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Cromofobie: un evento in bianco e nero...
La mostra aperta lo scorso 14 febbraio all’ex Aurum, dal titolo “Cromofobie” è sicuramente a suo modo un evento per la città di Pescara. Un’evento che per le sue caratteristiche potremmo definire “in bianco e nero”, come il titolo della mostra suggerisce quando ci annuncia una “paura”, una fobia del colore e una scelta espressiva privilegiata dei sui contrari. Mi è stato chiesto da diverse parti di esprimere un parere sulla mostra e sull’operazione: non amo però svolgere il ruolo di censore dell’attività altrui che come in questo caso, sono comunque stimabilissime di fronte al vuoto ordinario di idee e proposte ma é anche vero che visioni differenti, potrebbero aiutare a migliorarci e a migliorare e a pensare magari come, da operatori culturali potremmo, aiutandoci, rendere un servizio migliore alla conoscenza e alla cultura collettiva. So che questa è pura utopia perché l’idea del lavoro in coordinamento, mal si concilia con l’individualismo dilagato nel settore della promozione artistica e culturale ma sarebbe bello pensare che sia possibile. Mi scuso quindi anticipatamente per quanto di “critico” dirò sottolineando che comunque le mie osservazioni riguardano gli effetti percepibili dell’operazione e non le leggittime buone intenzioni di chi l’ha organizzata che rispetto profondamente. Credo che questa mostra rappresenti nel bene e nel male, il prodotto di un certo tipo di politica culturale “avventurosa” affidata alle intuizioni di singoli benintenzionati, ma spesso non sviluppate su analisi e tempi di riflessione accurati: è un’espressione tipica dello slancio di chi si è sempre sentito “provincia” rispetto agli accadimenti culturali italiani e con una certa precipitazione, cerca di colmare il “gap”. Questa, più di altre iniziative recenti, ha però il pregio di aver saputo concentrare, anche in tempi di forte crisi economica (e politica, per la nostra Regione) cospicue risorse per la realizzazione di una idea, di un progetto affascinante; ha per le dette ragioni, un limite evidente di una preponderante volontà di “spettacolarità” che però non decolla in sostanza speculativa e conoscitiva, offrendo in fin dei conti, tante singole immagini anche interessanti ma senza una percepibile linea teorica e interpretativa che la tenga credibilmente insieme. Si dirà: “Ma a chi mai interessa in fondo che qualcosa abbia sostanza teorica?” La mostra è un evento-spettacolo dove conta (per l’artista) l’esserci, il mostrarsi e l’essere associati a certi nomi “famosi” ricorrenti; per “il pubblico”, purtroppo sempre considerato passivo nella logica comunicativa di molte operazioni d’arte, conta l’impressione di partecipare ad un evento mondano acculturante; per i committenti, conta il riscontro mediatico, l’accondiscendenza dei notabili e in ultima analisi, il numero di persone che è passato a vedere la mostra. Tutto il resto è relativo e quindi inessenziale alla promozione di sé e della propria iniziativa. Purtroppo chiedere ad una mostra d’arte oggi di far anche pensare o far scoprire l’importanza di lati e aspetti della cultura artistica, pare sia una pretesa eccessiva, ma, si badi bene, la questione non è solo un problema di “questa” mostra ma un limite generale evidente in molte produzioni italiane medie o grandi. Però credo che questo sia un vero peccato per la mostra che recensiamo, dal momento che è riuscita (cosa rarissima per il nostro territorio) a disporre di risorse interessanti per realizzare quella che è certamente una bella intuizione, di grande potenziale speculativo. E’ fuor di dubbio che la mostra presenti alcune belle opere tanto di artisti ormai storici che di artisti più giovani: certamente è uno dei grandi punti di forza dell’operazione ed un suo merito, l’averle messe insieme e di aver dato l’opportunità di vederle. Stando ai nomi (un po’ meno all’organizzazione degli spazi dell’Ex - Aurum che per la verità continuano a risultare molto problematici poiché poco versatili) ci troviamo di fronte un percorso veloce e particolarissimo (per via della scelta cromofobica) attraverso e intorno alcuni importanti esponenti dell’arte italiana del dopoguerra, attivi in particolare dagli anni Cinquanta: dunque è l’occasione per incontrare un “periodo” dell’arte in Italia fecondo di soluzioni e di intuizioni originali o talvolta, legate a precise esperienze formali straniere (in particolare francesi e americane) di altissima qualità. Un altro segnale interessante della mostra (da un lato, filologicamente discutibile, dall’altro molto coraggioso) è l’inattesa apertura ad alcuni artisti che lavorano da tempo sul territorio regionale e ad altri molto “giovani” ma decisamente interessanti, per lo più anch’essi emergenti da un’importante galleria privata pescarese così come di altri presi da altri“vivai”, soprattutto romani; dunque una mostra che non si può qualificare come puramente storica ma che vuole e cerca lodevolmente, in qualche modo di entrare nel presente. Tuttavia è proprio questa complessità di presenze che crea numerosi problemi di impaginazione concettuale e “visiva” che costituiscono poi i reali punti deboli e irrisolti dell’operazione. Cominciamo da quelli concettuali. Primo: non c’è alcuna saldatura reperibile o percepibile tra le parti di un discorso “storico” e quelle del “contemporaneo” e tantomeno tra loro; anche visivamente, tra i due grandi saloni c’è una cesura piuttosto netta e all’interno di ciascuno, non ci sono altre possibili distinzioni tematiche, formali ecc. che aiutino ad una comprensione storica o tematica della problematicissima e delicata questione “cromofobica”. Ciò che si vede in mostra semplicemente accade, senza spiegazioni neanche in catalogo: l’unico testo presente contiene una serie di generali riflessioni sulla “essenzialità” del problema pittorico legato storicamente alle scelte del bianco e del nero ma niente che spieghi o orienti idee all’interno di ciò che si vede. Eppure molti di questi artisti sono stati riconosciuti proprio per il colore o per la “concettualità”, quindi la scelta dei loro “bianco e nero” potrebbe fornire grandissimi e densissimi spunti di riflessione storico-critica. Non sappiamo (lo può ipoteticamente e liberamente ricostruire solo l’osservatore specializzato) come il discorso della “essenzialità” pittorica richiamato dal bianco e nero, si allacci alle esperienze degli artisti che vediamo, alle loro esperienze storiche; non sappiamo nemmeno per accenno, ad esempio se la scelta della cromofobia è prevalente o minoritaria in questo o in quell’autore, non sappiamo perché, quando , perché essa sia stata fatta, e di fronte a quali stimoli o progetti espressivi. Non capiamo poi, perché non sono spiegati, i criteri di partizione e raggruppamento suggeritici da titoletti all’inizio di ogni sezione del catalogo ma assenti in mostra: si intuisce che sono categorie genericamente visual/concettistiche entro cui raggruppare visivamente opere assolutamente disomogenee per storia, data, struttura, qualità, riferimenti e potenzialità: ma hanno un valore interpretativo? Consentono di capire qualcosa degli artisti? Da quale valutazione scaturiscono delle tali partizioni, per altro linguisticamente suggestive riguardo la forma ma concettualmente inspiegabili? L’eterogeneità dei discorsi artistici presentati é poi assolutamente disorientante: l’unica cosa che sembra legarli è l’assenza del colore, ma cos’altro tiene insieme questo contraddittorio accavallarsi di stili, stimoli presenze ed esperienze? Forse si poteva puntare su un minor numero di opere e cercare maggior profondità e respiro (anche visivo) a certe opere. Alla fine c’è una impressione di fondo di saturo e caotico che ci fa vedere le opere in se stesse senza poter cogliere tra esse un filo, un senso, un’idea. Certo questo può essere anche un bene per le opere ma il disorientamento e l’affollamento di tanti stimoli individuali e di tanta incongruenza, non le aiuta. Ma dove ci porta allora questa idea espositiva? C’è una tesi da dimostrare? Se non c’è, perché? Che significa oggi la “cromofobia”? Che chiavi di lettura ci danno le opere rispetto alla realtà presente? Rispetto alla storia? Cosa ci consentono di capire a riguardo questi artisti? Come e perché sono stati scelti e abbinati? Cosa vuol dire l’eventuale “assenza” di colore per loro, oggi? Che relazione c’è tra sculture e questione cromatica? Ma forse sono domande inutili per i più, del resto so bene che in genere interessa l’evento, il mostrarsi e basta. Ma è mai possibile che ad esso non sia associabile un pensare? Insomma, la mostra ricade inevitabilmente nella logica della nostra società dello spettacolo. Non è importante dire e cosa dire, ma esserci, farsi vedere e dire di esserci stati. E sicuramente questo obiettivo è stato raggiunto: che spettacolo sia. Seconda questione, direttamente connessa alla prima: dicevamo che senza un’idea espositiva organizzatrice, la “cromofobia” appare il pretesto di uno spettacolo e nello spettacolo ci può entrare tutto e il contrario di tutto. Dunque, dimentichi di ogni rigore stilistico, la mostra finisce per tener dentro cose totalmente eterogenee in ciascuna delle quali scegliere il bianco e nero può voler dire un universo di cose oppostissime e diversissime. Se la selezione è stata voluta, che risultato percettivo o sensato si voleva raggiungere con essa? Qualche coerenza maggiore la si può ancora trovare nella sezione degli “storici” perché lì la selezione può essere più precisa per un curatore: attraverso collezionisti, prestiti e gallerie, si può mirare a “quel” pezzo a “quell’autore”. Tutto il resto invece appare scelto per criteri imponderabili che non preoccupano ovviamente il pubblico normale, ma moltissimo quello specializzato. Ci sono certamente opere di artisti “giovanissimi” anche per il mercato, che proponevano però spunti interessantissimi e enormemente stimolanti se si fosse aperto un confronto di cosa sia oggi “cromofobia” per i nuovissimi contemporanei, ma … niente da fare, nulla di tutto ciò. Dal punto di vista degli altri artisti meno “storici” e in particolare dei locali, (trattati, nonostante l’intenzione dichiarata, quasi tutti come tali, poiché per lo più raggruppati in un’area della seconda sala), la selezione appare in certi casi decisamente molto generosa. Inoltre tra i contemporanei locali ci sono assenze pesantissime che indicano nel migliore dei casi, dei rifiuti a partecipare e nel peggiore, una mancanza di conoscenza di quanto esiste o sia esistito sul territorio. Voglio solo ricordare Elio Di Blasio, che negli anni Settanta esponeva regolarmente e alla pari, in tutta Italia le sue opere informali (e poi, come si diceva allora, “Gestaltiche”) con tutti i grandi nomi posti nella sezione storica, oppure Ettore Spalletti, su cui non ho bisogno di dilungarmi riguardo il suo lungo lavoro sul disegno o ancora, Mario Costantini artista che lavora da anni sulle possibilità concettuali ed espressive del “bianco e nero” esponendo in Italia e all’estero e che sul tema specifico ha vinto anche uno dei più importanti premi di scultura internazionale. Alla fine, la selezione non convince chi conosce davvero bene la realtà nella quale si opera e da l’idea di una casualità di ragioni e scelte che non rende giustizia a nessuno. Riassumo quindi le mie riserve: non si è stato in grado, o chissà perché, non si è voluto dare un “corpo” critico e speculativo adeguato ad una degnissima intuizione primaria: nonostante i bellissimi presupposti, le migliori e rispettabilissime intenzioni, la potenzialità economica dispiegata, l’insieme è strapieno di stimoli senza legami e senza leganti, e funziona sostanzialmente come “macchina da spettacolo”, per altro non completamente godibile, visto l’affollamento, la saturazione visuale e l’inferenza di un opera con l’altra (dovuta al tipo di spazio dell’Ex-Aurum, troppo aperto per dare intensità di fruizione alle vibrazioni sottili e a trame e segni spesso delicatissimi) e alcune grosse incertezze di allestimento (ad es. improponibile la collocazione di alcune opere pur belle nella sala totalmente invasa dalla gigantesca scultura di Turcato così come la location dell’unica vera installazione della mostra, sulla assenza/presenza della luce) dovute penso, allo spazio particolarissimo a disposizione rispetto alla tipologia e al numero delle opere. Evidentemente questo aspetto non è stato molto curato e ciò a discapito della mostra. Non dando poi criteri, non proponendo chiavi di lettura e senza poter sapere perché ciò che si mostra è mostrato, tutto appare una sorta di contenitore di cose varie, più trovate che cercate anche se a volte singolarmente godibili ma le cui relazioni non possono essere ricostruite, se non eventualmente dagli “specialisti”. Insomma, direi una bella idea che resta inespressa, ma comunque assolve al compito di elettrizzare un po’ con uno stimolo culturale, i pomeriggi di chi si interessa d’arte e dei turisti. E questo, in tali cupi tempi può essere già un dato tutto sommato, positivo.
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