Le pochissime informazioni che abbiamo sulla vita di Tito Lucrezio Caro sono quasi esclusivamente affidate a una testimonianza di san Gerolamo (IV secolo d.C.), il quale nelle sue aggiunte al Chronicon di Eusebio di Cesarea sotto l'anno 94 a.C. riportava questo lemma:
«Nasce il poeta Tito Lucrezio; questi, divenuto pazzo per un filtro d'amore, dopo aver scritto nei momenti di lucidità diversi libri in seguito pubblicati da Cicerone, si suicidò all'età di quarantaquattro anni». Lucrezio difatti è una tarda scoperta. Bisogna attendere il Quattrocento per trovare sue tracce, in positivo o in negativo, nel pensiero di coloro che scrivono e che si occupano di filosofia. Da quel momento in poi tutti avranno letto il De rerum natura in latino e molti lo conoscono a memoria. Riscontriamo tracce profonde ad esempio nell'ambiente napoletano dove si è formato Giambattista Vico, la cui antropologia risente fortemente del pensiero lucreziano (vedi ad es. la V degnità). Agli inizi del Settecento interesserà Leibniz; ancora nel 1734 toccherà all'aristocratico Montesquieu; l'anno prima sarà il nostro Pietro Verri nel suo Discorso sull'indole del piacere e del dolore. Circa mezzo secolo dopo Montesquieu, il De rerum natura capiterà nelle mani del reverendo Égault nel collegio di Dol in cui studia il giovane Chateaubriand, e l'opera sarà sequestrata. Nel 1819-21 in Du Pape, Joseph de Maistre condannerà l'epicureismo coinvolgendo l'intero pensiero greco; massicciamente è presente in Leopardi, nonostante sembra che l'abbia letto una sola volta, quando era giovane, e non l'abbia più approfondito. Uno dei problemi che si pone nell'affrontare Lucrezio, è cercare di capire come mai, malgrado questa lotta antiepicurea che dura secoli, il De rerum natura sembra non aver subìto manomissioni nel tempo, e come mai dell'autore si conosca pochissimo. Possiamo provare a darci alcune risposte attraverso degli indizi: intanto il suo poema è stato considerato scritto per intervalla insania, ossia negli intervalli di pazzia, in quanto si riteneva che Lucrezio fosse impazzito per aver sorbito una porzione d'amore. Un altro elemento è costituito dal tipo di scrittura dell'opera: scrivendo in versi Lucrezio riesce a far passare il suo lavoro sotto l'aspetto letterario e non filosofico, lasciandosi così un punto franco per eventuali attacchi, censure o manomissioni, e questo spiegherebbe il motivo per cui l'opera è passata intatta. Entriamo brevemente nel merito del poema. Intanto è consigliato leggerlo in latino perché solo in latino possiamo comprendere alcune parole chiavi dell'intero pensiero lucreziano.
Vi sono due elementi fondamentali nel Prologo del
De rerum natura: uno è l'idea del generare, del produrre, del riprodurre e del rigenerare
Aeneadum gentrix, hominum divumque voluptas, alma Venus [...] che
troviamo già dall'inizio del Prologo,
e che chiarisce immediatamente quanto sopra detto a proposito
delle parole chiavi; difatti ecco genetrix - da cui le successive genus, genitabilis -
oppure alma Venus inteso come alimentare, come Venere madre in quanto
riproduttrice; l'altro elemento è l'idea del piacere: voluptas, [...] Inde farae pecudes persultant padula laeta et rapidos tranant amnis: ita capta
lepore te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.[...] dove appaiono termini
come laetum ossia lieta
(che in questo caso
significa fertile, laetus è anche aggettivo che allude ad una ricchezza riproduttiva) quindi nel
Prologo abbiamo un piacere che riproduce e riproduzione nel piacere. Se eliminiamo uno dei due aspetti usciamo dall'epicureismo. Lucrezio
si augura che
nel momento
in
cui scrive
il
De rerum
natura
tacciano le armi,
considerando la sua opera come un antidoto alla guerra
civile. La guerra Lucrezio si augura che i piaceri di Venere riescano a placare i furori di Marte. Si augura che Marte
tra le braccia di Venere non pensi a dominare con il suo furore.
L'anima è
Iamque adeo fracta est aetas effetaque tellus
A tarda età perdiamo atomi fino a dissolverci. La fine del mondo vivente avverrà quando verranno espugnati tutti gli atomi. Sarà non solo la fine dei viventi sulla terra, Praeterea nitidas fruges vinetaque laeta
Quando la terra era ricca, spontaneamente dava i frutti, oggi si deve ricorrere all'agricoltura perchè la terra ha sempre meno forza. Il lavoro
Un'ideologia inerente è quella degli aristocratici, che ha l'ozio come valore fondamentale. Senza ozio non ci si può allenare per la guerra contrariamente ai borghesi. Da questo punto di vista possono coincidere nella stessa persona, epicureismo e stoicismo aristocratico.
Iamque caput quassans grandis suspirat arator
Il lavoro esprime una decadenza della natura.
Leggiamo il
Prologo:
«Origine sacra dei figli di Enea, piacere dei lumi e degli uomini, Venere madre che apri sotto i giri degli astri il mare, che la terra fai piena di frutti, ogni corpo animato per te si eterna e il giorno fa luce sul viso del bambino (primavera). Se appari, la tempesta fugge col vento la terra operosa induce i fiori al tuo passo, le onde marine ti sorridono, diventa più casta la quiete dei cieli (reserata) e appena la bella stagione della primavera porta sui zèfiri il verde alle piante, gli uccelli dall'aria schiarita di te cantano la tua dolce presenza, gli armenti scherzano al prato lieto (pabula laeta = che è nel colmo della sua produttività) nuotano sui fiumi e presi dal tuo piacere ti seguono dove ti è grado condurli, e tu sui mari, sui monti, su gorghi dell'acque, sui campi ridenti, su fronti dei lidi metti nei cuori terrestri desiderio d'amore, tu fai che queste ordinate famiglie si riproducano. E poi che tu sola sei della natura guida e nulla può senza te nella aperta luce del cielo venire, e nulla può rallegrarci di caro, tu dunque presenta e desidero accanto che io intono sull'essenza del mondo (de rerum natura).
Ancora nel libro I (versi 254-260)
Si nutre l'umano genere e il genere delle fiere, di qui vediamo rigogliose città fiorire di fanciulli, e selve frondifere echeggiare delle recenti nidiate; di qui stanche le pingui pecore distendono i corpi, per i floridi pascoli, e il candido umore del latte stilla degli uberi colmi; di qui nuova prole di agnelli sulle tremule membra ruzzanti per le tenere erbe, si trastulla, le giovani menti inebriate da purissimo
latte Nel libro secondo, chiamato elogio della filosofia, in posizione opposta a ciò che intendeva Platone, troviamo in una maniera decisiva l'attacco allo stoicismo:
«Dolce è ammirare dalla riva quando sconvolgono i venti l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio, non perché rechi piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce. E' dolce assistere, senza che si partecipi al rischio, agli aspri scontri di guerra in campo aperto ma nulla è dolce più dello starsene nei ben muniti castelli, che edificò la serena speculazione dei savi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua là vagare, e sbandati cercare la via della vita, e manovrare con l'ingegno e far valere i natali e faticando, sforzarsi a gare il giorno e la notte, di giungere alla ricchezza e di acquistarsi il
potere In questa affermazione di Lucrezio non vi è godimento della sorte negativa degli altri, ma una congratulazione con
sè stesso, con la propria sorte, con questi atomi di cui è costituito, che gli consentono di astrarsi da quegli eventi. In questo senso, e solo in questo senso, questa idea arriva fino a Nietzsche, quando parlerà di compassione. L'astrazione dal compatire è una posizione da saggio epicureo. Nel
libro secondo (646-660) sugli dei epicurei leggiamo:
«Perché bisogna che godano quanti essi sono, gli dei, di una esistenza con una faccia perfetta, ben distinti ed estranei alle vicende degli uomini, che esenti da ogni dolore, immuni da ogni pericolo, bastevoli a se medesimi, non bisognosi di noi uomini, non si commuovano ai meriti e non li tocchi lo sdegno. La terra poi non ha sensi, non li ebbe in epoca alcuna e poiché chiude in se gli atomi di molti corpi alla luce ne mette molti in molteplici guise. E se alcuno vuol proprio il mare chiamarlo Nettuno e chiamare Cerere il grano, e anziché proferire la voce propria del vino vuol fare abuso del nome di Bacco gli si conceda di proclamare la terra madre di tutti gli dei purché non lasci in effetto che gli contamini l'animo una così sconcia
credenza Nel finale del libro II (vv. 1131-1145):
«........Dopo, l'età va fiaccando
Nel momento in cui impallidiscono le due visioni, quella stoica e quella platonica, si potrebbe pensare che l'epicureismo dopo secoli potrebbe trovare una sorta di concretizzazione nella modernità, nella civilizzazione, nel macchinismo, perché questa macchinizzazione comporta una rimessa in primo piano dell'uomo come corpo.
In effetti non è così e Jean Baudrillard in America si chiede: è vero che noi curiamo il corpo individualmente in maniera talvolta maniacale, ma non sarà che questa maniacalità della cura del corpo anziché sottolineare il trionfo epicureo, ne sia una ennesima negazione?
Theorèin - Novembre 2004
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