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Hello Solidea. Sono io, umile, nientemeno che io, a smessaggiarti. Nel grande e immenso cielo, proprio sopra al nostro campo, c’è un formidabile reparto che sta stretto in cerchio attorno al fuoco, che guarda il fumo salire su. Non inciampare sul tubo di gomma che ho tirato per annaffiare i fiori e prova ad andare lì. Li ci sono tante persone che non hai spazientito. Non da più di te sono io, anche se ti dico spesso nondimeno perché so che ti fa arrabbiare; ma non riesco a sopportarti a lungo. Come quando in un pendio ti perdi in un periodo ti mando questo lunghissimo SMS. Sento che in te può riaccendere quel ritornello d’archimandrita che rispetta l’altro, la protomoteca di protervia d’affidare al patrono della buona morte. Ora io vado fuori a sgrullare il guancialone. È pieno della terra delle tue scarpe. Poi mi disinfetto la mano dirimpetto alle canzoni che si sentono, cantate dai ragazzi in uscita che sento. Accomodandomi velocemente sul divano ho lasciato cadere con forza la mano sul bracciolo, proprio dov’era infisso uno spillo. Tu escogiti trucchi per negarti le asserzioni giuste. Nel camuffamento in cui ti adombri si acquieta solo la tua disposizione religiosa verso te stessa, la tua solitudine che non è ancora micidiale. Ma guai a dirtelo. Tutte le cose che sono in me retrograde e che vuoi settorializzare le tratti come i colli consumati sulle camicie buone, da rigirare. Rimproverare me per come conduco una vita al di sopra della possibilità che mi da lo stipendio, visto che ci sono altri che mi mantengono, è come rimproverare Michela che dopo aver sposato Ernesto si è ritrovata in una villa così grande da avere bisogno di più servitù. Oseresti obbligare lei a fare il lavoro di quindici persone visto che sono i suoceri ad avergli regalato la villa? Senti carissima, che fai dei sodalizi con le più fitte trattative per non scendere mai a patti con nessuno, riparti pure senza di me che sto qui ad aspettare la prossima persona che mi desidera, che non mi disereda. Abbimi nei tuoi ricordi alla luce di quel che preferisci di me, amami almeno per quella fiandra in puro lino, coi tovaglioli cifrati e con l’orlo a giorno, che ho tolto dal mio corredo per farla usare a te. Visto che qui si tira avanti e si prega non incolpare i coppi del tetto del refettorio se ti senti maltrattata, inascoltata nei tuoi carmi esaltanti. Quando i tuoi programmi sono una relazione, quando le tue valutazioni su come riconoscere e ottimizzare le energie non ci sono e tu le vedi, quando mancano le ipotesi in merito all’opportunità di dar ruoli gratificanti che posticipino la disabilità e la dipendenza, è ovvio che invece di parlarmi veramente di te mi parli dei progetti che fai sull’anziana che diventerai. Sei tu stessa ad innescare la conversazione che non contempla tutto ciò che posso dire nel tempo che mi dai. Sei tu stessa ad imboccarmi la risposta che ogni osservazione seria deforma, rendendola inutile, come fosse una frottola. Salutami tuo ex-marito, reso commendevole al perfetto che lo ha fatto sentire sempre come un liberto, ma digli di riportarmi il telescopio tailandese. Anche lui è demoralizzato come te, vede il cielo un po’ sfocato e decisamente giù: giù vede le stelle, giù vede i pianeti. Col telescopio voglio dare un’occhiata all’amicizia che non incita l’ambizione, che non fomenta l’invidia per suscitare amarezza o gelosia, che non s’accende d’odio, che non spregia immemore della stima. Voglio leggere di quell’amicizia che l’invidia non intacca, che il sospetto non sminuisce, che l’ambizione non riesce a rompere, che messa alla prova non vacillò, che bersagliata non cadde, che insultata rimase inflessibile, che provocata restò incrollabile. È tutta nelle pagine dell’ufficio letto dal signore dell’ultimo piano, quello che adesso si è seduto con quel libricino aperto per il vespro. Tra alcuni giorni arriverà a quel punto. By, by. Ulterio. Theorèin - Febbraio 2005 |