è e resta cosa effettivamente si mostri, perché e che senso abbia. Il “critico – curatore”, categoria che il gioco del’esistenza mi assegna, garantisce con il suo eventuale esprimersi, (ma la sua parola può non essere necessaria) la credibilità e la solidità di un edificio espositivo. Può essere sufficiente anche solo la sua presenza, se è mediaticamente riconoscibile mentre non importa davvero niente a nessuno se ciò che dice è sensato o se sia il postumo di una sbronza intellettuale (o reale). L’importante è il gioco di ruoli che si è creato, così come la rilevanza d’apparire, la presenza convenzionale, l’atteggiamento che si è stati capaci di costruire, le relazioni gestite, la presenza nel riconoscimento collettivo e l’amplificazione pubblica e mondana. Si accetta ciò che il critico – curatore dice o non dice, soprattutto se mediaticamente autorevole, per desiderio di costruire una relazione “fruttuosa” con lui e si cerca di tastarne il “potere effettivo” di garantire la visibilità di un evento, se ne critica atteggiamento, ruolo, potere eventuale, furbizia, abilità, savoir – faire ecc… è l’opera dell’artista sta lì, ostensorio di forma e significato impreciso, ad osservare muta il chiacchiericcio spesso futilissimo degli avventori, sta lì come causa occasionale di un gioco ben più importante di ciò che l’opera possa essere: il gioco per “farla essere” a seconda degli interessi spesi e coinvolti di ciascun attore del gioco stesso. Perché prendersi la briga di capire cosa realmente sono le opere? In fondo, cosa dicono talvolta se non cose che possono essere dette da un film o da un discorso? In fondo si può continuare a vedere tutto e il contrario di tutto, perché mai affannarsi a capire. Perché le mostre d’arte sono diventate per lo più il pretesto d’altro e non sono più la “ragione” del trovarsi? Chi o cosa certifica davvero che ciò che è presente in mostra sia arte? Esiste un principio in base alla quale essa sia riconoscibile? Chi mi assicura che quella sfilza di parole più o meno comprensibili alla media degli umani non nascondano il vuoto? Chi mi dice che ciò che sono stato chiamato a vedere, ad allestire o che ho da artista, cercato di realizzare, abbia davvero la potenzialità di giustificare il senso del gioco?

Credo che in realtà ci sia un approccio generale all’arte contemporanea che è fondato su un “equivoco necessario”, necessario a giustificare tutto ciò che sta intorno all’arte e ovviamente non l’arte stessa. L’equivoco é nel non voler accettare la assoluta inutilità e impossibilità teorica contemporanea di dire cosa sia oggi l’arte. C’è chi afferma invece che sia questo o quello, molto spesso affermando cosa non sia, in base a questa o quella ragionevole teorizzazione che normalmente affonda o nella riaffermazione della tradizione o nella negazione para avanguardistica della stessa. Chi lo fa, nella migliore e più pura delle ipotesi, non sa leggere la complessità dei tempi o si rifiuta semplicemente di farlo. L’equivoco vero sta nel non voler “strappare il velo” della finzione: non c’è sistema filosofico credibile a definire consensualmente la riconoscibilità o la delineazione dell’idea di Arte. Per quanto ci si affanni, non si può non ammettere che non è credibile più alcun “a priori” che giustifichi il senso pieno di una realtà.. Chi mai dunque può dire cosa sia o non sia arte? In base a quale principio? L’unico modo credibile oggi per parlare d’arte, e meno che mai per definirla, è quello di indagarla nella sua particolare identità e se mai, dire qualcosa di lei come “processo”. Fuori dalla logica di una “estetica analitica”, c’è tutto e il contrario di tutto, finanche la sottomissione della ragione e della qualità dell’opera, a indicatori di valore che sono “fuori” della sua identità, quali il “consenso” o il “valore di mercato”, condizioni assolutamente determinabili da processi esterni all’attività artistica.

Ciò che oggi è detta arte contemporanea e riconosciuta come tale, trova giustificazione solo da due fattori, uno decisamente più credibile dell’altro. Il primo è la “storicizzazione relativa”, a riguardo della quale vedremo, vanno indicate e coosciute alcune “strategie” che l’hanno portata ad essere elemento di riflessione storica. Il secondo fattore è la “visibilità” che il personaggio, il manufatto o la sua tipologia generale acquisisce nel sistema mediatico. Nel primo caso, il riferimento immaginale che rende intuibile uno “status” di arte è l’attività, l’opera di un’artista che superando diversi processi selettivi del mercato e dei sistemi espositivi, diviene prototipo ed esempio riconosciuto come “significativo” dalla generalità degli operatori, rispetto allo svolgersi della cultura artistica contemporanea o della cultura tout – court. Perché ciò accada è necessario un “tempo storico” di selezione, una riflessione complessa rispetto all’insieme di ciò che visualmente un “periodo storico – sociale” più o meno esteso, ha prodotto. L’opera e l’artista hanno superato selezioni “casuali” (comunicazione, mercato ecc.) e selezioni mirate (critica, critica storica, riflessione intellettuale) per poter essere dette “significative” rispetto al tempo e al contesto culturale e intellettuale che le ha prodotte. Se tutto ciò è avvenuto, significa che è trascorso uno “spazio – tempo” tale da dare la possibilità di definire e rilevare la portata di “senso”, la credibilità culturale dell’opera. Sono intercorsi dei processi culturali ulteriori che hanno riconosciuto la credibilità sostanziale di quella proposta d’arte. Parliamo quindi di una “contemporaneità relativa” cioè di uno scarto necessario di tempo tra la “proposta dell’opera” e il suo complessivo e riconosciuto accoglimento come “dato culturale” condivisibile . Non si è definito così “cosa arte sia” ma per lo meno si è precisato un riferimento culturale, un elemento condiviso che consenta d partire alla ricostruzione storica probabile di ciò che culturalmente è accaduto.

Secondo caso: parliamo convenzionalmente di “arte” in relazione alla visibilità nell’immediato di determinati “manufatti” che, attraverso un ciclo costante di ripetizione o di presenza sui “media” vengono definiti come “artistici”. La visibilità e la certificazione della qualità di questi prodotti è fornita da “garanti” (critici, curatori) dalla “presenza” nel sistema mediatico in contesti che la stesso sistema certifica come significativi.Riferito al precedente criterio, questo appare semplicemente il processo fondamentale della definizione di un “gusto” dominante, definito, spesso in modo mirato, da chi è in grado di gestire capitali e relazioni ingenti nel campo del sistema mercantile e mediatico.

Appare chiaro che nel primo caso viene innescato un processo pluralistico di accertamento e definizione della qualità dell’opera, storicamente distante e meno coinvolto nell’eventuale successo economico della stessa. Nel secondo caso, la certificazione di qualità o di identità del prodotto (il suo barcode) appare assolutamente volatile e circostanziale e anche esplicitamente indirizzabile e governabile secondo la capacità, il potere di allestire una strategia adeguata alla visibilità stessa. Nell’immediatezza degli accadimenti non è possibile esser certi di quale “cultura” si possa definire nel corso stesso della sua costruzione e soprattutto, dall’interno stesso dei suoi processi indefiniti.

Sintetizzando, la riconoscibilità di qualcosa si può dare o per “identità” (primo caso) o per ripetizione (secondo caso). La cultura definisce e spiega una identità è ha bisogno del “tempo della riflessione” per poterlo fare. La ripetizione e la presenza mediatica ottengono funzionalmente la riconoscibilità senza saper dire l’identità: non c’è il tempo di farlo, … ma la riconoscibilità è condizione sufficiente per la creazione dell’attenzione: è la chimera di un valore e non il valore.

Dunque strappiamo completamente il velo: ciò che vediamo nell’oggi non può nemmeno chiamarsi propriamente“arte” nel senso generale che gli si dà nel contesto della cultura in cui siamo. A meno che non si faccia regredire l’idea di arte in un senso idealistico – romantico, in un apparato di stereotipi che la letteratura d’appendice di ogni tempo ci ha inculcato: la trasgressione, il “sublime”, l’eccezionalità, la “decontestualizzazione”, “l’art puor l’art”, la pazzia ecc. Sono tutte forme irrazionalisticamente popolarizzate che implicano il rifiuto del “pensare la complessità”, e conseguentemente utili alla semplificazione necessaria per strutturare un mercato funzionale.; esso infatti non fa che vendere, insieme al “prodotto”, l’immagine un modello comportamentale che sia “facile” da accogliere e comprendere. Dunque gli stereotipi del romanticismo irrazionale e individualista sanno far leva sull’interesse di un pubblico che ha esigenze intellettuali e necessità di esibirle: un segmento psicosociale delineato a cui, con le stesse suggestioni di eccezionalità, superiorità e distinzione dalle masse, (come per i ridicoli esteti superuomini nemmeno dannuziani ma alla Guido Da Verona) si venderanno anche le automobili esclusive, le scarpe esclusive, l’abito di moda esclusivo, l’orologio esclusivo, spesso presentati come “oggetti d’arte”, per sensibilità elette e superiori.

Dunque ciò che vediamo nelle mostre contemporanee non può avere una reale sostanza d’arte, ma solo l’ipotesi che lo sia e l’ipotesi deve essere provata da un processo analitico che è credibile se è credibile il metodo. Le categorie banalizzate della comunicazione specifica troppo spesso costruite su suggestioni letterarie disparate e confuse, sui romanzi, sulle letture “emozionanti”, sulle strutture immaginifiche e indefinibili degli psicologismi divulgati non sono in grado di dare alcuna credibilità a cose che sono giunte alla nostra evidenza solo per “ripetizione”. Partiamo allora da questo: ciò che ci viene posto di fronte, ciò che gli artisti fanno non sappiamo esattamente cosa sia: ne possiamo solo ipotizzare un senso. Allora che gioco stiamo giocando? Che senso ha una mostra d’arte se ciò che ci viene proposto non sappiamo esattamente cos’è? Che rito celebriamo se non sappiamo dire cosa celebriamo, perché è realmente impossibile definirlo con certezza? Cosa mai ci garantisce e ci dovrebbe obbligare ad accettare passivamente il fatto che qualcosa sia arte poiché esibita “nella ritualità propria dell’arte”? Tutte queste domande provocatorie ci portano al fondo della questione: non è il rito dell’arte che “fa l’arte”, non è la comunicazione che io costruisco che la rende tale, non è la ripetizione mediatica che la qualifica, non è la popolarità di un curatore che la certifica, non è il prezzo di mercato che la stabilisce, non è la ripetizione sulla rivista famosa che l’accerta. Tutte queste cose sono “dopo” qualcosa, sono “dopo” che qualcuno si sia preso la briga di sporcare una tela o aver sistemato oggetti in giro per un ambiente e acquistano senso credibile nella dimensione culturale solo dopo che qualcuno l’abbia cominciata a dipanare e a riconnettere con situazioni condivise. Certamente, quelle elencate sono cose che aiutano ma non sono, mai la sostanza. Chi scambia le cose, chi crede che l’arte sia la ritualità che genera, chi pensa di andare a vedere “l’arte contemporanea” vive in un grosso equivoco e a volte, dentro un palese inganno. E’ disonesto dire che si va a vedere o a mostrare opere d’arte, se pensiamo di riferirci all’idea media che di arte ha il pubblico ( e anche molti operatori). Va chiarito cosa si intende per arte. Per affrontare l’arte contemporanea, pregasi dimenticare ogni idealismo precostituito nato sui “sacri testi” della sua oggettivazione storica: ciò che si fa nel presente (nel caso delle personalità più autentiche e coerenti) è arte nel senso della sua manualità, è arte nel senso di “ricerca” d’arte, di dialogo a distanza con la sua oggettivazione storica, ricerca di una sintesi visuale del senso di “qualcosa” del proprio presente. Ancora, sia chiaro: arte (nel senso appena detto) non è solo quella che ci viene fatta vedere, ma è forse anche in ciò che la comunicazione non ci fa vedere. Tutto ciò che si mostra per esse,re credibile, attende i tempi dell’oggettivazione e dell’analisi: la comunicazione è uno “strumento” un canale in grado di veicolare qualsiasi cosa, il “senso della cosa” sta nell’analisi del senso della cosa che si veicola, non nel veicolo (McLuhan docet). Se ho il potere della comunicazione, posso “far essere interessante” qualsiasi cosa io voglia, escludendo intenzionalmente o meno, qualsiasi cosa io non voglia. Dunque nel presente, la selezione delle cose “da vedere” è assolutamente casuale e diretta da intenzioni che possono essere fuori dalla sensatezza di ciò che vien fatto vedere. Dunque la visibilità certifica la presenza non la sostanza della cosa ed è sbagliato pensare che la ripetizione o l’amplificazione di visibilità indichi univocamamente la comprensione generale della cosa che si vede.

Quindi una “mostra d’arte” è la presentazione di una “tesi visuale discutibile” di cui non posso dire nulla di vero e di sensato se non ne affronto la comprensione, se non ne leggo il testo, se non lo confronto. E’ un rito vuoto se non mi impegno intelligentemente alla sfida che mi propone. Non è una “certificazione di un prodotto” ma la verifica continua della sua possibile qualità sostanziale. L’arte è il processo sensato della discussione che avviene sul suo senso, partendo dal dato visuale e problematico che l’opera mi pone. L’arte è esercitare il pensiero su di essa, vedere cosa si sviluppa, aprendo con modestia e attenzione le implicazioni che propone. L’arte è il contrario dell’univocità: è la complessità da percorrere. E’ il contrario degli slogan, è il contrario della fissità. E’ l’erosione continua di un significato, l’arte è il percorso culturale che essa stessa può farci intraprendere dentro le cose che essa stessa coscientemente o incoscientemente ha messo in gioco del nostro universo culturale di riferimento e di quello dell’altro individuo. L’arte non si definisce mentre accade, ma solo nel tempo. L’arte non si certifica ma la si riconosce se mai e talvolta, percorrendola.

Non voglio cadere però nella facile trappola del rifiuto del presente. La condizione del mercato non va demonizzata perché il mercato può anche essere il supporto di un prodotto credibile alla sua origine: come qualsiasi venditore, posso essere onesto o disonesto in ciò che vendo. Il sistema dell’arte è quindi “neutro” nella sua sostanza, andrebbe solo applicato per vendere e divulgare correttamente la sua proposta, non mistificandola. Dietro l’arte non dovrebbe esserci la “ragione di vendere” che può far essere arte qualsiasi cosa, ma la valida complessità di qualcosa che da senso e piacere vendere, divulgare, far conoscere e possedere. Il problema non è “il mercato” o il “sistema dell’arte”, se mai “la ragione” del sistema e del mercato. Provo alla fine una sintesi di come forse si potrebbe vivere in modo sensato, l’attività creativa e la “ritualità” che la espone, dando al “processo” una ragione penso profonda: ricercare la “sensatezza” eventuale dell’immaginazione creativa che sta nel dato visuale che realizzo e che espongo.

Cosa dovrebbe essere una “mostra d’arte”? Nient’altro che una proposta. Di che cosa? Di riflessione complessa su determinate condizioni o argomenti che una persona (convenzionalmente definita “artista”) ha pensato di mettere in evidenza. In che modo osservarla? Attraverso le considerazioni libere condotte in relazione alla specificità formale del linguaggio visuale scelto dall’artista, che riferisce ad una sua storia e identità storicamente complessa. Cosa fa il curatore? Consente la visibilità e l’ingresso intellettuale in uno o in alcuni dei sensi interpretativi possibili della proposta d’arte che ha scelto e che ha ritenuto interessante rispetto alla sua specifica competenza di quei linguaggi e di certe tematiche. A che serve una mostra d’arte? A discutere la sensatezza e la complessità di quella proposta nel campo delle relazioni istituibili con altre opere e altri riferimenti. Il tutto, attraverso diversi tipi di approcci consoni alle arti visuali: approccio formale, contenutistico, psicologico, antropologico, socio – culturale ecc. Cosa rende una mostra realmente interessante? La sua capacità di mettere in moto differenti discussioni, riflessioni, complessità di relazioni e di sensi rispetto al contesto e al tema a cui riferisce. Cosa dà credibilità all’opera? La sua capacità di coinvolgere molteplici piani di senso attraverso una sua leggibile o intuibile costruzione formale. Cosa stabilisce la qualità eventuale dell’opera? La sua capacità di aprire, indagare, suggerire significati, ipotesi, interpretazioni riguardo situazioni e condizioni umanisticamente, politicamente, antropologicamente, spiritualmente, esistenzialmente, polemicamente, condivisibili da altre persone e da più “contesti” o universi culturali di riferimento.

Insomma il senso della mostra è solo nel processo analitico o suggestivo che sa mettere in moto a molteplici livelli culturali, di comprensione, di conoscenza, di relazione visiva o metaforica. Dietro il “rito” ritroveremmo una ragione per l’ostensione di un’opera; nel “rito riformato” ritroveremmo le ragioni per pensare e capire, facendo ipotesi, interpretando segnali, condividendoli e confrontandoli.


Theorèin - Ottobre 2007