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Ispirato dalle mie solite sopite e socie supposizioni mi feci una satira sociale benevola riguardo alla mia posizione. Ero un operatore di strada che nell'incerta corrispondenza del bene voluto al prossimo ebbe una zaffata di caldo al profumo di pineta. Mi trovavo in un lasso di tempo, temporaneamente attempato, torturato dalla mia libertà. La foggia di un becco alla deriva in un piazzale trasbordante d'olio minerale usato, la tasca nella vasca tra le scocche per fare le bottiglie, la grande officina dimessa frequentata dalla malavita in attesa d'essere chiamata per diventare veramente organizzata, mi vedevano immobile. Un foglio vidimato dal morso di un mio ex-avvocato testimoniava la levatura delle figure professionali che mi avevano difeso a seguito di una piccola diffida. Una diffida che mi condusse verso audizioni su contaminazioni transgeniche in lingua siswati buone solo a farmi dimenticare profondi dispiaceri.
Stavo fermissimo e mi muovevo tanto. Le salite di mercurio nel termometro, causate dal calore che mi veniva da dentro, sembravano di febbri verso un delirio in un lampo modesto. Dal patto con un malore al ratto di una goduria, libero d'un ringraziare e chiedere, ero uno che non aveva più il tallone pronto a fare il suo dovere. Indossando scarpe troppo materiali il tremore della mia gamba era più che contenuto ma la muscolatura era inservibile a mantenermi in una posizione eretta. Il tallone al ritmo dei battiti di una macchina da scrivere, che perde tempo sui tempi, che cambia l'interlinea, ogni tanto faceva fare din ad un barattolo contro il ferro, come se arrivasse a fine corsa il carrello. Camminando tanto per svolgere al meglio il mio lavoro di strada ero arrivato in quel luogo cercando di non attuare cure più dolorose del malanno. Sapendo che tanti psicanalisti dicono che fa male mettere in atto il proprio fantasma quando ebbi i riscontri che in quel luogo la feccia si condensa mi considerai spacciato nel degrado più prelibato. Non avevo più la smania di rispondere prontamente alle aspettative delle istituzioni scolastiche che mi avevano istruito. Desideravo starmene solo per venire accolto, per poi stare in compagnia. La tendinite che sopravvenne in me, anticipatrice del tremore dalla gamba al tallone, m'atterrò; e non la feccia m'accolse, ma altri operatori di strada. Operatori che non avendo a che fare in quel momento con nessuno m'erano corsi in aiuto, veloci come su scenografie fedeli a copie di monumenti inesatti. Avevano una semplicità da favola. Quello che io " con un dottore in sedute per capire cosa lenivo avevo supplito", loro no. Quello che io "catturato tra rapiti allievi tutti a me innanzi", loro niente. Erano realmente bravi. Dai loro dialetti mi sembravano di regioni ricche, organizzati. Quando mi fecero passare la febbre e mi dotarono di stampella ero un condensato alla loro presenza di ciò che trattiene i chiamati, i retti e puntualizzati; non quelli falsi, nei movimenti studiati. Col platonismo da placcato plancton placato, che ti fa indirizzare gli scatti burleschi nel pensiero amaro, così triste da non sembrare che un pamphlet, feci verso al pieno di ironia, in satira alla serietà liberale che andando in giro m'era parso d'osservare. Ero appena entrato come inquadrato in qualcosa che mi atterriva e mi atterrava e già ero così capace di suscitare tenerezza che pur di stare con me, gli operatori, non adempivano ai loro doveri, non andavano a cercare quanti erano ancora là fuori, sconfitti dal successo del benessere materiale degli astanti. Se mi sfiatai al suolo e fu riflesso in cielo il mio salire, in modo chiaro ed esprimibile, non fu per colpa loro. Avevano tracciato il possibile. Il loro motto "l'aiutare i bisognosi ci fa forti e coraggiosi" sembrava adempiuto interamente in me. Avrebbero passato così tanto tempo a deliziarmi, ad accontentarmi in tutto, da mettermi in una posizione di contatto inquietante con il mio più basso istinto egoista. Mi avrebbero fatto sentire l'amato senza riserve, consigliato pure sul cosa richiedere per mantenersi onnipotente. Se s'accorcia e s'accartoccia il rimasuglio d'amore che alla morte sboccia, l'orgoglio che straripa travalicando ogni intoppo chiamerebbe a raccolta le persone che si recano al cimitero della mia sepoltura. A quelle persone che un fiore lo mettono a tutti, perché in fin dei conti sono tutti parenti, defunti di casa, a quelle persone direbbe thank you, striminzitamene thank you. Theorèin - Marzo 2004 |