RIFLESSIONI SULL'ARTE 

A cura di: Antonio Zimarino
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Ancora sul concetto di distanza

Da alcuni mesi ho allentato più o meno intenzionalmente le mie frequentazioni e le mie partecipazioni a quel turbinio di situazioni implicate dalla produzione e cura di mostre cataloghi ecc., cioè da quella “produzione di eventi” a cui spesso si riduce il compito di chi si occupa di cura di mostre e di analisi dell’arte contemporanea. Le ragioni sono complesse e forse non sono necessarie da spiegare, ma quello su cui sto riflettendo sono i risultati di questa lontananza. Certo non devo confermare io, nella piccolezza della mia intelligenza e cultura quello che è il valore umanistico dell’”otium” letterario: se si vuole, basta rileggersi qualcosa di Lucio Anneo Seneca (De tranquillitate animi, De otio): credo che siano letture assolutamente illuminanti. L’Otium non è assenza di impegno; più che altro è, operando una riduzione concettuale estrema, un modo di costruire una “distanza” dalle cose che ci coinvolgono eccessivamente (negotium). La distanza necessaria per far si che non siano le cose, le impellenze e le necessità da risolvere, a comandare su di noi, sul nostro fare, sui nostri pensieri e sulla nostra vita. Aumentando la distanza fisica, intellettuale ed esistenziale con il flusso ininterrotto di un agire, mi sono accorto di tante cose e ho avuto confermate molte idee che, nel flusso del fare, erano solo impressioni. Mi sono accorto di tutto ciò che è “resto” cioè, di ciò che la velocità e la necessità non ci fa vedere o ci fa mal considerare, lasciandolo “indietro” rispetto alle urgenze della comunicazione istantanea e del “fare” necessario. Riguardo ciò che accade nelle vicende dell’arte contemporanea, ho focalizzato alcune cose (l’otium non è ovviamente assenza di studio e di informazione): provo ad elencarle.
  1. Il mito del “nuovo” è appunto un mito, più che altro commerciale. La novità di un’opera d’arte è una categoria che può essere realmente identificata solo con la “distanza” cioè con la riflessione riguardo le sue implicazioni. Si è “nuovi” in rapporto a qualcosa che è accaduto o che sta accadendo cioè, sempre in rapporto ad un precedente o ad un “contiguo”. E’ dunque fondamentale il confronto e l’analisi, processi che ovviamente richiedono tempo. Qualsiasi cosa presentata come “novità” che non porti in sé la descrizione o almeno il suggerimento del processo di confronto e riflessione rispetto a cosa possa esser detta “nuova”, va accolta con estrema diffidenza. Corollari alla constatazione sono: a) rendersi coscienti e consapevoli di quanto influisca sulla percezione dell’arte contemporanea la dittatura della comunicazione – b) … e la dittatura dell’economia. – c) Porre estrema cautela verso chi presuntuosamente impone il suo “prodotto” alla visione senza che sappia (o che voglia) spiegare perché.
  2. E’ necessario capire cosa sia la “provocazione” Credo che su questo argomento valga la pena spendere qualche riflessione in più, magari in un testo apposito. E’ il problema vasto della “spettacolarizzazione” dei fenomeni artistici e culturali. In conseguenza, considerare attentamente a) la fugace transitorietà delle emozioni, delle indignazioni, delle ribellioni – b) La eventuale (o meno) sostanza progettuale dell’eventuale provocazione.
  3. Il non – senso di molte operazioni d’arte può essere appunto, soltanto tale. L’artista lavora spesso nella contemporaneità secondo processi compositivi estremamente simili a quelli teorizzati nel Seicento riguardo l’uso estremo delle metafore e dell’”arguzia”. Significa che l’opera può essere retoricamente costruita su sistemi metaforici in contraddizione o in estremizzazione. In questo caso la riflessione culturale va fatta sulla ragione per cui l’artista sente questa necessità piuttosto che sull’eventuale senso dell’opera stessa che resta comunque illustrazione del processo retorico organizzato dall’artista. Va verificato criticamente quanto la soluzione “formale” valga al perfezionamento, al completamento o alle aperture concettuali di ciò che ‘artista ha realizzato. In altri casi, l’artista tende a lavorare nella psico – logica dell’oroscopo: componendo senza progetto e aspettando che il senso eventualmente si dia o sia dato da altri, sfruttando l’Aura del contesto dell’arte per aspettarsi valorizzazioni concettuali eventuali. Questo tipo di atteggiamento non è a priori errato, ma può essere estremamente ambiguo: non c’è senso alle cose soltanto perché esse vengono esposte e pur ammettendo che possano aver senso, va ben valutata la credibilità dell’analisi o del discorso che glie lo attribuisce. Prestare estrema attenzione alla futilità ambiziosa che spesso può animare le ragioni del fare arte o del “dire” sull’arte. Diffidare moltissimo del linguaggio dello “pseudo” critico che le presenta.
  4. L’arte non è mai il “rituale” costruito attorno ad essa La questione non è così banale come sembra: giustificazioni ad una idea che l’arte sia ciò che i suoi operatori identificano e definiscono come tale, vengono dalla cosiddetta “teoria istituzionale” dell’arte, ma anche dalla pratica di una certa curatorialità che confonde il “potere” che esercita sulla possibilità di mostrare arte con il “senso” complesso dell’arte stessa. Se l’arte è ciò che il curatore decide che debba essere, potremmo fare a meno degli artisti. Ovviamente ciò non esclude il ruolo fondamentale che un curatore può avere nel riconoscimento dell’importanza di questa o dell’altra espressione artistica. Implica soltanto la definizione e la chiarezza di un’etica del curatore e la verifica critica del suo stesso processo di selezione e valutazione. Il potere di rendere visibile un’opera non sostituisce (e non costituisce) il valore dell’opera.
  5. Il limite della pura “presentazione” dell’opera d’arte contemporanea La questione è direttamente conseguente alle considerazioni precedenti: l’esperienza dell’arte, la fruizione dell’arte e la sua eventuale sensatezza come processo culturale non possono essere date soltanto dal loro “essere presentate”. La percezione puramente estatica ed estetica di un’opera può essere un limite profondo e una implicita profonda mancanza di rispetto per la complessità stessa dell’opera come prodotto di cultura.
  6. L’assurdo rifiuto delle analisi Anche questa questione è strettamente legata alle due precedenti. La diffidenza verso la critica d’arte è cosa assolutamente legittima: infatti vanno attentamente considerati metodi e conclusioni del discorso critico. Non ci sono tuttavia ragioni teoriche che neghino credibilmente la necessità del discorso critico. Rifiutare l’analisi significa rifiutarsi di considerare l’arte come un fatto culturale: significa cioè negare all’arte il suo essere elemento di definizione e costruzione del mondo che viviamo. Le constatazioni precedenti portano a una serie di altre problematiche correlate: a) non esiste la possibilità di usare le complesse implicazioni del termine “arte” quando si parla di fenomeni ed espressioni creative insorgenti – b) Necessità di evitare l’arte “ad una dimensione” ovvero, vedere se, come e in che modo i fenomeni creativi insorgenti e resi visibili dalla comunicazione, reggono all’analisi e alla verifica della complessità – c) Prestare estrema attenzione alla verbosità inutile di una critica senza oggetto, senza metodo e senza progetto.
  7. La ricchezza enorme e variabile della creatività umana Analizzare i fenomeni creativi che la realtà presenta nelle loro variabili contraddittorie e complesse e non selezionare a priori quelli che formalmente siano già identificati dalla comunicazione dominante come “arte contemporanea”. Il senso dei fenomeni artistici può rendersi identificabile soprattutto in una lettura contestuale e orizzontale con altri fenomeni creativi anche contraddittori. In conseguenza: a) leggere i fenomeni d’arte fuori da stereotipi mercantili – b) Tener conto di ogni manifestazione del contemporaneo valutandola contestualmente in base alla specifica densità semantica – c) Porre attenzione ai gusti più “popolari” e vedere a quali esigenze culturali rispondono – d) Far emergere gli ambiti di ricerca artistica più collegati a problemi formali, speculativi o analitici attuali, valutando le ragioni e le specificità delle “aree di resistenza” dei sistemi formali, speculativi e analitici già storicamente più definiti.
Queste cose che ho appena detto, non vogliono essere i giudizi di un moralista o di qualcuno che pretende di pontificare dall’alto di chissà quale scienza o sapienza distanziandosi spocchiosamente dalla “lotta” sul campo. Assolutamente no. Sono solo constatazioni possibili quando si riesce a porre una distanza tra sé e il flusso ininterrotto del “fare”.

Quali sono le possibili “distanze” da porre? Ce ne sono ovviamente diverse possibili, molte necessarie, altre praticabili con rischio. Alcune sono di ordine culturale, altre di ordine esistenziale. Una distanza può essere creata ad esempio, dalla lettura di un romanzo o di un saggio appassionante che riesce ad immergerti in un mondo percettivo e concettuale differente rispetto a quello continuamente circoscritto del “sistema d’arte”. Una distanza può essere legata alle necessità ordinarie del vivere quotidiano ( non so, un trasloco, accompagnare i figli a scuola e parlare con le maestra, fare la spesa, comprare un paio di scarpe necessarie, andare in banca, al mercato, parlare col macellaio o con l’idraulico). Immergersi nella totale alterità di una esistenza normale aiuta a riprendere una percezione del “concreto” delle relazioni ordinarie con gli esseri umani. Una distanza può essere quella dovuta alle cose che, troppo amate, rischiano di essere totalizzanti e di annullare la percezione le realtà ordinarie. Una distanza può essere quella naturale della intelligente diffidenza verso le affermazioni senza analisi. Un’altra, quella legata alla modestia dei nostri atteggiamenti una volta che verifichiamo la complessità oggettiva dei fenomeni e delle intersezioni della “contemporaneità”. Una distanza può essere improvvisamente percepita quando si riprende a studiare qualche opera di artisti che hanno resistito al flusso del tempo e delle mode (ad esempio in questo periodo ho “riscoperto” Anish Kapoor, Jenny Holzer, Mark Wallinger). La distanza verificabile tra la propria “biblioteca di riferimento”, tra il proprio cosmo interiore e quello altrettanto legittimo e proprio di altri che si occupano di questioni e situazioni analoghe. La distanza tra la consapevolezza dei propri gesti, del proprio dire e del proprio fare rispetto all’abituale meccanicità del procedere delle nostre affermazioni, delle nostre convinzioni e delle nostre relazioni.

Diciamo che allora la “distanza” è una forma di consapevolezza la cui profondità può esser data dalla libertà interiore che si sente rispetto al “fare” e al “non fare”. Senza cadere nel mistico, mi rendo conto ancora una volta di quale ricchezza sia la distanza: è il punto di osservazione, è il luogo dell’interiorità e dell’apprendimento, il luogo dove si è nell’istante che si vive. Tutto acquista un senso diverso con la “distanza”.

Porre una distanza con le cose inoltre, non presuppone un giudizio per forza negativo verso di esse. Dire che ad esempio, “l’arte non è il rituale costruito attorno ad essa” ha semplicemente il senso della constatazione. La constatazione è una scelta di oggettività che induce il pensiero ad un atteggiamento di attenzione e comprensione dei fenomeni. Essa presuppone un approccio analitico e razionale e allo stesso tempo una “accettazione” del dato. Ma accettare vuol dire anche “accogliere” in un percorso “di senso” le cose, quindi avere la coscienza che esse costruiranno altri percorsi, altre comprensioni.

Credo che oggi il problema in arte non sia tanto quello di “definire” o giudicare ma quello di comprendere. E’ la comprensione delle cose, la capacità e la possibilità di leggervi dentro che da lo spessore, la densità di ciò che si vede come arte. La comprensione delle cose non può avvenire se non attraverso la distanza ovvero, prendendo in considerazione “l’accaduto”. Pochissimo possiamo pienamente dire ( e per forza di cose, in modo contraddittorio) rispetto all’accadente. La distanza non è un rifiuto ma un cambio di visuale verso ciò che accade. Prescinde dalla sfera emotiva anche se è su di essa che bisogna lavorare per ottenerla. La distanza è di per se stessa, l’alterità rispetto al centro delle cose, degli avvenimenti e dei fatti; è un’arte del “togliersi”, dello spostamento, non dell’abbandono. Chi pone distanze non per questo può esser considerato lontano da ciò che accade. Innanzitutto è da dimostrare pienamente che la comprensione dei fenomeni culturali avvenga partecipando assolutamente al loro flusso. Di essi si potrà forse percepire e fare esperienza della “sezione”, della linea del flusso che attraversiamo e che seguiamo, ma non sarà possibile disegnare la complessità di cui si è parte. Non posso capire cosa sia una goccia d’acqua vivendo nel mare. Paradossalmente, già affermare “l’essere lontani” implica una forma possibile di contatto, un mutamento della tipologia di relazione. Porre delle distanze implica quindi individuare e stabilire altrettanti nuovi modi di entrare in relazione con ciò a cui, comunque, si continua a riferire perché per definire una distanza è inevitabile porre il termine di riferimento in base alla quale essa si delinea. Si dice infatti “essere lontani da …”

Riflettendo su queste cose che possono sembrare appunto, “lontane” dal fare e dell’essere dell’arte oggi, sto accorgendomi al contrario e sempre più, che vivere e parlare di arte possa credibilmente accadere solo ponendo delle distanze da essa. Distanze strumentali certo, perché l’oggetto di interesse resta la necessità di comprendere e dirimere la complessità eventuale o supposta delle opere che si producono.

Ma per costruire la “distanza” bisogna pagare un prezzo. Il primo, alto talvolta, è quello di non essere più considerati funzionali alla logica del flusso e quindi di essere allontanati da “ciò che si fa”. Invece la distanza sarebbe un motivo bellissimo per “fare” davvero qualcosa di sensato. C’è una sorta di triste incompatibilità tra la distanza della propria interiorità, delle esigenze della cultura con la necessità del flusso, di esserci, dell’essere presenti agli avvenimenti e alle cose mediaticamente rilevanti. E’ una cosa che spesso mi chiedo. Questa cosa fa soffrire perché pur sapendo di aver qualcosa da dire (grazie alla distanza) a causa di essa, non sappiamo tenere il ritmo del flusso continuo. Sparire per qualche tempo dai flussi e dalle relazioni convenienti significa essere presto dimenticati e in fondo questo non lo desidera nessuno. Ciascuno pesi sulla bilancia della propria felicità le conseguenze delle proprie coscienti decisioni.


Theorèin - Novembre 2008