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LA CONDIZIONE MODERNA
Vecchia e nuova scrittura nella metropoli (I parte)
L'arte se diventa, come dirà Adorno, una sorta di riposo per uomini d'affari stanchi, allora si degrada.
L'arte non è più centrale.
Goethe nel 1797 è il primo a sostenere che in una grande città commerciale coloro che leggono romanzi e giornali ne esigono soltanto divertimento.
Questa è una caduta vorticosa dell'arte nella modernità.
Accanto a questo tema abbiamo anche visto nascerne un altro: la grande città contrapposta alla piccola.
La grande città, che sta diventando metropoli, comincia ad essere fattore di esclusione di tutto ciò che tradizionalmente chiamiamo arte:
soprattutto la poesia che ha bisogno di solitudine e di silenzio.
Ai nostri giorni si assiste ad una volontà assoluta, in tutti i campi, della novità, ma quello che viene a mancare è la consapevolezza di ciò che ci ha preceduto.
C'è una perdita dello spessore storico, per cui paradossalmente quanto più ci si rinnova, tanto più, come diceva Nietzsche, si arriva al recupero dell'identico dal passato.
Il rinnovamento nella televisione e nei nuovi media informatici di oggi avviene come avveniva per la letteratura di un tempo:
la ricerca disperata del nuovo, ignorando il passato; di fatto però non si può trasgredire qualcosa
Il dramma che i romantici intravedono è proprio l'abolizione della storia progressiva, per cui se c'è un desiderio di rinnovare, esso avviene sul nulla.
Questo è il segnale d'allarme che lanciano in questo periodo.
L'arte, degradata a divertimento, e la mancanza di tempo nella grande città commerciale fanno sì che non si riesca più a ritagliare degli spazi attraverso il silenzio e recuperare la conoscenza di quelle epoche, senza le quali non c'è possibilità di rinnovamento e di crescita.
Dietro il pensiero di questi romantici abbiamo già visto agitarsi il fantasma di Rousseau nella Lettera sugli spettacoli
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Tutti risentono di tale influsso: ne risente Goethe, ne risente Leopardi.
Quest'ultimo in un' Operetta Morale intitolata Il Parini ovvero della gloria nel 1824 scrive:
"Chiunque poi vive in città grande, per molto che egli sia da natura caldo e svegliato di cuore e d'immaginativa, io non so (eccetto se, non trapassa in solitudine il più del tempo)
come possa mai ricevere dalle bellezze o della natura o delle lettere, alcun sentimento tenero o generoso, alcune immagine sublime o leggiadra.
Perciocchè poche cose sono tanto contrarie a quello stato dell'animo che ci fa capaci di tali diletti, quanto la conversazione di questi uomini,
lo strepito di questi luoghi, lo spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti, della falsità perpetua, delle cure misere, e dell'ozio più misero, che vi regnano.
Niente è più nemico quindi alla solitudine di quanto non sia il pubblico di una vasta città.
E se gli antichi reputavano gli esercizi delle lettere e delle scienze come riposi e sollazzi in comparazione ai negozi, oggi la più parte di quelli che nelle città grandi fanno professioni di studiosi,
reputano, ed effettualmente usano, gli studi e lo scrivere, come sollazzi e riposi degli altri sollazzi".
La letteratura degradata porta ad una sorta di perenne divertimento.
Il giornale s'inserisce alla perfezione in questo contesto.
Scrive Friedrich von Haedemberg (Novalis) nel 1801:
"I giornali sono propriamente libri collettivi.
Lo scrivere in società è un sintomo interessante, che fa prevedere una grande evoluzione della letteratura.
Un giorno si scriverà, forse, e si penserà e si agirà in massa.
Interi comuni e persino nazioni intraprenderanno un'unica opera".
Appare un altro aspetto del mito romantico, ovverosia il momento in cui si recuperano attraverso la riabilitazione della storia, quei momenti in cui l'arte, in forza della sua anonimità, rappresentava un momento non separato dagli altri dentro il gruppo sociale.
Mediante il recupero di elementi del Medioevo, come ad esempio del gotico, i romantici vedono un esempio di arte collettiva e per la massa, in cui il singolo scompare a vantaggio della totalità.
Alessandro Manzoni nel 1820 si reca a Parigi e in una Lettera a Tommaso Grossi scrive:
"Qui non si può lavorare, non si può mettere insieme un verso.
Vivendo ritiratamente al mio solito, sono pieno di distrazioni; entrano per la finestra.
Ma tutte queste cose dirai non sono poi aliene affatto dalla poesia:
è vero, sono dettagli, sono cose del mondo, sono ripetizioni, hanno un lato poetico, ma sono prosa; e poi stordiscono.
Quale cosa ha più relazione col commercio di una fiera?
E' il commercio stesso: ma provati un po' a scrivere un trattato di commercio passeggiando su una fiera, e me lo saprai dire".
Goethe a Francoforte dice la stessa cosa.
Stesso atteggiamento è quello di Rousseau nella Nuova Eloisa quando dice:
"io vengo dalla Svizzera e sono un montanaro e come tale sono trattato dalla società dei salotti parigini.
Questo fatto m'impone di vivere piuttosto ritirato".
Ma in una città come Parigi è cosa impossibile, in quanto le distrazioni entrano dalla finestra, e non se ne può fare a meno.
Se trasportiamo i termini di questa dialettica dalla prima industrializzazione, ovvero dal periodo legato alla macchina a vapore, a questo ultimo trentennio, ritroviamo la stessa antitesi,
non già fra letteratura e giornale, ma fra stampa in generale rispetto ad una comunicazione che è visiva.
Abbiamo visto che il moderno altera i connotati di tutti gli aspetti che duravano da sempre del vivere sociale.
Altera le masse, la metropoli, il mercato, le macchine.
Ma nel momento in cui passiamo da una macchina meccanica ad una macchina informatica,
si sviluppa un ulteriore trauma dei quattro fattori, e di conseguenza andiamo verso una società che non sappiamo più di che tipo sia, perché questi quattro elementi li vediamo tutti alterati.
Definiamo pertanto questo nuovo stato di cose postmoderno.
Goethe in una lettera privata a Schiller parla della solitudine;
è una lettera fondamentale in quanto lega la letteratura tradizionale, la poesia, il libro alla necessità della solitudine.
Questo tema corre lungo tutto l'Ottocento e anche il Novecento:
abbiamo già parlato del grosso contributo apportato a proposito da Charles Baudelaire.
Torniamo per un attimo a guardare dentro il suo mondo intellettuale, nella raccolta intitolata
Poemi in prosa, dove troviamo un brano che parla del rapporto fra giornalismo e metropoli.
Il poema s'intitola La solitudine; siamo a Parigi nel 1850.
"Un giornalista filantropo dice che la solitudine è funesta per l'uomo; e in appoggio alla sua tesi cita, come tutti gli increduli, parole dei Padri della Chiesa.
So che il Demonio frequenta volentieri i luoghi aridi e che lo spirito d'assassinio e lubricità s'infiamma meravigliosamente nelle solitudini.
Ma questa solitudine potrebbe benissimo essere pericolosa solo per l'anima oziosa e divagante che la popola con le sue passioni e chimere.
Certamente un chiacchierone, che raggiunge il massimo piacere nel parlare dall'alto di una cattedra o di una tribuna, rischierebbe di diventare un autentico pazzo furioso nell'isola di Robinson!
Io non pretendo dal mio giornalista le coraggiose virtù di Crusoe, ma gli chiedo di non condannare gli amanti della solitudine e del mistero.
Nelle nostre razze ciarliere esistono individui che accetterebbero con minor ripugnanza l'estremo supplizio, se fosse loro concesso di fare dall'alto del patibolo una copiosa arringa senza dover temere che i tamburi di Santerre troncassero loro la parola.
Non vi compiango, perché intuisco che dalle loro effusioni oratorie essi ricavano una voluttà pari a quelle che altri traggono dal silenzio e dal raccoglimento;
ma li disprezzo. Soprattutto desidero che il mio maledetto giornalista mi lasci divertire a modo mio.
'Dunque, non provi mai', mi fa con un tono nasale quanto mai apostolico, 'il bisogno di condividere le tue gioie?'.
Senti, senti che sottile invidioso! Sa che disprezzo le sue e vorrebbe insinuarsi nelle mie, schifoso guastafeste!
'La grande sventura di non poter essere soli!', dice da qualche parte La Bruyère, quasi per svergognare quanti corrono a dimenticarsi in mezzo alla folla, certamente nel timore di non potersi sopportare.
'Quasi tutte le nostre disgrazie dipendono dal fatto che non siamo capaci di restare nella nostra
camera', dice un altro saggio (Pascal, se non sbaglio),
richiamando così nella cella del raccoglimento tutti quei forsennati che cercano la felicità nel movimento e in una prostituzione che chiamerei fraternitaria, attenendomi al bel modo di esprimersi del mio secolo".
Il giornalista è inserito sempre di più in un universo di traffico, di rumori, di parole ridondanti.
Tutti parlano, tutti corrono, tutti hanno da fare.
Il giornalista è l'intellettuale organico a questo mondo di metropoli, di masse, di macchine e di mercato.
Baudelaire immagina che il giornalista si rivolga a lui e dica: tu rappresentante della poesia e del libro tradizionale, possibile che non senti il bisogno di comunicare?
Possibile che non senti il bisogno di immettere le tue parole in mezzo agli altri in maniera tale che anche gli altri possano eventualmente beneficiare di quello che stai elaborando?
Il giornalista lo taccia di non essere filantropo, di non essere un amante degli uomini.
Replica Baudelaire: io sostanzialmente sono più filantropo di te nel momento in cui sto confezionando, nella solitudine, un prodotto che, una volta fruito in analoga solitudine
da ciascuno di quelli che compongono la folla, potrà portare a lui più vantaggio di quanto tu giornalista non faccia propinandogli ulteriori parole nel mare di parole nel quale questi sono costantemente annegati.
Il giornalista pare che gli faccia una sorta di paragone con l'eremita, con i padri del deserto di un tempo, dicendo: tu sei uno sostanzialmente fuori tempo, perché basandoti su un certo tipo di solitudine incorri negli stessi guasti psichici nei quali incorrevano anche i padri del deserto.
Baudelaire replica: attenzione, perché la solitudine della quale noi moderni stiamo parlando come ambizione non è quella dei padri del deserto.
La mia solitudine non è il rifiutare la città.
Il poeta moderno non è quello che si separa dalla città e va a vivere per esempio in un paese di montagna deserto, ma è colui che vuole e riesce a rimanere solo nella propria stanza, pur essendo circondato da questo mare di parole che costituisce la metropoli moderna.
Si ha la sensazione, dice Baudelaire, che il silenzio sia oppressivo e che ci sia bisogno del rumore.
Si comincia ad avere la paura del vuoto, della piazza vuota, la paura del muro bianco, la paura di un happening in cui tutti stiano in silenzio e si guardino in faccia.
Di fatti, non c'è piazza oggi che non sia aggredita da un qualcosa di estraneo proprio per questa paura del vuoto.
Baudelaire attribuisce questo parlare continuo ad una specie di psicosi collettiva.
Inizia la politica di massa.
Baudelaire intuisce già quello che sarà una sorta di magia, che si stabilisce tra il politico e il popolo, nel momento della crescita delle masse.
Ciò accadrà nelle grandi dittature del Novecento.
La serialità meccanica è un'altra delle cose cui il romantico reagisce.
La litografia rappresenta una grossa novità, in quanto un disegno non è più rappresentato uno ad uno, ma è destinato da uno a tanti.
La moltiplicazione dei disegni fatti una volta sola costituisce una caduta della qualità delle opere, come avverrà ancora in pieno Novecento in quell'opera di Walter Benjamin, vicino alla scuola di Francoforte,
che è intitolata L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica .
L'opera che esce direttamente dalle mani dell'artista è un'opera aurata, mentre quella stessa una volta riprodotta conserva la sua immagine ma è priva di aurea.
In un passo de L'educazione sentimentale Gustave Flaubert ironizza sull'assoluto "cinismo" della prima pagina del giornale così come veniva posto dal giornale stesso:
scherza sulla scarsa profondità della scrittura giornalistica e anche dell'impaginazione del giornale.
Un problema analogo si verifica oggi per quanto concerne i palinsesti televisivi.
Ad un certo punto del romanzo c'è Frèdèric Moreau, un arrivista, l'archetipo di Andrea Sperelli ne
Il piacere di D'Annunzio, che va a leggere dei giornali in una biblioteca e dice:
"Un giorno gli capitarono fra le mani molti numeri del Flambard.
l'articolo di fondo era invariabilmente consacrato a demolire un uomo illustre; seguivano notizie mondane,
i pettegolezzi. Poi si prendeva in giro l'Odèon, Carpentras, la piscicultura, e i condannati a morte quando ce n'erano.
La scomparsa di un piroscafo offrì materia di barzellette per un anno.
Nella terza colonna un corriere delle arti forniva, sotto forma di aneddoti e suggerimenti, notizie di sarti, resoconti di serate,
annunci di vendite e analisi di opere, trattando con lo stesso stile un volume di versi e un paio di stivali...".
Dopo una serie d'attacchi ai giornali, Kierkegaard imbastisce uno strano aneddoto che si potrebbe chiamare "l'aneddoto del megafono". Siamo nel 1839:
"I libri sono letti da pochi; i giornali da tutti... Come se su di una nave ci fosse un solo megafono e se ne fosse impossessato, col consenso di tutti, il garzone di cucina.
Ora, tutto ciò che il garzone doveva comunicare ('metti il burro negli spinaci', 'oggi fa bel
tempo', 'forse laggiù c'è un guasto', ecc.), veniva comunicato con il megafono, mentre il capitano era costretto a dare ordini con la sola voce,
perché quanto il capitano aveva da dire non era poi così importante... Anzi, il capitano alla fine, dovette invocare, per riuscire a farsi sentire, l'aiuto del garzone di cucina, e quando questi si degnava di riferire i suoi ordini, essi passando per il garzone di cucina e il suo megafono, venivano sistematicamente travisati.
Invano il capitano alzava la sua povera voce, perché l'altro col suo megafono soverchiava tutto.
Da ultimo il garzone di cucina s'impossessò del comando della nave: perchè aveva il megafono. Pro Diis immortalibus!".
Theorèin - Ottobre 2002 |