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Per costruirmi un arco dalle fibre spesse e resistenti mio bisnonno aveva messo a stagionare il legno di tasso cresciuto in una penombra attualmente italiana, senza voler far faide o creare cordoglio. Rifilandolo e modellandolo, oliandolo e lucidandolo, mio nonno gli dette una formatura idonea al fusto che non si inflette troppo, con un’impugnatura rigida tale da permettere una buona mira; tale da permettere una spinta, al momento del tiro, fulminea. Di frecce, mio padre, ne realizzò una moltitudine, tutte di frassino, una pianta che cresce rigida e dritta, dal ridotto peso specifico. Tutte con impennaggi in piume di pavone, fissati con un filo di seta e con una colla di bulbi di giacinti selvatici cotti. A parità di spinta fornita dall’arco e dimensioni della freccia, col frassino, la velocità e il potere di penetrazione allo scoccare, per quanto ineguagliabile e perfetta, dice che non si distingueva. Il trefolo di lino usato per corda, resistente all’umidità, dava un delirio di velocità tipo meteora a far da interludio, che obnubilava sia il prologo che l’epilogo del tiro andante a segno subito. Per le brevi gittate mi erano state tramandate punte d’acciaio sporche e infettate, per le maggiori traiettorie altre punte castiganti, sugli strapiombi di quanti temevano gli effetti degli archi. Ma tant’è che non scappai dove potei davanti ai miei avi. Archi di quasi due metri, con quasi cento chili di spinta, capaci di mandare a trecento metri un calderone di precisione mai fuorviato io non usavo, suonavo. Io, che di tutto lo scoccare percepivo le vibrazioni emesse dall’onda di suono, non m’interessavo a dove il bersaglio era da centrare, ma suonavo, suonavo. Calcolavo le vibrazioni al secondo, come suono base per raccordarmi agli altri archi. Come rintronato colto e còlto turbavo gli animi degli astanti. Non ero un abietto obiettore con l’intento di mostrare tanta voglia di fare talvolta smentita dai fatti. Non ero uno che inseguiva l’eco d’uno sgargiante rintocco per rimboccarsi lo scrollo delle spalle. Ero un osso duro della pace vinta, che non violenta ventagli di tiri ogni volta per una nuova conquista. Dodici frecce al minuto, a duecento metri senza mancare il bersaglio, furono la mia cadenza di tiro ineguagliabile. Poi smisi di tenere la mano chiusa a pugno, con l’indice e il medio ben tesi, mai rattrappita in una sorta di paresi o di goffaggine nel tatto sulle questioni di amputazione o d’allaccio. Non rinnegai nessun mio parente come un loro illuso discendente e mi diedi a tutte quelle angolazioni rimarcate mai suonate. Divenni un accordatore, attento alla composizione, da tenere buono. Altrimenti trafigge sia il cattivo musicista che il pubblico che lo celebra. Theorèin - Aprile 2005 |