Non ci sarebbe mai stata la moderna scienza senza un adeguato sviluppo del discorso matematico, e questo a sua volta non ci sarebbe mai stato, senza il successo esaltato dal cristianesimo meno evangelico dell'anima socratico-platonica.
Tutta l'artificialità e l'astrazione, padrona dell'odierno occidente industrializzato, dipendono dunque dall'invenzione dell'anima. L'affermazione di quest'anima ha una sua tradizione in un profondissimo odio verso il corpo che si manifesta nel cristianesimo primitivo (II e III secolo d.C.). Su questo atteggiamento il cristianesimo si divide.
L’affermazione della vera fede, passava attraverso il martirio, elemento caratterizzante di sette e alternative ideologiche all’interno del cristianesimo primitivo.
Un testo da segnalare è del 107 dove sant'Ignazio vescovo di Antiochia scrive l'Epistola ai Romani, mentre è in attesa a Roma, di subire il martirio ad opera di belve:
«Io scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che volentieri muoio per Dio, se non me lo impedite. Vi prego, non siate per me di una benevolenza inopportuna. Lasciatemi essere pasto delle belve, per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Io sono frumento di Dio, e sono macinato dai denti delle belve, perché possa diventare pane puro di Cristo. Piuttosto, carezzate le belve, perché diventino mia tomba, e nulla lascino del mio corpo, affinché non sia di peso ad alcuno, dopo la mia morte. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà neppure il mio corpo. Pregate il Cristo per me, affinché per mezzo di quei denti io diventi vittima offerta a Dio. [...] Possa trovarmi di fronte alle belve preparate per me, e prego che esse procedano alla svelta: io stesso le alletterò, perché mi divorino rapidamente, e non siano timorose, come fecero con alcuni, che nemmeno toccarono. E se esse non volessero perché non disposte a farlo, io le costringerò con la forza [...] Il fuoco e la croce e la lotta con le belve, le lacerazioni, gli squarciamenti, le slogature delle ossa, la mutilazione delle membra, la stritolatura del corpo intero, i crudeli supplizi del diavolo piombino su di me, purché io raggiunga Gesù Cristo! [...] Vicino è il momento in cui sarò partorito. Abbiate comprensione per me, o fratelli; non impeditemi di vivere, non vogliate che io muoia: io voglio essere di Dio, non abbandonatemi al mondo e alle seduzioni della materia. Lasciate che io raggiunga la pura luce: una volta giunto colà, sarò veramente uomo [...]».
Un passo del genere attinge la sua tendenza dal Fedone platonico. Se dobbiamo liberarci di tutto ciò che è corpo per raggiungere la verità, che è l’anima, la posizione di Ignazio di Antiochia è molto chiara; se non ci fosse questo supplizio, in qualche modo, dovrebbe comunque augurarselo.
Questo atteggiamento verso il corpo, resiste fino al Seicento, arrivando a posizioni come quella di Giovanni di Saint-Samson (Il vero spirito del Carmelo) nel 1600: «Se qualcuno si odiasse con tanta perfezione da procurarsi tutto il male possibile, come per una voglia insaziabile, o, pur non osando ciò a causa di determinate circostanze, fosse almeno capace di attendere quel male con piede fermo e oscuro, nessuna creatura riuscirebbe più a recargli offesa, né alcuna cosa a nuocergli. Giacché non si potrebbe più raggiungerlo in alcun modo, ed egli sarebbe ormai imperturbabile e del tutto impenetrabile; non solo al fondo di se stesso, ma nell’immensità di Dio, in cui si ritroverebbe totalmente perso, e dove vivrebbe nascosto e assolutamente ignoto, in piena solitudine di spirito di corpo fino al limite
consentitogli».
Alla base di questo odio di sé sono riconoscibili antiche risonanze stoiche.
Ma uno degli esempi più inquietanti di tutta la cristianità, è rappresentato da santa Rosa da Lima che vive tra il 1600-1700. Chi scrive su di lei è il suo confessore che dice nel Memoriale: «Dalla sua più tenera fanciullezza Rosa fu tutta amore e perciò tutta eccesso. Non tenne via di mezzo nelle sue mortificazioni come non conobbe vie di mezzo nel suo amore. Iniziò con i rigori che negli altri concludono. Crebbe danni e d’amore, di digiuno, austerità e penitenza. A suoi nuovi doveri di terziaria di S.Domenico aggiunge altri rigori di sua invenzione. Con due catene di ferro di costruì sull’esempio di nostro padre Domenico discipline con cui si percuoteva ogni notte fino ad irrigare la terra con il suo sangue. Mai tralasciava di somministrarsi queste discipline sanguinolente e forniva il motivo di questo uso. Qualche notte diceva di farlo per le anime del purgatorio, procurando di saziare con l’effusione di sangue l’ingordigia di quella fornace sempre in opera e sempre bruciante l’amore era che conduceva la mano e i colpi della disciplina, il desiderio di procurare a quelle anime un po’ di sollievo nel cuore delle loro terribili sofferenze. Il sangue ruscellava, affinché estinguesse tutto quel fuoco divampante delle anime del purgatorio. Questa preghiera si elevava da tante labbra poiché tanti solchi schiudeva nella carne di lei e con tanto rigore quanto più ragguardevole era il fisico, talché auspicava di essere un Lazzaro un Giobbe senza amici e senza conforto e senza un cane a leccarne le lacrime. O pietosa spietatezza mettere a repentaglio la vita per guadagnare le anime a Dio sollecitandone la conversione al prezzo del sangue, crudeli colpi di disciplina ch’ella si dava nei punti dove la carne è più sensibile, ella curava soprattutto di ferirsi, per fare conoscenza di questo genere di martirio la giovane Rosa prese ad intessere una corona. Nasce la rosa e nascono le spine che la debbono incoronare, ruvi si fanno le spine sicché la rosa si sviluppa dal bottone verde che la nutre e foggia, poscia essa si libera grado a grado della stretta prigione delle foglie e le spine che crescono smussando le loro punte. La vergine rosa nacque e ruvi nacquero le spine con la rosa. Ella si sviluppò via via dalle prime costrizioni della natura e prese a spandere il profumo dei più soavi. Le spine aumentavano a mano a mano che rose crescevano perché si infittivano le penitenze con il numero degli anni, amava incoronarsi dal giorno in cui avendole le compagne posato sulla testa un ghirlanda ella vi infilò un segreto un ago affinché nemmeno stavolta la rosa fosse senza spine, e così si perforò la tempia. Da quel momento si propose in cuor suo di farsi una corona di spine che le servisse di cilicio avendo così gradito quello che le avevano posto. Contemplando il ecce homo Rosa si inteneriva, ad ogni incontro era tramortita dal dolore ed errava per ogni dove tentando di placarlo. A vedere quella fronte così intricata trafitta di spine il suo stesso cuore trafitto diceva con un sentimento profondo: perché mi piace d’avere membra così morbide quando quella testa è così duramente acciaccata e trafitta? Spinta da questa tenera consolazione dispose che le si costruisse una corona di stagno intrecciata di cordicelle alle quali avrebbe attaccato chiodini in corrispondenza dei luoghi dove dovevano adattarsi alla cervice. Messa che fu la corona i chiodi le trafiggevano le tempie ed ella si trovò così bene che non se la tolse più salvo per sostituirla con altra similmente da lei costruita da quel giorno fino alla morte. Come lo stagno e un metallo pieghevole e cedevole alla mano ne aveva né la durezza né la resistenza che a Rosa occorreva per tenere robustamente i chiodi spenzolanti ai cordoni allentati a segno di non ferirla quando avrebbe voluto e desiderato, questa esperienza la indusse a comporre una corona di metallo più duro e resistente, e nulla trovò di meglio dell’argento non solo per il nitore ma anche per il fine che ella si prefiggeva. Su una breve targhetta d’argento infisse tre ordini di chiodi, in numero trentatré per fila in memoria degli di vita del nostro signore Gesù Cristo, il che faceva in tutto novantanove chiodi. E fu con gradimento mirabile che si calcò questa corona e poiché i capelli avrebbero potuto impedire che i chiodi si infilassero bene nella cervice, si rase il cranio ripetendo l’opera ogni volta che i capelli rispuntassero e curando di lasciarne alcune ciocche sulla fronte in modo da celare la corona nei punti dove più facilmente erano scopribili. Ma la massima parte restava invisibile sotto la chioma che faceva di lei una vittima incoronata di nastri. Il dolore non era circoscritto all’occipite, alle tempie e alla fronte, ma tutte le sensazioni e tutti i movimenti del corpo essendo retti dall’organo superiore che ne regola le funzioni risentivano dei dolori della cervice supplita. Questa osservazione tanto verace che comunemente si dice che se mi duole la testa tutte le membra ne risentono, gli occhi in primo luogo, poi la bocca nel parlare e mangiare, il petto nel respirare e così per tutti i moti naturali ciascuno dei quali era per lei fonte di pena e tormenti. Novantanove chiodi ben piantati suonavano come un corino la tenera testa giorno e notte, e a questo supplizio sanguinolento venne ad aggiungersi un’altra forma di martirio, tutti i giorni ella variava la posizione della corona affinché i chiodi aprissero nel cranio nuove piaghe. Il venerdì se la calava fino al cervelletto affinché ne fossero cinte le cartilagini delle orecchie, che il suo moto degli occhi la parte più sensibile ce lo lasciava fino a domenica per farsi dei dolori, compagnia la madre dei dolori (la madonna) che fu trafitta da una spada di dolore ai piedi della croce, era il suo modo di mantenersi quel giorno in tenera e pia
meditazione».
Riscontriamo in un pezzo come questo, indipendentemente dalla sua autenticità, un’immaginazione sadica che sotto il punto di vista di suggestione teorica, può varcare i secoli ed arrivare sino alla modernità futurista post-religiosa di un Marinetti in modo particolare, come vedremo più in avanti.
Theorèin - Novembre 2002 |