IL MIDOLLO DEL LEONE
A cura di: Francesco Massinelli
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5. Impulso impresso

Vicino al coppo, alla tegola del tetto, sprigionato dalla combustione del legno umido in difetto d’aria, il fenolo di un salamino fuoriesce da un vecchio vetro irregolare, fatto a mano ma rotto, verso un mondo così sconvolto in cui certe cose non si possono dire neanche per scherzo. Io che lo sento col naso mentre stringo il vetro nuovo, liscio, industriale, da riposizionare, vorrei dire tante cose ai portenti del potere ma faccio parte della maggioranza ininfluente, influenzabile, che tuttavia non si chiude in se. Pur con tutta la mia codardia possibile sono riuscito ad arrivare ad una posizione di coraggio, di bilico, in alto, domando la vertigine con la cautela del calcolo, che non nego indichi qualcosa in cui potrei eccellere. Così come sono salito con la scala sul tetto, andando incontro alla mia paura del vuoto, potrei riuscire a scalare la gerarchia sociale e mettermi davanti, da uomo a uomini, a chi, della grande manovra, detiene i registri. Il mio problema è capire chi per primi, chi per secondi e chi per terzi. Capire se lo voglio veramente. Quando da piccolo andavo a scuola di nuoto, alla piscina del lido delle forze armate, già mi sentivo grande. Per colazione prendevo una bustina di patatine sottilissime, fritte. All’epoca non sapevo se in futuro sarei stato laringectomizzato ma sapevo di essere amato. Questo mi dava serenità, animava la mia speranza che un futuro pieno di avversità sarebbe stato per me, comunque, bello. Il mio nemico era la massa d’acqua ed il potere che mi serviva era dato da chi lo dava a me, dall’istruttore e dagli amici. Ancora oggi la nitidezza che svela la vita mia ha come punto di forza iniziale il fatto di non aver subito un abbandono da piccolo e come punto di debolezza finale le sospette denigrazioni di tutti coloro che mi si sono accaniti contro, appioppandomi ora l’innocente malizia di uno sgambetto, ora la capacità del buono a nulla, ora addirittura gli spruzzi di un lucidante fogliare. Vinto in un traguardo raggiunto da tutti ma ricco, con un intero armadio a mia disposizione per gli abiti, non per cattiveria, non per oblio, se rifletto sul dispiacer di aver sbagliato, ceduto confidenze a chicchessia, raccapricciato dal remake tipico della collità individuale mia, non mi sento uno sciocco sciatto che pitocca. Messo tra i nessi del mio essere malridotto non ho il dubbio come apicale assioma ma un inveterato uso a non far fioretti, a non adattarmi ai voti, che muta costantemente direzione alla mia vita tumultuosa. Nel dispiacer di non compiacer quei redivivi mai rivisti, supposti in contrafforti piene di lassisti, sono sempre così preso di peso e portato, da una bellezza all’altra, che mi scordo le cose da dire ai portenti, non li considero neanche di striscio anche se so che sono potenti. Li tratto spesso come loro trattano me, li considero una minoranza ininfluente sulle mie sorti personali anche se li sento tanto vicini quando qualcuno, intervistandoli, li sposta dal ruolo sociale che li rende riconoscibili. Le mele che raccoglierò in fondo al campo, sulla terra senza erba, varranno per me quanto una preziosissima icona, da ridonare come segno di dedizione. È certo che i portenti del potere più importanti della mia vita se non mi hanno aiutato a grattare il formaggio finora non lo faranno in futuro. Non avranno la grandiosità per companatico, non avranno la caligine a rasoterra da spazzolar via dalle scarpe. Chiederanno in enfiteusi il mio impulso che rimane impresso al momento in cui mi si richiede consenso. Avessi il lascito di un giacimento culturale arginerei con possanza il loro culturame. Sempre.

Theorèin - Giugno 2004