theorèin/i fi(g)li di Iengo

Dall'autobiografia: 19 prove dell'incipit

Determinandomi di scrivere, non per altro se non per passare il tempo che ancora mi resta da vivere, la mia autobiografia, e consapevole, da un lato, che in tal genere d'intraprese la prima cosa da ricercarsi sia lo stile ("Trovare lo stile: le idee verranno", dicevano Giraudoux), e da un altro lato, che lo stile lo determinino ineluttabilmente le primissime parole che si mettono sulla carta, ovvero l'incipit, fornisco qui di seguito un'intera serie di tali possibili incipit, per modo che sia il lettore stesso, scegliendo quello che più gli aggrada, a prescrivere, in certo senso, gli sviluppi della mia opera, e dunque, gli sviluppi della mia stessa vita, se, come dicevo, la mia vita si avvia a coincidere pressochè completamente con quest'opera.

I

Tutti gli uomini d'ogni sorte, che hanno fatto qualcosa di virtuoso, o sì veramente che la virtù somigli, essendo veritieri e dabbene, dovrebbero, anche se non prima d'aver varcata l'età dei quarant'anni, di loro propria mano descrivere la loro vita, per cui, avvedutomi all'improvviso, anche con l'aiuto di Benvenuto Cellini apparsomi in sogno, di camminare ormai sopra l'età di cinquantadue anni finiti, essendo in Chieti, presso la cui Facoltà di Lettere e Filosofia avventuratamente mi esibisco in qualità di docente di Estetica dal Sessantanove, e ricordandomi di alcuni piacevoli beni, oltre che di qualche male (non tanto inestimabile tuttavia da impedirmi di arrivare fino a quest'età per l'appunto), nè senza preannunciare che, non iscrivendo io le memorie d'un uomo illustre per nascita, per talenti, per grado, in cui le minime cose giudicare si sogliono importantissime per la importanza del soggetto di cui si scrive, parlerò poco de' miei parenti, della mia patria, de' miei primi anni, come di cose affatto frivole per se stesse o di pochissimo rilievo pe' leggitori con la grazia di Dio vado a incominciare.

II

Al nome sia dello Onnipotente Dio e della sua gloriosissima Madre e vergine Santa Maria e di Santo Giustino, avvocato e protettore della nobilissima città in cui risiedo, e di Santo Francesco, speciale avvocato e patrono mio e di tutta la corte celeste. Ovviamente non ricordo (anche perchè l'"organo della memoria" mi si sviluppò più tardi, quantunque sicuramente prima degli otto anni di Casanova) come io Francesco di Vincenzo Iengo nacqui a' di 3 di marzo 1938 in Udine cinque minuti passata la mezzanotte (vale a dire, appena morto, in Gardone, Gabriele d'Annunzio), ed a battesimo mi fu posto nome Francesco. Ebbi nome Francesco per reverenza di san Francesco d'Assisi, Cosimo per Cosimo Iengo padre di mio padre, e Giovanni per Giovanni Majola fratello di mia madre, caduto per la patria nella guerra del '15. Non so chi mi tenne a battesimo. so invece che presi la prima comunione dalle mani di Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale di Santa Romana Chiesa Pietro M. Marmaggi, allora fra i papabili, nella basilica dei SS Dodici Apostoli in Roma il 22 giugno 1946. La pompa, allestita tutta per me, era tale ch'io non potei, terminata la cerimonia, trattenermi da un pianto dirotto, e fu lì che decisi che, ove mai fossi diventato il Re Sole, mi sarei immediatamente dimesso.

III

"Il mio nome è Francesco, e fui il primo parto della mia madre, non so se mi deve dire uscito alla luce o alle tenebre (meno a queste che a quella tuttavia) di questo mondo. Scrivo d'ottobre, nell'anno 1990. L'età mia, se la grazia di Dio lo vorrà, arriverà a' sessanta due anni avanti il Duemila, quando orme di flagellanti ecologici avranno da tempo preso a correre la terra nella più assoluta indifferenza del capitalismo internazionale, e il divario Nord-Sud sarà stato al tutto colmato mediante l'eliminazione fisica del Sud. Non disturbo il sacrestano perchè mi faccia vedere la fede del mio battesimo, essendo certissimo d'essere battezzato, di non avere la stolida albagìa di passare per damerino (come si può anche al presente rilevare dalla stessa acconciatura de' miei capelli, che non portai fluenti nemmeno nel Sessantotto), ma soprattutto di non far conto alcuno dell'età degli uomini. In tutte le età si muore, ed ho veduto essere uomini de' ragazzi, ed essere degli uomini maturi e de' vecchi, petulanti e ridicoli fanciulletti. Io ho, comunque, la presunzione di credere di non essere mai stato, da ragazzo, uomo nè, da fanciulletto, maturo o vecchio, dove è quasi certo, invece, che da vecchio sarò petulante e ridicolo. Dio tuttavia mi salvi, in particolare, dal tornarvi anche fanciulletto: meglio sarebbe morire un po' prima" (variazione su di un tema di Carlo Gozzi).

IV

Io nacqui da (come accade a tutti coloro che imprendono a scrivere le proprie memorie, perchè si tratta d'un topos inerente al genere) onesti parenti a' tre di marzo dell'anno 1938, in terra friulana, nella città di Udine, niente affatto prossima a' lidi del mare Adriatico, quanto piuttosto alle pendici delle Prealpi Carniche, ancora oggi dette (Lega Lombarda e Risveglio Azerbaigiano permettendo) Prealpi Carniche. Allevato nell'infanzia dalla non men pia che savia mia madre, non Lucrezia Micaglia ma Rita Majola, ed erudito negli esercizi di pietà con somma accuratezza e religione, fui mandato a scuola ad apprendere, dapprima, in Udine, presso le Reverende Dame Dimesse (le quali, tuttavia, quasi subito mi dimisero alla mia volta causa bombardamenti), grammatica, e poi, scesa la mia famiglia a Roma, presso i Fratelli delle Scuole Cristiane, sull'Aventino, la lingua latina e, soprattutto, quella probità e quei costumi così complessivamente esemplari e incorrotti che tuttora costituiscono il più drammatico dei miei svantaggi nella lotta per l'esistenza.

V

Fatto naturalmente salvo il guaio passato, nel caso, da nostra madre, a chi non piacerebbe essere nato a bordo del brigantino Irene nelle acque dell'Adriatico? Come si vede, prendere in giro d'Annunzio è fin troppo facile, al punto che, ormai, uno si vergogna. Io, per esempio, non potrei dire nemmeno di essere nato si di un gozzo al largo di Torvajanica, e sarebbe poco meno che una freddura, la quale, tuttavia, darebbe pur sempre qualche ragione della mia inveterata renitenza ad andar per mare, dove il mare, viceversa, diventa, proprio in forza della nascita a bordo del brigantino Irene, "come una patria" per d'Annunzio. Così, dove d'Annunzio a nove anni partì dagli Abruzzi per la Toscana in cui ne rimase sette, io partii da Roma per gli Abruzzi, dove mi trovo tuttora a cinquantadue anni, quando ne avevo trentasette, anche questa differenza, in verità, dipendendo dal nostro diverso rapporto col mare, oltre che, naturalmente, dall'essermi io innamorato di Eide. Infine, tanto straordinaria era la sua precocità, ch'egli passava per enfant prodige proprio in quella Pescara in cui, capitatovi io, invece, per la prima volta nel 1969, nessuno ovviamente fece le viste nemmeno di notarmi. D'altra parte, l'unica volta in vita mia che sono stato enfant prodige, vale a dire pressappoco primo della classe, è stato per un trimestre in quarta elementare, ma già nel trimestre successivo ero, molto più correttamente, diventato quindicesimo. "Perchè durante le ore di lezione si distraeva disegnando brigantini", fu la motivazione ufficiale della retrocessione.

VI

Il signor Francesco Iengo egli è nato in Udine l'anno 1938 da (appunto) onesti parenti, i quali lasciarono assai buona fama di sè. Il padre fu di umore ansioso e complessivamente ipocondriaco ma, insieme, capace d'improvvise allegrezze e, soprattutto, di grandi ironie come ogni meridionale, la madre assai energica e quasi militare come tutti i piemontesi (escluso Cesare Pavese): e così, entrambi concorsero alla naturalezza di questo lor figliolo. Imperciocchè, fanciullo, egli fu letteralmente spiritato e impaziente di riposo, il che (non essendogli, fra l'altro, mai occorso quanto occorre, per esempio, all'Alfieri, di essere "ridotto in fine" dal "mal de'pondi" all'età di cinque anni, o a Goethe, di venire al mondo come morto per imperizia della levatrice) durò per tutta l'adolescenza e per tutta la giovinezza fino alla laurea. Ciò che alquanto lo ammansì, funzionando come la dissenteria per Alfieri e la levatrice-killer per Goethe, fu piuttosto l'ingresso nel mondo del lavoro, di cui odiò principalmente la rigidità degli orari, quantunque raramente, dippoi, ne abbia mancato uno. Divenne di natura complessivamente allegra e socievole ma anche, talvolta, taciturna e acre, qual è propria degli uomini ingegnosi e profondi che per l'ingegno balenano, di norma in acutezze, e per la riflessione non si dilettano delle arguzie e del falso se non quando sono in ferie.

VII

Sono nato a Udine nel 1938 (nè c'è ragione di tacere il giorno, 3 marzo) da Vincenzo Iengo e Rita Majola. Siccome era di famiglia meridionale, epperciò automaticamente numerosa, a mio padre, per campare, non rimaneva che l'impiego statale, in cui, per la verità, riuscì piuttosto bene. Mia madre, figlia di un disegnatore tessile biellese e di una proprietaria terriera del trevigiano, era più agiata (almeno in partenza). Savia e non priva di bellezza, mio padre potè farla sua (lui di trentasei anni, lei di trentatrè) non senza fatica, stante la lunga opposizione della famiglia di lui al completo a ragione diffidente dal suo punto di visto, di quella signorina settentrionale la quale, oltre a non evocare, quanto l'aspetto, Toro Seduto, non solo sapeva leggere e scrivere, ma soprattutto leggeva e scriveva, e non solo era diplomata in pianoforte, ma lo suonava anche, e per svariate ore al giorno: chi avrebbe fatto da mangiare al povero Vincenzo? Il quale invece, inutile dirlo, sopravvisse brillantemente al matrimonio, che anzi gli fu felicissimo, cosicchè l'opposizione della di lui famiglia conseguì un unico risultato notabile, e cioè quello probabilmente d'impedire, facendomi nascere una decina d'anni dopo il dovuto, che cadessi anch'io per la patria nella seconda guerra mondiale come il fratello di mia madre nella prima. Siano sempre benedette le famiglie meridionali e i loro inestinguibili pregiudizi.

VIII

Pur non avendo fatta alcuna ricerca in merito, ho ragione di credere che la famiglia di mio padre restasse intimamente ligia all'Ancien Règime, non solo durante la Repubblica Partenopea del '99, ma ancora dopo la conquista del Regno di Napoli da parte dei Piemontesi nel 1861, Si dice ch'essa possedesse una copia delle Soirèes de Saint-Petersbourg di Joseph de Maistre, e che, per tenerla in luogo sicuro, la legassero con due fettucce sotto e internamente alla fodera di uno sgabello pieghevole. Quando il mio trisnonno leggeva le Soirèes alla sua famiglia, capovolgeva lo sgabello sulle ginocchia, poi voltava le pagine sotto le fettucce. Uno dei figli si metteva di guardia alla porta per dar l'allarme nel caso spuntasse un bersagliere di Lamarmora, o Nino Bixio in persona, in giro di perlustrazione. In tale emergenza lo sgabello tornava nella sua posizione naturale, e le Soirèes diventavano, così, invisibili. Qualcosa del genere pare facesse con la Bibbia anche la famiglia d'origine di Beniamino Franklin, anglicana, ai tempi del regno della regina Maria, papista, ed è comunque anche a quest'atmosfera complessiva che va ascritta l'ostilità dei parenti nei confronti di mio padre quando scelse per sposa proprio una piemontese. Da questa famiglia, dunque, che definirebbe napoletana in senso vichiano, discende chi scrive. Egli non è assolutamente in grado di stabilire se qualche Iengo fosse per caso presente, nel 1466, alla consegna a Federico D'Aragona, da parte di Andrea Sperelli, dell'in folio promessogli due anni prima a Firenze da Lorenzo de' Medici, oppure, nel 1720, alla prima al San Carlo dell'opera buffa La Faustina d'un altro Sperelli, Giovanni, oppure ancora alla corte del re Lazzarone e della regina Carolina. Quello di cui tuttavia non ha il minimo dubbio, è che questi Iengo dovevano in ogni caso stare da qualche parte, magari sotto falso nome, sia nel 1466 sia nel 1720 sia ai tempi del re Lazzarone e della regina Carolina, a meno di non ipotizzare una momentanea interruzione della storia dell'umanità intorno al 1850. circostanza che tutte le fonti, peraltro, sono concordi nell'escludere.

IX

Se cominciassi la presente autobiografia scrivendo per esempio: "Io ero un diavoletto di bambino che pigliavo e rompevo tutto in casa", probabilmente direi il vero, ma il mio stile rivelerebbe anche una tale propensione all'autointenerimento e al pianto, da rendere matematicamente certo, una volta che, poniamo, mi fossi dato alla politica, un mio finale di carriera all'ergastolo di Santo Stefano. In realtà, chi ha da parlare soltanto di malinconie, e rivà alle memorie dei suoi primi anni invariabilmente belli ed allegri non per altro se non per rinfrancarsi lo spirito in questa valle di lacrime, non dovrebbe mai darsi alla politica, che (come dice Nietzsche dell'aristocratica cavalleria) presuppone una poderosa costituzione fisica, una salute fiorente, ricca, spumeggiante al punto da traboccare, e punisce sistematicamente, chi,come si suol dire, se la chiama. Diciamo, dunque, che se io mi sono dilettato un poco di politica dai trent'anni in avanti in particolare, è stato anche perchè nè ho mai visto mio padre straziato da crudeli malattie nè una profetessa ha mai preconizzato che, in occasione del mio battesimo, io avrei "rotto il fronte" nè, soprattutto, sono nato nel 1913 il 17 marzo, e per giunta a Caserta, dove si è particolarmente sensibili a questo genere di coincidenze. Se ho fatto quel poco di politica, insomma, è soprattutto perchè non mi è capitata nemmeno la minima parte dell'impressionante cumulo di disgrazie che capita al povero Luigi Settembrini praticamente dal primo momento in cui apre gli occhi alla vita. Questo ricordo perciò sia pure come a personaggio in ogni caso da non imitare pena catastrofi, mi pare glielo dovessi in ogni modo.

X

Credo che mia madre mi mettesse al mondo con qualche difficoltà. Ero incredibilmente piccolo, quasi un ragno, e si dice che urlai subito come un ossesso, la qualcosa, inoltre, dovette tragicamente durare per innumerevoli notti dipoi. Ciononostante mi ha voluto bene. quando avevo già qualche anno, persistendo un mio eccessivo pallore, mi metteva, portandomi a spasso, del rossetto sulle guancie, ed io, se qualche conoscente si complimentava per il mio colorito, dicevo malignamente: "Sfido, mi ha messo il rossetto!". Non so se fossi precisamente il tesoro della casa come il piccolo Goldoni (Carlo, il commediografo del Settecento), ma è certo che tutti cominciarono molto tempo a dire, anche in mia presenza, che denotavo intelligenza, anche se scarsa mansuetudine. Mia madre m'insegnò a scrivere (a stampatello) molto prima di mandarmi a scuola, dove, peraltro, prese l'abitudine di esortare maestri e professori a bocciarmi senza pietà, qualora l'avessi meritato. Chi più ci ha rimesso, con questo sistema (che più tardi avremmo, in famiglia, definito "educazione alla Attila"), è stato, però, mio fratello, metre io me la sono sempre cavata, anche se, talvolta, ancora non so come. Mia nonna materna, che viveva con noi, e di cui ricordo la maglia di lana viola e la crocchia di capelli candidi sulla nuca, norì nel 1943, un pomeriggio in cui venni misteriosamente spedito a giocare da un ragazzino grasso, tale Gian Paolo, che abitava vicino casa nostra ed i genitori del quale, titolari d'una panetteria in piazza san Giacomo, mi mettevano in soggezione per il camice bianco che indossavano dietro il bancone. Il primo morto della mia vita, così l'ho viso solo nel 1944, ed era un vecchio carbonizzato nell'incendio del paese di Nimis ad opera dei tedeschi per rappresaglia antipartigiana. Noi eravamo sfollati nel paese di Tarcento, ove io imparai anche a cavalcare cavalli da tiro, alla cavezza di uno dei quali (a somiglianza di quanto era accaduto, pressappoco nella stessa età, a Giambattista Vico, però su di una scala) rimasi un giorno, appeso per un piede a testa in giù. Fu in questa occasione che, prodigiosamente, parlai in friulano. Difatti, al contadinello Tonino che mi guardava stupefatto andare su e giù, dato che il cavallo, per liberarsi di me, alzava e abbassava alternativamente la testa, io gridavo come un pazzo: "Va a clamà la mame! Va a clamà la mame!". Io non avevo mai pronunciato, prima di allora, una sola parola in friulano, e la cosa ebbe del soprannaturale.

XI

Nella città di Udine in Friuli, il giorno 3 di marzo dell'anno 1938, io nacqui di piccoloborghesi, moderatamente agiati e (ovviamente) onesti parenti. E queste tre qualità ho espressamente individuate, e a gran ventura mia le ascrivo per le seguenti ragioni. il nascere di classe piccoloborghese, mi giovò moltissimo per poter poi, senza la taccia d'astratto o di libresco, dispregiare tale classe per sè sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi ed i vizi, ma, nel tempo stesso, non contaminarmi mai in senso altoborghese, che è quanto di peggio possa capitare a un uomo dal tramonto del feudalismo e dell'aristocrazia. Il nascere moderatamente agiato, mi fece e moderatamente libero e moderatamente puro, nè mi lasciò servire ad altri che al mio personale codice genetico. l'onestà, infine, dei parenti, fece sì che non ho dovuto mai arrossire del cognome che porto (quantunque oggi nessuno arrossisce più del cognome, e tutti si insultino reciprocamente chiamandosi solo per nome). Onde qualunque di quelle tre cose fosse mancata ai miei natali, ne sarebbe di necessità venuto assai minoramento alle diverse mie azioni, e dunque, sarei stato, per avventura, o peggior professore o peggior uomo che forse non sarò stato.

XII

Il carattere di Vincenzo Iengo, mio padre, non era affatto "sanguigno colerico": nè egli si sarebbe potuto definire "Uomo anzi corto che no" quantunque non fosse altissimo: nè d'un colore rosso acceso, quanto piuttosto olivastro (come il mio): di una gran penetrazione di mente: di forte memoria: di grande eloquenza (in senso letterario): d'animo franco: amante all'eccesso dell'onestà (e se così non fosse stato, comincio sul serio a credere che non avrei mai cominciato a scrivere la presente autobiografia). Ora che scrivo è morto da 25 anni. Mia madre è stata di corporatura minuta; ha il volto bianco: gli occhi negri: le membra assai proporzionate: era delle belle donne. Ha l'animo forte e gentile (perciò ancor oggi, apprezza gli Abruzzesi): le maniere civili; quantunque priva sia di zii sia di fratelli preti, è stata sempre piena di religione, e fascista, quale divenne, in particolare, dopo aver assistito all'occupazione operaia delle fabbriche nel '19 (di conseguenza, il primo dei suoi due figli, da piccolissimo, giocava a dire messa avvolto nella bandiera nazionale, e in piedi su di una sedia, predicava come Mussolini). E' di Biella, due piccoli migli distante dal Piazzo. Mio padre ebbe di lei due figli, appunto: Francesco e Giovanni. Se ne avessi avuti quattro e fosse vissuto nel Settecento, avrebbe destinato il primo al sacerdozio, il secondo al negozio, il terzo alla medicina, il quarto al foro. Avendone invece avuti solo due e soprattutto vivendo nel Novecento, per loro fortuna non li destinò a niente di preciso, cosicchè entrambi hanno avuto un'esistenza, se non proprio dionisiacamente gioiosa, almeno non rabbiosa o bestiale al tutto, l'uno come niente affatto assatanato accademico, l'altro come altrettanto discreto (in senso guicciardiniano) impiegato di banca. non avremo rotti i tommasei a troppa gente (come diceva Leopardi) quando ce ne andremo di vita, anche perchè tutti quelli che se lo sarebbero meritato, abbiamo sempre preferito evitarli. Per pura pigrizia.

XIII

Se mio padre, anzichè nei Monopoli di Stato, avesse lavorato di ottica, e se io un giorno, di otto anni di età, guardandolo attentamente mentr'egli era al lavoro nel suo laboratorio, fossi stato attratto da un grosso pezzo di cristallo grosso e sfaccettato, e, preso dal desiderio di impadronirmene, vistomi un momento inosservato, me lo fossi messo in tasca, e poi, quando lui si fosse alzato per andarlo a prendere, e non avendolo trovato, accusando me e mio fratello d'averlo preso, io dapprima avessi finito di cercarlo in tutti gli angoli della camera e, infine, colto il momento favorevole, lo avessi subdolamente insinuato nella tasca di mio fratello, appunto, affinchè a lui e non a me toccasse l'inevitabile punizione, io sarei stato Giacomo Casanova anzichè Francesco Iengo, ma, non essendomi accaduto niente di simile, e persuaso che ormai molto difficilmente potrà accadermi in futuro, tutto sommato sono contento lo stesso.

XIV

Sì, signora, lo dico espressamente per il caso che dopo la mia morte sette città - Roma, Chieti, Trieste, Forni di Sopra, Dulken, Gottingen e Schoppenstadt - si disputino di avermi dato i natali: sono venuto al mondo a Udine, città per la quale non passa alcun fiume di rilievo, il 3 marzo 1938, nel silenzio più profondo in quanto, essendo da poco trascorsa la mezzanotte, nessuna campana suonava e meno che mai quelle di mezzogiorno. Non so se la costellazione fosse o meno fortunata. Infatti, il sole poteva benissimo essere nella Vergine o questa nel sole, Giove e Venere potevano ammiccargli amichevolmente oppure guardarlo in tralice, Mercurio Saturno e Marte potevano essere già caduti sotto la nota sentenza del Consiglio di Stato che li aboliva, e la Luna poteva bensì esserci, ma nessuno la vedeva perchè quasi certamente era nuvolo, come spesso a Udine in quella stagione. Non appena fu di nuovo in grado di intendere e di volere, epperciò anche di rendersi conto di che cosa, con la mia persona, avesse prodotto, mia madre piombò in un esaurimento nervoso tale che, per fàrnela venir fuori, fu necessario il diversivo della seconda guerra mondiale, che scoppiò esattamente un anno dopo. La casa dove nacqui c'è ancora, anche se un poco degradata. Un tempo accadeva non dalla Bolkerstrasse ma dal numero 33 di via Trento, indirizzo che per me era uno strazio per via dell'erre moscia. Una mia aspirazione sarebbe (e non l'ho mai detto nemmeno a Eide, cui pure dico tutto) di vedere quella casa, me in vita naturalmente, dichiarata monumento nazionale e ornata di una lapide, per esempio, come la seguente: QUANTUNQUE NON SIA GOETHE E NESSUNO SAPPIA (NEMMENO LUI) CHI SIA IN QUESTA CASA È COMUNQUE NATO FRANCESCO IENGO. O PASSEGGERO SOSTA UN ISTANTE E RIVOLGIGLI UN PENSIERO.

XV

Fra le prime parole che Massimo d'Azeglio ricorda d'aver udito nella vita, sono quelle che, a lui bambino di quattro anni, "tenuto nudo affatto sulle ginocchia di sua madre" per far da modello del Bambin Gesù in una Sacra Famiglia del pittore Fabre, rivolge tutto vestito di nero, Vittorio Alfieri: " Ehi, mammolino, stai fermo!". Le prime parole invece che ricordo io, sebbene non specificatamente a me rivolte sono: "Voglio vivere così col sole in fronte", "Vieni, c'è una strada nel bosco", e "Solo per te la mia canzone vola", cantate a tutto volume dalla radio. Devo anche aggiungere che, se non sto in alcuna Sacra Famiglia, sto tuttavia in un film,Cuore, di Duilio Coletti, e se a Massimo d'Azeglio Vittorio Alfieri dice soltanto di stare fermo, in occasione di quel film a me disse, invece, molto di più, e cioè ch'ero un attore nato, Rossano Brazzi, in visita sul set. Dopo il film, tutti, nella mia strada mi fermavano. E' stato il mio momento di massima popolarità. Ma poi d'Azeglio mi ha staccato. Ha fatto persino il presidente del consiglio, mentre a me non è accaduto. Bisogna onestamente ammettere, tuttavia, che ai suoi tempi c'era meno concorrenza: non c'era ancora stata tutta questa immigrazione dalle campagne.

XVI

Volgeva l'anno del Signore 1953, e della mia età il quintodecimo, quando i miei, suppongo per pura invidia, tentarono con tutti i mezzi, leciti e illeciti, di togliermi dalla contaminazione proletaria della strada, e della relativa squadra di calcio, in cui io accanitamente avevo preso a militare, in qualità di terzino destro (ancora non fluidificante), fin da quando eravamo scesi a Roma nel '45. Naturalmente non ci riuscirono, e fu una fortuna, perchè la mia squadra, quell'anno, in un torneo diocesano organizzato dalla parrocchia frequentata anche da Maurizio Arena che non aveva ancora fatto "Poveri ma belli", vinse tutto: il torneo, minor numero di gol subiti, maggior numero di gol segnati, classifica dei cannonieri. Non ho mai più vinto tanto in vita mia. Dopo ogni partita, io ne segnavo gli episodi salienti su di un quadernino, con i giudizi su ciascuno di noi, nessuno dei quali, peraltro, andò oltre l'allora Prima Divisione (serie E). Io continuai a giocare al calcio anche dopo essere diventato, mio malgrado, professore, con grande disdoro di mio padre soprattutto, che non sapeva se ascrivere la cosa più alla decadenza della scuola o dello sport. Smisi solo quando, a un certo punto, fra l'impegno agonistico e una certa qual sregolatezza d'orari (peraltro sempre assolutamente rispettosa sia dell'ordine pubblico che del buon costume) trovai quest'ultima più stimolante. Ma quella che in ogni modo per me allora finì, fu proprio la "meglio gioventù" di Pasolini. Veramente infelice chi non ha avuto una "gioventù" come la nostra, e auguro che tocchi ancora a qualcuno, prima della fine del mondo.

XVII

Per un certo periodo, durante i primi due anni d'università, e naturalmente soltanto se era bel tempo, fu mia abitudine rifugiarmi alle Tre Fontane. Ero io quel tale che si poteva veder seduto, sempre solo, e in genere con un libro sulle ginocchia, su una delle pietre davanti alla più interna delle tre chiese. E' là che mi intrattenevo con me stesso a ragionar di donne, cavalieri, arme ed amori (in quelle condizioni preparai quasi tutto l'esame di letteratura italiana), e il mio spirito, abbandonato, se non proprio a tutte (per evidente mancanza circostanziale di materia prima), almeno a buona parte delle sue voglie, sapeva di poter seguire in relativa libertà la prima idea che si presentava, saggia o pazza che fosse, così come i cosiddetti, all'epoca, "pappagalli" a caccia di ragazze per le strade di Roma, che li si vedeva seguirne una, poi lasciar questa per un'altra, e infine, abbordarle tutte e non tenersi ad alcuna. Ah, quanto vorrei anch'io poter dire che i miei pensieri erano le mie puttane.

XVIII

Quando l'adolescenza era finita da un pezzo, ed avevamo usufruito di tutti i rinvii immaginabili consentiti dalla legge, dovetti partire, peraltro niente affatto di malavoglia, per la Scuola Allievi Ufficiali delle Truppe Meccanizzate di Lecce. Era l'aprile 1964. Dal settembre al dicembre di quello stesso anno, feci il sergente presso il XIX Battaglione Corazzato "Friuli" di Rovezzano (Firenze), non tutti i carri del quale disponevano del motore, e, dal gennaio al luglio 1965, il sottotenente presso l'82° Reggimento di fanteria "Torino" ad Opicina (Trieste), il cui compito, in caso d'attacco naturalmente dell'Armata Rossa, era di ritardarne quanto più possibile le prime manifestazioni, presumibilmente di cavalleria cosacca, per poi raggiungere tutti gli altri già saldamente attestati sul Tagliamento, se non addirittura sul Tevere, sotto le grandi ali del Principe degli Apostoli. Poichè, tuttavia, un esercito in tempo di pace non ha, in realtà, assolutamente niente da fare, e meno ancora se nessuna guerra plausibile si profila all'orizzonte dei prossimi trent'anni per lo meno (che, appunto, e malgrado l'asserita pressione dei Cosacchi su Opicina, era la nostra situazione di allora), in quel periodo lessi moltissimo. E poichè i vari miei superiori dal grado di maggiore in su mi derubavano sistematicamente, con la scusa del prestito, di tutti i romanzi sui quali mi sorprendevano curvo, ricorsi, per stroncare il malvezzo, ad un artificio in forza del quale io sono, oggi, sicuramente uno dei pochi non specialisti, sulla faccia della terra, a conoscere opere come, per esempio, il Triregno di Pietro Giannone o il Cicerone del settecentesco poeta Passeroni, le quali, nonchè gli ufficiali superiori dell'esercito, nemmeno i loro autori, credo, hanno mai avuto la forza fisica di leggere tutte di seguito e per intero come invece seppi fare io. All'indimenticabile servizio militare, dunque, devo anche questo oggettivo accrescimento della mia cultura di base, e solo più tardi avrei scoperto che, essendo nel luglio del 1964 il Comandante dei Carabinieri, oltre che lo stesso Presidente della Repubblica, particolarmente pensosi delle sorti dell'Italia minacciata dal comunismo, ho rischiato da allievo ufficiale di essere impiegato, da quei due eroi dell'Occidente, in una sorta di presa del Palazzo d'Inverno alla rovescia, e non è detto che, se la cosa fosse accaduta, non mi sarei coperto di gloria, magari cadendo sul campo, "prode e infelice" come Filippo Strozzi. Dio, però, nemmeno questa ha permesso mi occorresse. Dell'antica fede dei padri, m'è rimasta sola la parte riguardante l'Angelo Custode, la cui esistenza, almeno per quanto concerne me, reputo certa.

XIX

Io nacqui italiano il 3 marzo 1938, giorno di santa Cunegonda, e morirò per la grazia di Dio abruzzese, quando lo vorrà la Provvidenza che governa misteriosamente il mondo, e divenuta finalmente anche l'Italia quella Repubblica Federativa del Sud Europa (RFSE) per la quale tutti, dal Movimento Autonomo di Poggibonsi a quello delle Radici di Abbiategrasso, dalla Fratellanza di Oristano e Serracapriola all'Organizzazione per la liberazione di Lipari e Grosseto, dall'Associazione per la rinascita di Acquapendente agli Amici di Rio Bo, ci siamo battuti per secoli. Ecco la morale della mia vita, che perciò intendo scrivere accionchè le giovani generazioni ne traggano qualche profitto in vista del futuro sempre più autonomo e separato, in senso lodigiano o lituano, che le aspetta.

A quest'altezza, la serie di incipit mi pare sufficientemente nutrita, al punto, anzi, che vi ho ampiamente derogato dalla promessa secondo la quale, non essendo io un uomo illustre nè per nascita nè per talenti nè per grado, avrei parlato pochissimo dei miei parenti, della mia patria e dei miei anni, dei quali, al contrario, ho finito per parlare anche troppo, e che perciò devono essere ormai indelebilmente scolpiti nella mente e nel cuore del lettore, che, dunque, reinvito a scegliere, segnalandomeli tempestivamente, l'incipit e lo stile che più abbia graditi, affinchè io, o continui in conseguenza, oppure, qualora egli per caso ritenesse d'aver già capito come va a finire, interrompa i lavori, convinto come sono che, un romanzo appunto, se se ne conosce in anticipo la fine, diventa una burla. Nel nome del Padre del Figliolo e dello Spirito Santo.