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Situato su stanzoni tenuemente illuminati guardo soffitti alti, la travatura di un portico. E la vedo. Sento suoni rimbombanti. Miti tremiti, da truppe di tipe brulle, nubili volubili con dolenti e aciduli acuti, coinvolte nella vita fino all'esaurimento, fanno rabbrividire dolcemente anche me. La cingono come fosse una donna in cinta con quella loro solfa vecchia, sempre la stessa, da cariatide. Come se dovessero pienare delle capsule da 6,15, rinforzate. Elessero a loro ispiratore un demagogo carismatico, idealista fanatico, che si era avocato a se il diritto d'imperniar reiterati slogan e che adesso conta a ritroso i giorni che mancano al suo pensionamento. I loro tremori sono tutti anti dilettevoli, smilzi sfottò senza stupore a far da antidoto alla noia. Non si sentono vincolate ad alcuna autorità, neanche a quella del sistema nervoso centrale, ma non in verità; per reazione. E la feriscono.
Gli alberi di fuori, nel vento, dondolano aritmici. Paventano una vita lontana dalla cenere lavica su agrumeti circonfusi dal nero. Segregato nell'albore mio, ampio, profondo, felice, che non ha mai avuto vero debutto, guardo la mia tenuta da suonatore, che non cade bene sulla forma del mio corpo atletico, sprezzante in tutti i suoi soggettivi progetti di sterilità. Lampassi e pregiati velluti neri mi coprono poco. Resto vivo non vivendo. Le donne che mi hanno sempre fatto soffrire non sono ben identificabili. Prima di sostare, qui dove mi sento, sono stato tanto da solo, con gli occhi chiusi al sole, ad aspettare. Anche se tutto era più chiaro, sbiancato, io in ambito sentimentale per lustri vidi nero. Misi gli occhi su così tanti voli, fino a perderli con lo sguardo, da perdere più e più volte l'equilibrio. L'ansito con cui però adesso centro le paure si stupisce sempre che qualcuno mi ama, si rallegra al solo pensiero di poter sperare nella telefonata di qualcheduna. Ho il desiderio di ricrearmi una situazione che poggia sul reggere una persona diversa da me, la sua presenza. Se penso a quanto sono svicolato via dalle relazioni leggere che anticipano le serie relazioni in serie, strisciando lungo i muri, mi prende veramente male. Non capisco tuttora dove arriverò, quanto sarò impreparato o sgarbato. Forse, nella peggiore delle mie paure non autodistruttive, un mio atto d'ingresso concreto nella paura mi farebbe bene, forse. Tante cose cui ero attaccato mi si sono staccate via da sole, crescendo. Chissà se in amore accadrà prima o poi questa cosa anche per me. L'indole del candore sul sentirsi insignificanti riesce a tirarmi su. Mentre congerie di genti si sono passate ricette epistolari e poi si sono incontrate, fidanzate, sposate, io ho fatto da capofila a coloro che non riesco ad andare d'amore e d'accordo a lungo. Ho interrotto prematuramente i miei rapporti con le donne che modulano lo sguardo afflitto per controllarti a loro capriccio sempre con un valido motivo; anche se detestavo farlo perché lo sapevo frivolo, equivoco, turpe. I rapporti con i miei familiari, non così tesi da farmi tornare a casa per pranzo con un panino, tutto mio, per non crear fastidio nel caso avessi troppa fame, non si sono mai rivelati un valido motivo per spiegare il mio fallire. Non erano un valido motivo nemmeno le zie delle mie vecchie amiche, attaccate perse alle loro peripezie, che mi definivano un assonnato beota visto che reputavano i miei coetanei con cui facevano sesso, vispi, interessanti, missili. Pur avendo la responsabilità di aver sparso in giro la voce che io non sarei stato altro di uno che si procaccia affetto spendendo mi aiutarono però a capire che in realtà non riuscivo a confidarmi con chi credevo mi detestasse. Oggi so sinceramente che il motivo per cui non sono riuscito a rimanere con una ragazza a lungo sia da cercarsi nel troppo impegno dentro la banda locale, nel suono del mio bombardino. La massiccia pièce di un talent scout mi prese a casa quando ero piccolissimo e mi mise lì, nella banda. Mi ci mise con gli schiaffeggianti echi del mio cattivo amore, sbruffoncello ante litteram, riacutizzati nell'adipe sospetta mia, tormentata da trionfi intimi. Io, sempre più bravo a suonare, dandomi sempre alla musica più che alle donne, sapendo che attorno al musicista bello va alla grande l'addensamento femminile, facevo costantemente la fine del musicista bravo. Tra i nembi e i mulinelli di polvere, come veli, insabbiato e appoggiato ad uno schienale imbottito, ad un sedile bardato, con la veste di un altro della banda, troppo attillata per me, come fossi in un luogo di confino, forse un giorno farò colpo sulla ragazza in cui ho messo l'occhio sotto la travatura del portico. Mi inciterà il peculiare senso del ritmo degli ottoni in ottave, a farmi avanti, la pertinenza della vertenza che potrei fare visto che spesso non mi fanno smettere di suonare. Impreziosita d'echeggianti arzigogoli la melodia mia, in controtempo con gli altri, in disarmonia, non farà sbadigliar con voluttà. A lei potrà interessare. Chi per partito preso sente in me un gracile boom nell'isteria difensiva collettiva si proteggerà ancor più. Ma la fatica di accettare il non ovvio gli tornerà sempre ogni giorno tra capo e collo. Theorèin - Dicembre 2004 |