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Cartesio vuole cercare altre verità, proponendosi l'oggetto dei geometri dicendo:
«Vedevo bene che, supponendo un triangolo, bisognava che i suoi tre angoli fossero eguali a due retti; ma non vedevo, per questo, nulla che mi assicurasse che ci fosse al mondo qualche triangolo. Laddove, tornando ad esaminare l'idea che avevo di un Essere perfetto, trovavo che l'esistenza vi era compresa, allo stesso modo che è compreso nell'idea di un triangolo che i suoi angoli sono uguali a due retti, per conseguenza, è almeno altrettanto certo, che Dio, che è questo Essere perfetto, è o esiste quanto potrebbe esserlo qualunque dimostrazione di
geometria».
Questa via era già stata prospettata da S. Anselmo d'Aosta (1033-1109) nel suo
Proslogium. Questa prova ontologica fu riconosciuta valida da Duns Coto e dopo Cartesio,
Spinoza e Leibniz. Kant la criticò nella Dialettica trascendentale della
Critica della Ragion Pura, Hegel la riconosceva valida. Vi sono degli ostacoli richiamati nella prefazione alle
Meditazioni in cui non si riconosce la differenza ontologica essenziale che c'è tra creatore e creatura. Al contrario della visione monistica o panteistica che riconosce una sola realtà, qui c'è una differenza ontologica essenziale fra queste due figure che non possono essere identificate. Se riconosciamo questa differenza dobbiamo riconoscere che abbiamo una dipendenza creaturale, per cui non possiamo comprendere totalmente una realtà che ci è superiore. Questo riconoscimento di Cartesio smitizza la sua fama d'essere colui che riconosce tutto sul piano razionale. Nel
Discorso sul metodo prospetta altri ostacoli, difficoltà che sono connesse con il fatto che non siamo
per natura intelligenti, ma siamo intelligenti legati alla sensibilità. La difficoltà di molti a conoscere Dio è che non elevano mai la loro mente al di là delle cose sensibili. Aristotele aveva detto che la vera conoscenza inizia dai sensi. Cartesio al contrario dice che è più facile conoscere da ciò che non è sensibile. Ma ciò che fa si che vi siano molti che ritengono che c'è della difficoltà a conoscerlo, e anche a conoscere ciò che è l'anima loro, è che costoro non elevano mai la loro mente al di là delle cose sensibili, e che sono talmente abituati a non considerare nulla se non con l'immaginazione - che è il mondo con cui si pensano le cose materiali - che tutto ciò che non è immaginabile sembra loro non essere intelligibile. Ciò è abbastanza manifesto dal fatto che anche i filosofi tengono per massima, nelle scuole, che non v'è nulla nell'intelletto che non sia stato prima nel senso. Quelli che vogliono servirsi della loro immaginazione per comprendere tali idee, fanno come se per udire i suoni o sentire gli odori servirsi dei loro occhi, né i nostri sensi saprebbero mai assicurarci di alcuna cosa, se il nostro intelletto non intervenisse.
FUNZIONE GNOSEOLOGICA DELL'ESISTENZA DI DIO
Infine, se ci sono ancora degli uomini che non siano abbastanza persuasi dell'esistenza di Dio e della loro anima dalle ragioni che ho addotte, voglio bene che sappiamo che tutte le altre cose, di cui si credono forse più sicuri, sono meno certe. Poiché sebbene si abbia una certezza morale di queste cose, tale che sembra che, a meno di essere stravaganti, non se ne possa dubitare, tuttavia, a meno d'essere sragionevoli, quando si fa questione di certezza metafisica, non si può neppure negare che sia un motivo sufficiente per non esserne assolutamente certi, l'aver notato che ci si può nello stesso modo rappresentare nel sonno di avere un altro corpo, e di vedere degli astri e un'altra Terra. Senza che tutto ciò esista. Infatti donde si sa che i pensieri che vengono in sogno sono più falsi degli altri, visto che spesso non sono meno vivi e precisi? E che i migliori ingegni vi studino quanto loro piacerà, non credo che possano dare alcuna ragione che sia sufficiente a togliere questo dubbio, se non presuppongono l'esistenza di Dio. Giacché, in primo luogo, anche quella che io testé presa come una regola, cioè che le cose che noi concepiamo in modo chiarissimo e distintissimo sono tutte vere, non è accertata che dal fatto che Dio è o esiste, e che egli è un essere perfetto, e che tutto ciò che è in noi viene dal lui. Donde segue che le nostre idee o nozioni, essendo cose reali, e che vengono da Dio, in tutto ciò, in cui esse sono chiare e distinte, non possono essere che vere. Talmente che, se noi ne abbiamo spesso di tali che contengono del falso, non possono essere che di quelle, le quali hanno qualche cosa di confuso o di oscuro, perché in questo esse partecipano dal nulla, vale a dire che esse sono in noi così confuse solo per il fatto che non siamo del tutto perfetti. Ed è evidente che non è meno ripugnante che la falsità o l'imperfezione proceda dal nulla.
ELOGIO DELLA RAGIONE
Dopo che la conoscenza di Dio e dell'anima ci ha resi sicuri di questa regola, è assai agevole conoscere che i sogni che facciamo dormendo non debbono in alcun modo farci dubitare della verità dei pensieri che abbiamo da svegli. La nostra ragione ci dice che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità; perché non sarebbe possibile che Dio, che è sommamente perfetto e verace, le abbia messe in noi senza di esso.
PREFAZIONE DELL'AUTORE AL LETTORE
Vengono mosse due obbiezioni a cui Cartesio deve rispondere, e le troviamo a cura dello stesso autore nella Prefazione alle Meditazioni metafisiche.
«La prima è che, dal fatto che lo spirito umano, riflettendo su se stesso, conosce di non essere altro che una cosa che pensa, non segue che la sua natura o la sua essenza sia solamente il pensare, in guisa tale che questa parola solamente escluda tutte le altre cose di cui si potrebbe forse anche dire che appartengono alla natura
dell'anima».
Alla quale obbiezione Cartesio risponde:
«Non era mia intenzione di escludere secondo l'ordine della verità della cosa (della quale non trattavo allora), ma solo secondo l'ordine del mio pensiero. Così che il mio sentimento era, che io non conoscevo nulla che sapessi appartenere alla mia essenza, se non che ero una cosa che pensa, o una cosa che ha in sé la facoltà di pensare. Ora farò vedere qui appresso come, dal fatto che io non vi è neppure niente altro che in effetti appartenga. La seconda obbiezione è che, dal fatto che io ho in me l'idea di una cosa più perfetta di quel che io sia, non segue punto che questa idea esista». «Ma io rispondo che in questa parola Idea v'è qui dell'equivoco. Presa materialmente come una operazione del mio intelletto, ed in questo senso non si può dire che essa sia più perfetta di me; può essere presa oggettivamente per la cosa che è rappresentata da quell'operazione, la quale, benché non si supponga che esista fuori del mio intelletto, può nondimeno essere più perfetta di me, secondo la sua essenza. Ora, nel seguito di questo trattato farò vedere più ampiamente come, da ciò solo ho in me l'idea di una cosa più perfetta di me, segua che questa cosa veramente
esista».
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