DALL'ATOMO AL BIT:
Come e perchè di un mutamento socioculturale e filosofico
A cura di: Mario Della Penna
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V Lezione

LA CONDIZIONE MODERNA
La città nella modernità

 

A riguardo del rapporto scrittori e modernità, affrontiamo ora il tema del gusto urbano ed estetico in generale.

L’Illuminismo dopo secoli di oscurantismo, ambisce ad illuminare le menti.

Gli illuministi per prima cosa rifiutano la città medievale in toto.

Le nuove città dovranno rispondere a delle regole geometriche ben precise.

L'ortogonalità delle strade e delle piazze, rispetto all’altezza dei palazzi, ha lo scopo di consentire di ammirare le cose che vi sono intorno.

Quanti più palazzi belli e signorili abbiamo in vista, tanto più la città ne raccoglie un'immagine di benessere e prosperità.

Il Settecento segna il trionfo della vista.

Raccogliamo i pareri pro e contro su questo nuovo che avanza, attraverso l'esperienza del viaggio di alcuni illustri personaggi chiave.

Il conte Francesco Algarotti compie un viaggio nel 1731 raccontato in Viaggi di Russia. Così si esprime sull'Olanda:

"Delle città d'Olanda, ella ben sa, Mylord, che si può dire: vedine una, vistale tutte".

Algarotti esprime un giudizio negativo, sottolineando il senso di monotonia per questa tipologia urbanistica.

Uno degli intellettuali che impersona la svolta in Europa tra la visione illuministica e la visione romantica, è il visconte Chateaubriand. Siamo nel 1803 quando su Torino dirà:

"Io ero rimasto mediocremente impressionato dalla prima vista di Torino [...] Torino è una città nuova, ben tenuta, regolare, ricca di palazzi ma un po' monotona."

Sempre su Torino così si esprime nel 1862 Ferdinand Gregorovius:

"Torino è completamente moderna, magnifica, piena di palazzi principeschi. Il suo carattere è che non riveste alcun carattere speciale [...] Dacché ho veduto questa bella, ma fredda e non storica Torino, ho riconosciuto anch'io che da questo punto l'Italia non può essere governata".

Esaminiamo la reazione romantica.

C’è una rigida separazione nella visione illuministica tra colui che osserva e la cosa osservata. L’osservatore si pone al di fuori delle cose osservate.

La sensibilità romantica diventa al riguardo più moderna. Lo sguardo romantico inserisce all’interno dell’oggetto visto anche l’osservatore che diventa parte integrante dell'osservato. Cominciano ad apparire dei "simulacri" lucreziani di cui la città stessa è composta.

La città diventa luogo di memoria, e assume una sua unicità, una distinguibilità, in forza a quegli elementi che hanno contribuito a farne la propria storia.

Nulla avviene dentro un sistema perché una sua sola casella si muova autonomamente. Nulla è autonomo in tutta la nostra esperienza, ma è sempre collegato a tutti gli altri tasselli che contribuiscono a comporla. L'episodio del colonnato del Bernini in piazza san Pietro a Roma è esemplare al riguardo.

Vi sono tre o quattro elementi che giocano alla differenziazione e alla presa di posizione nuova rispetto a quella precedente:

  1. L’aristocraticità di nascita, dell'intellettuale.
  2. La letterarietà, ossia l’umanesimo di professione, che si sente respinto da una società di massa di questo genere.
  3. La professione religiosa.
  4. La presa di posizione marxiana nella seconda metà dell’Ottocento.

In quest'operazione di pars destruens resta da chiedersi: cos'è il moderno?

Risponde a questo interrogativo un personaggio chiave di quest'epoca: Giacomo Leopardi.

Per Leopardi è il Rinascimento, è il Seicento, il Settecento e il suo secolo. E’ la visione di una nascita di uno sviluppo e di una successiva morte.

Appare un senso di decadenza che colpisce tutti e tutto.

Il Romanticismo riprende l’idea greca dell’invecchiamento, per dimostrare che in ogni caso l’epoca moderna, potrà essere certamente più civile rispetto al passato, ma non potrà essere paragonata dal punto di vista della salute fisica e morale all’antico.

La piccolezza dei moderni, secondo il filone mistico, era dovuto dal fatto, che i moderni avevano smesso di pensare all'anima, concentrando tutta l'attenzione sul corpo. Per Leopardi è tutto il contrario: è il corpo dei moderni che è piccolo, così come le costruzioni, che sono incomparabili rispetto a quelle dell’antichità. Leopardi sottolinea una decadenza fisica dell’umanità.

Theofhile Gautier nel 1831 pubblicando Madamoiselle di Mopein offre uno spaccato della sua filosofia al riguardo della modernità. L'indicazione che ne vien fuori è di una depressione e non di un progresso.

Guatier sarà profondamente anti-borghese perché nel concetto della modernità non è incluso il concetto di durata.

Anche Friedrich Nietzsche come Leopardi, condivide l'ideologia degli antichi che costruivano in grande e dei moderni che oramai sono rimpiccioliti ed indeboliti. Rispetto a Leopardi va avanti chiedendosi: è vero che le nostre illusioni sono state dissipate; dunque sono state dissipate anche le speranze di sopravvivere sotto qualunque forma. Se questo è vero, allora anche ciò che noi costruiamo non può essere paragonato alle costruzioni degli antichi perché stiamo costruendo esclusivamente per noi.

Leopardi e Nietzsche sono i capisaldi di una reminiscenza epicurea spiegata vichianamente.

La prima rivoluzione industriale, imporrà forte il problema della nuova posizione dell’intellettuale, e in particolare dello scrittore, in quest'ambiente che si sta sviluppando.

Viene a mancare quel pubblico specializzato referente dell’intellettuale antico.

In questa dialettica fra scrittore e metropoli, emergere sopra tutti in Europa, la figura di Charles Baudelaire. Questi scrive in particolare due cose fondamentali: I fiori del male, e una raccolta intitolata: Piccoli poemi in prosa.

Esaminiamo il XIV poemetto intitolato: Le vieux saltimbanque (Il vecchio saltimbanco):

"Il popolo in vacanza si riversava ovunque, traboccava, si scialava. Era uno di quei giorni di gran festa sui quali, per lunghi mesi, fanno conto i saltimbanchi, i giocolieri, gli esibitori di animali, i venditori ambulanti, per riparare ai giorni di magra dell'anno. In quei giorni mi sembra che il popolo si scordi di tutto, del dolore e del lavoro: e diventi come i bambini. Per i piccoli è un giorno di licenza, l'orrore della scuola rimandato di ventiquattr'ore. Per gli adulti è un armistizio stretto con le potenze maligne della vita, un rifiato in mezzo alla battaglia e alla guerra universali. Anche l'uomo vissuto, e chi è preso nelle fatiche dello spirito, difficilmente sfuggono all'influsso di questo giubileo popolare. Senza volerlo, si bagnano anch'essi in quella atmosfera di sventatezza. Io non mi perdo mai, da vero parigino, una rivista di tutti i baracconi in mostra in quei giorni solenni. In verità si facevano una concorrenza formidabile: sbraitavano, muggivano, berciavano. Era un guazzabuglio di urla, di scoppi di ottoni, di botti, di razzi. Guitti e pagliacci storcevano le facce bronzate e incartapecorite da venti piogge e soli; lanciavano - con l'eleganza dei guitti sicuri di attirare - i loro ghiribizzi, le frottole, quella comicità grassa e pesante come si trova in Molière. Gli Ercoli, fieri per l'enormità dei loro corpi, senza una fronte e un cranio, come orangutan, si gonfiavano maestosi dentro le loro canottiere lavate per l'occasione il giorno prima. Le danzatrici, belle come fate o principesse, ruotavano e capriolavano sotto la fiamma di lanterne che riempivano le gonne di scintille. Tutto era luccichio, polvere, grida, gioia, tumulto; si dava, si prendeva, tutti egualmente allegri (N.d.R. chiave ironica). I bambini si appendevano alle gonne delle mamme per un bastoncino di zucchero, si arrampicavano sulle spalle dei padri per guardare meglio un giocoliere bello come un dio. E in ogni angolo di strada, vincendo tutti gli odori, un odore di frittura che era come l'incenso della festa. In fondo, al limite estremo della filza di baracconi - come se vergognoso si fosse esiliato da solo via da tutte le luci - vidi un povero saltimbanco, incurvato, decrepito, infiacchito, una rovina d'uomo appoggiata a uno dei pali della sua tenda; una tenda più miserabile di quella del più abbruttito selvaggio, e di cui due mozziconi di candela che colavano e fumicavano, rischiaravano fin troppo sfacelo. Per ogni dove gioia, sfrenatezza, guadagno; ovunque la sicurezza del pane per l'indomani; ovunque una frenetica esplosione di vitalità. Qui la miseria assoluta, imbacuccata - per colo di orrore - in sbrendoli da pagliaccio: dove non l'arte ma la necessità aveva creato il paradosso. E non rideva, il miserabile! non piangeva, non ballava, non smorfiava, non dava voce; non canticchiava nessuna canzone, né gaia né lacrimosa; non implorava. Stava muto, e immobile. Aveva rinunciato, abdicato. Il suo destino era compiuto. Ma lo sguardo!, profondo, indimenticabile, scorreva sulla marea di folla e di luci, che si arrestava a qualche passo dalla sua ripugnante miseria... Mi sentii la gola stretta dalla mano terribile dell’isteria, e mi sembrò di avere gli occhi accecati da quel pianto ribelle che non vuole uscire. Che fare? A che serviva chiedere a quell’uomo diseredato quali prodigi, quali meraviglie poteva mostrarmi in quelle tenebre intanfite, dietro quel sipario a brandelli? In verità - io non osai. Ma se pure la causa del mio timore vi farà ridere, vi dirò che temevo di umiliarlo. Alla fine mi risolsi a lasciare, passando, un po’ di denaro su una tavola, sperando che divinasse la mia intenzione - quando un riflusso di folla, spinta da un non so quale torbido, mi trascinò via da lui. E andando via, posseduto da quella visione, cercai di analizzare il mio improvviso dolore, e mi dissi: "Ritorno dall'aver contemplato l’immagine del vecchio uomo di lettere, sopravvissuto alla generazione di cui fu il fascinatore più brillante; del poeta invecchiato senza amici, senza famiglia, senza figli, degradato dalla sua miseria e dall'ingratitudine pubblica: e nella cui baracca il mondo perso nell'oblio non vuole più entrare".

Si parla di emarginazione del poeta anche nel poemetto XIX intitolato: Le joujou du pauvre (Il giocattolo del povero):

"Voglio darvi un'idea per un gioco innocente. Ci sono così pochi piaceri che non siamo colpevoli! Quando uscirete di mattina con l'intenzione sicura di andarvene a passeggio per le grandi vie, riempitevi le tasche di piccoli balocchi da un soldo - come il pulcinella piatto che si spenzola a un filo solo, i fabbri ferrai che picchiano un'incudine, il cavaliere col cavallo dalla coda a fischietto, - e lungo le taverne, ai piedi degli alberi, fatene omaggio ai bambini sconosciuti e poveri che incontrerete. Vedrete i loro occhi spalancarsi smisurati. Prima non oseranno prenderli, dubiteranno della loro fortuna. Poi le loro mani arrafferanno bruscamente il regalo, e se la fileranno come i gatti che vanno e mangiarsi lontano da voi il boccone che gli avete offerto - perché hanno imparato a diffidare dell'uomo. Su una strada, dietro la rete di un grande giardino, in fondo al quale appariva il candore di un grazioso palazzo investito dal sole, stava un ragazzino bello e pulito, vestito a quella moda campagnola così carica di civetteria. Il lusso, la spensieratezza e lo spettacolo abituale della ricchezza, rendono quei ragazzi tanto graziosi, che li crederesti fatti di una pasta diversa dai figli della mediocrità o della miseria. Vicino a giaceva un giocattolo splendido, lustro il padrone, laccato, indorato, vestito di abito purpureo, coperto di piume e di perline di vetro. Ma il bambino non si curava per niente del costoso balocco, - ecco cosa guardava: Dall'altro lato della rete, in strada, tra i cardi e le ortiche c'era un altro ragazzo, sudicio, magrolino, fuligginoso: uno di quei marmocchi - paria in cui un occhio del conoscitore sa divinare sotto una vernice da birrocciao una pittura ideale - lo scortasse della patina ripugnante della miseria. Attraverso quelle sbarre simboliche che separavano due mondi, la strada grande e il palazzo, il ragazzo povero mostrava a quello ricco il suo giocattolo, che l'altro lo esaminava avido, come un oggetto raro e misterioso. Ora, quel giocattolo che il piccolo sudicione stuzzicava, agitava e scuoteva in una scatola con una reticella, era un topo vivo! I genitori, certo per risparmiare, avevano ricavato un giocattolo dalla vita stessa. I due ragazzini se la ridevano fraternamente tra loro con denti di una uguale bianchezza".

Il bambino povero, è il vecchio poeta che può ancora maneggiare la parola viva, al contrario della parola artefatta registrata logora del giornalismo, del discorso politico, del linguaggio notarile. Il bambino è attratto dalla parola più viva.

Questo è l'esatto risarcimento, in maniera allegorica e simbolica, che Baudelaire dà al vecchio saltimbanco. La parola usata del vecchio poeta, sta al topo vivo, come il giocattolo del ragazzino ricco, sta alla parola morta, quella del quotidiano, quella del commercio, quella del lessico sempre più impersonale dei giornali. La parola sempre più logora, che, ad un certo punto, diventa stanchezza nell’uditore, il quale nella mente di Baudelaire, potrebbe ritrovare una strada, (quella del topo vivo), come giocattolo imprevedibile.

Come il poeta, anche la donna, in questo contesto moderno, conosce uno stato di profonda emarginazione. Baudelaire è pronto a rilevarlo. Leggiamo a tal proposito il poemetto II intitolato: Le dèsespoir de la vieille (La disperazione della vecchia):

"La vecchietta raggrinzita si sentì rivivere guardando il bimbo delizioso a cui ognuno faceva festa, a cui tutti volevano piacere; quell'esserino vezzoso, come lei fragile, e come lei senza denti e senza capelli. Gli si accostò, voleva fargli i sorrisini, e le mossette scherzose. Ma il bimbo spaventato si contorceva sotto le carezze di quella buona donna decrepita, e riempiva la casa dei suoi guaiti. Allora la buona vecchia si segregò nella sua solitudine eterna, in un angolo, lacrimando e dicendo tra sé: "Ah! Il tempo di piacere, per noi femmine invecchiate e infelici, è passato: fosse pure a dei bambini innocenti; e ai bambolini che vorremmo amare non ispiriamo che orrore!".

Sotto questo ritratto c'è sempre la silhouette di Baudelaire che scrive e che vuole fare festa e gratificare qualcuno con le sue cose. Questo tema della vecchia ritornerà in una delle più grandi poesie dell'Ottocento, dove sarà inserita come parlante una figura che è tipica della metropoli di quel momento, e cioè quella del flaneur, figura che non è concepibile al di fuori della metropoli stessa.

Questa mancanza d'identità, di cui la metropoli ha oramai segnato l’uomo sensibile, è recuperata assumendo non più una ma tante identità (a tal proposito vedremo in seguito che questo tema continuerà con maggior forza nel Novecento, ci basta qui ricordare il Pirandello d'Uno, nessuno, centomila).

Se Leopardi a Recanati, in quanto poeta, può apparire agli occhi dei suoi concittadini stravagante, tuttavia, in quanto conte, è pur sempre riverito e rispettato. Ma un Leopardi trapiantato a Parigi sarebbe destituito totalmente. Non sarebbe nessuno, perché nessuno deve essere identificato in una società in cui soltanto essendo massa, si ha un valore, in quanto scambio. Si avverte un sostanziale anonimato.

L'atteggiamento che pertanto potrebbe scaturire è di rifiuto di questo tipo di società e città. Il barone von Kleist ad esempio pensa di ritirarsi in campagna non tollerando questo anonimato. Baudelaire è figlio di questo pensiero.

Tra il 1870-80 Tristan Corbière fa una variazione ad una poesia di Baudelaire, dove non essendo più nessuno si aggira per la città a caccia di sensazioni varie. Vede una donna e cerca di agganciarla (lui è vestito lacero nei panni di un mendicante) questa facendo ondeggiare l'ombrellino gli offre dei soldi come elemosina, e tutto finisce in questo gesto.

Esaminiamo il lavoro di Baudelaire: Les Petites Vielles (Le Vecchiette):

Tra le pieghe sinuose d'antiche capitali,
dove tutto ha un suo incanto, anche l’orrore,
obbedendo a fatali umori, spio,
esseri strani, cadenti e affascinanti.

Che mostri sgangherati! Eponima! Lais!
Un tempo erano donne questi mostri rotti,
gobbi o contorti! Amiamoli! Sono ancora anime!
Arrancano sotto gonne lacere o tessuti

freddi, flagellati dagli iniqui venti,
e fremono al frastuono degli omnibus in corsa,
stringendo al fianco, come una reliquia,
una borsetta ricamata a figure o fiori;

trotterellano come marionette;
si trascinano come bestie ferite,
o ballano, senza volerlo, povere campanelle
a cui s'attacca un Demone spietato! A pezzi,

pure hanno occhi penetranti come un trapano,
lucenti come le crepe in cui a notte dorme l'acqua,
occhi divini come quelli della fanciulla
che si stupisce e ride per tutto ciò che brilla.

-Avete notato che molte bare di vecchie
sono piccole quasi come quella d'un fanciullo?
Ma è il simbolo d'un gusto bizzarro e seducente
che la saggia Morte mette in bare così simili!

Infatti quando vedo un debole fantasma
attraversare il quadro brulicante di Parigi,
mi sembra sempre che quel fragile essere
se ne vada piano piano verso una nuova culla.

A volte invece medito sulla geometria
e mi chiedo, alla vista di quelle discordi membra,
quante volte bisognerà che l'operaio cambi
la forma della scatola dove questi corpi sono messi.

-Che pozzi di lacrime a milioni quegli occhi!
Che crogiolo tutto luccichii di metallo raffreddato...!
che fascino invincibile quegli occhi misteriosi
per chi allattò la Sventura austera!

Chi non ama il viaggio è uno che non sa godere della folla. Bisogna avere l'odio per il domicilio e il piacere del viaggio.

Saper viaggiare significa sapersi staccare da ciò che fa la folla nella metropoli, Baudelaire rileva proprio questa sensibilità diversa.

C'è lo sguardo particolare di chi nota ciò che non nota più nessuno tra i cosiddetti "meccanizzati".

Leggiamo un sonetto intitolato: A une passante (A una passante):

La strada assordante strepitava intorno a me. Una donna alta, sottile, a lutto, in un dolore immenso, passò sollevando e agitando con mano fastosa il pizzo e l'orlo della gonna, agile e nobile con la sua gamba di statua. Ed io, proteso, come folle, bevevo la dolcezza affascinante e il piacere che uccide nel suo occhio, livido cielo dove cova l'uragano. Un lampo...poi la notte! ­ Bellezza fuggitiva dallo sguardo che m'ha fatto subito rinascere, ti rivedrò solo nell'eternità? Altrove, assai lontano di qui! Troppo tardi! Forse mai! Perché ignoro dove fuggi, ne tu sai dove vado,tu che avrei amata, tu che lo sapevi!

Si tratta della storia di due che si dicono tutto in un istante, che solo una sensibilità accentuata può notare.

Questo sonetto apre una topica che darà vita a variazioni future in poesia e in un caso anche in prosa Una vita di Italo Svevo.

Da Baudelaire si può scendere a Tristan Corbière che scrive:

"Io faccio la mia scorreria per la città, quando è bel tempo, per la passante che, con una piccola aria di vincitrice, vorrà bene con la punta del suo ombrello, togliermi la pelle dal cuore (darmi una particolare emozione, per portare a spasso la sua fame, bisogna che il passante si dia da fare). Un bel giorno, che mestiere che sto facendo, io facevo come di norma la mia crociata in mezzo alla città e finalmente l'ho incontrata. Lei chi? La passante! Ella facendo girare il suo ombrello, io l'abbordo, ma ella mi riguardò dall’alto mi tese la mano, mi ha dato l'elemosina".

C'è qui un dislivello assoluto tra i due. La passante prende l'uomo sensibile per quel cui si era travestito, e non capisce lontanamente cosa veramente voleva. Si arriva alla posizione contraria di quella descritta da Baudelaire, dove i due capiscono, il gioco.

Esaminiamo ora il romanzo di Italo Svevo che nel suo tratto fondamentale sarà causa di un altro pezzo, questa volta cinematografico dei nostri giorni Ricomincio da tre di Massimo Troisi. La città (Trieste) pur piccola, Svevo la può immettere in un contesto di una grande perché mostra di conoscere il contesto metropolitano pur vivendo in un piccolo centro. Scrive Svevo:

"Una sera correndo si trovò dietro ad una donna che passando l'aveva guardato. Vestita di nero, teneva molto alta la sottana, e lasciava vedere un piedino calzato in eleganti scarpette lucide. Una calza nera, l'attaccatura del piede gentilissima, per il corpo agile ma non misero. Alfonso vide ancora il collo dalla pelle bianchissima, nulla della faccia. Risolutamente la seguì, la sorpassò, poi l'attese come un cagnolino. La signora a lui pareva ridesse guardandolo alla sfuggita e incoraggiato egli si propose di avvicinarla; era la prima volta ch'egli si trovasse in tale imbarazzo. Ebbe delle esitazioni che lo costrinsero poi ad accelerare il passo. Ella attraversò il corso, ed imboccò via Cavana. Dovrà passare dinanzi alla biblioteca, alla peggio andrò alla biblioteca, pensò Alfonso, per dare alla sua passeggiata, una meta sicura. La precedette e si fermò alla porta della biblioteca. Ella passò, mentre la luce di un fanale faceva risaltare la bianchezza del collo e brillare la lacca della scarpetta ma non lo sguardò, ciò che ad Alfonso levò per qualche tempo la voglia di sedurla. Lentamente ella salì l'erta della via santi martiri lungo il tribunale, mentre appoggiato ad un paracarro egli si contentava di seguirla con l'occhio. Poi quando ella aveva quasi terminata l'erta, egli si avanzò sino al tribunale. Vide la figurina prospettarsi sul cielo, le curve precise come se le avesse viste più da vicino, ancora un istante di esitazione e l'avrebbe perduta di vista. Non v'era tempo a riflettere e il suo desiderio parlò chiaro ed imperioso spingendolo ad una corsa sfrenata in modo che la raggiunse prima ch'ella si trovasse sul piano. Era agitato ma tanto stanco che era la la per lasciare la risoluzione presa da poco. In mente la stessa idea che lo aveva fatto correre dal tribunale in su, le si avvicinò: signora le disse, e levò il cappello. Ma la respirazione divenuta più affannosa da che s'era fermato, gli impedì di continuare. Un occhio azzurro lo guardò con freddezza glaciale, e trovandosi così poco preparato per parlare avendo pensato solo a correre, semplicemente si fece da parte per lasciarla passare, e pigliò fiato lieto come avesse temuto di venirne impedito. I desideri che lo coglievano con tanta rapidità, altrettanto rapidamente lo abbandonavano, per dimenticarli gli bastava di venir scosso da un timore o da una fatica ".

In questo passo, il protagonista Alfonso Nitti, rappresenta la sintesi fra il "sognatore" di una certa letteratura russa-pietroburghese e il "flàneuar" parigino.

Una situazione analoga la troviamo nel protagonista de Le notti bianche di Fedor Michajlovic Dostoevskij dove si legge:

"Tornai indietro, feci un passo verso di lei e immancabilmente avrei pronunciato:'Signora!', se non avessi saputo che questa esclamazione era stata pronunziata ormai mille volte in tutti i romanzi mondani russi".

Un altro personaggio accomunabile a questo sopra citato è il protagonista di una poesia di Vincenzo Cardarelli, il quale ambienta questo suo lavoro in un tram della Roma del secondo dopoguerra. Così si legge ne Incontro in circolare:

"Alta, bruna fiancuta, sotto un soprabito disadorno, la bella ragazza confusa nella misera folla di una vettura circolare interna pareva sorda ad ogni affanno. Ferma sul corridoio un po’ appartata, le sue gambe di statua, sostenevano gli urti come solido ponte un fiume in piena. Non gloria in lei spirava, non frenesia di vita e di giovinezza, ma una decisa e forte indifferenza luceva nei suoi occhi assorti ed aguzzi. Era di quelle romane bellezze che sono rare anche a Roma dove mai non si incontrano senza un mutuo stupore. Era un grande segreto della vita di Roma che m'appariva in luogo dei propizio, nella forma più degna. Dove veniva, dove andava la bella romana chiomata di lucidi e ricci capelli? Quale mestiere o cura attribuirle?".

Abbiamo visto quindi, come la nascita della modernità significhi l'uscita di scena di un certo modo di fare letteratura e di come la perdita di una determinata sensibilità, alteri il rapporto fra le parole e le cose.

Gli ultimi elastici che tengono uniti una civiltà si spezzano definitivamente.

Con la nascita del nuovo mezzo di comunicazione (il giornale) si fatica sempre più a trovare un linguaggio in grado di recuperare questi elastici.

La perdita di un certo tipo di linguaggio (quello poetico tradizionale) conduce all'abisso come già sottolineava Baudelaire.

Si scopre drammaticamente tutta la precarietà dell'esistenza umana, l'ambiguità del futuro, l'ombra del fallimento, dell'irreparabile discesa fino alle buie profondità.

Il linguaggio comunicativo si azzera.

Il mondo umanista scoprirà l'immagine del poeta palombaro come messaggero degli abissi nella figura di Giuseppe Ungaretti.

Nei fondali del "porto sepolto" si assapora il buio divenire delle cose.

L'oscurità penetra come lama dentro l'anima dei sogni e dell'antica sensibilità. Chi siamo?

Tutto si muove in un paesaggio dai connotati sfumati dove ci si aggira a tentoni.

Si scopre il mal di vivere tra parole che tacciono.

"What shall we use to fill the empty spaces where we used to talk?"
(tr.it. Che cosa useremo per riempire i vuoti spazi dove eravamo abituati a parlare?)

Siamo nel 1979 e queste sono le parole di Empty spaces un brano musicale tratto dall'album The wall di uno dei maggiori gruppi musicali del panorama rock mondiale i Pink Floyd.

Sono trascorsi oltre cento anni da quando Baudelaire denunciava la progressiva scomparsa di una certa letteratura, nel frattempo si sono succeduti diversi mezzi di comunicaizone, ma il filo della comunicazione interrotto allora, non è stato ancora ricongiunto.

Stare dentro o stare fuori dal muro, significa stare dentro o fuori un certo sistema che prevede anche il crollo del ponte comunicativo che lega le persone ad un certo tipi di società. Questo è l'interrogativo di fondo a cui dobbiamo rispondere.

Quando la comunicazione diventa impersonale, anonima, priva di qualsiasi contenuto rappresentativo, cosa farsene dei mezzi e degli strumenti sempre più abbondanti e sofisticati?

Al decollo delle tecniche e delle tecnologie fa riscontro il declino della narrazione. Sulla "cima Coppi" del profitto posta dal capitalismo disumano e dagli scenari metropolitani, ci si accorge immediatamente di perdere terreno rispetto a corridori più agili nella dura pedalata verso la vetta, il successo.

Alleggerire il proprio carico per provare a competere significa, rinunciare al proprio bagaglio storico e culturale, significa non potersi più ristorare alla borraccia d'acqua limpida e fresca dell'arte e della vita.


Theorèin - Settembre 2002