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Vizio capitale del capitale nella capitale. Come a dire che il denaro stimola la corruzione. Non leggo i titoli di testa dei giornali ma i trafiletti quasi invisibili. Le strade che ho appena percorso tra poco sentiranno passare le strutture di ferro, di colle, di colori appesantenti fogli grinzosi, che gli artigiani della cartapesta hanno preparato e che non entrano nel palazzetto dove il corteo è destinato. Sono stato anch’io uno di loro, carrista in dei grandi hangar, finché, vedendo una processione fiammante, sono stato portato a fare diversamente il figurante. Adesso come un visconte nel poggio, paffuto tra i flirt, sto seduto davanti ad un bar e mi leggo il giornale; ma immaginatemi sul carro ad animare un grande fantoccio che rappresenta l’ultimo tedoforo. Immaginatemi provato nel fisico sotto una tensostruttura, dentro una calura alta da far pensare all’utilizzo di una sicura contro la claustrofobia e coi problemi di fiato così corto da darmi un colorito tra il giallo e lo smorto; talvolta il rosso. Parimenti ai paramenti messi, abiti abitazioni e soprabiti indossati, in modi inguaiati insieme alle cremine che adesso mi metto, sorvolo i patimenti e i pentimenti che provai per esser accettato dagli amici un tempo, in cui mi feci aggiustare il volto e il resto riducendo le ciglia folte a un filo di disegno. Con un che d’arabesco lodato, con sincerità d’accenti eccessiva, plastica d’un netto e chiaro adattamento, per forza dopo un’ora accettato. Mi son ribellato all’idea di essere un uomo truccato troppo tardi per cambiarli. Molto tempo dopo di quando avessi desiderato. I miei ex-amici, tutti manager di successo, da brutti che erano si fan beffe di me raggrinzito adesso: pieno di rughe, spelacchiato. Sfoggiando una pelle bellissima ed il portafoglio gonfio di carte di credito s’accarezzano il capello curato. Ma anche per chi non l’avesse per caso scorso, nell’abisso che mi separa da loro, son io messo meglio. Loro sono i fidanzatini delle amiche delle loro figlie, io rimugino un utopico proposito fallito di cambiare al meglio un’avventura grande. Loro son stati professionalmente molto importanti per lo sviluppo economico del pianeta io sono riuscito a malapena a raggiungere l’ente di previdenza cui non m’ero ancorato nel tempo goduto, conservando un modo genuino per rendermi d’aiuto. Dopo aver rotto definitivamente con loro perché non potevo competere con la loro bellezza, al fine di distinguere se ero adatto ad un lavoro artigianale diversificato, se ero adatto ad un lavoro in falegnameria industriale davanti ad una sola macchina, se ero adatto all’assemblaggio o al montaggio di mobili, finii per ritrovarmi come intossicato. E non dalle polveri che avevo respirato. Avevo problemi di respirazione tali che assaporavo l’aria in ogni momento, me la gustavo tutta sperando di rimandare il mio ultimo respiro di almeno un anno avanti nel tempo. L’ente di previdenza sociale che per una questione formale mi aveva permesso il giusto lucrare, nel vicendevole perir, nella tenue festuca, anche in mezzo ad una sbagliata iniezione o ad un elettrochoc, aveva mantenuto un’attenzione suprema per ogni suo assistito e manteneva un po’ me in giro, da amico. A patto che non gli si crei un esborso cospicuo permetteva a tutti e permetteva a me, realmente, di non stare al lavoro e di andare in giro. Ed io che avevo usufruito ben volentieri dei suoi regali testimoniavo felice il fatto che l’ente non s’accontenta di far salire ogni suo assistito lungo il crinale che gli pare, magari in regni di donnole, faine, cinghiali. Seguendolo lungo i crinali d’altri monti senza felci, anche senza camminare costantemente a quote elevate, anche passando tra campi e boschi, talora nella fitta vegetazione di olmi, nella cura dell’assistito l’ente mi voleva come lui, nella salute che perdura, distolto dall’assenteismo frivolo. Ed io, che vedendo quanto lavoravano i miei ex-amici anche per mantenere quell’ente iniziai ad impegnarmi, festivi compresi, sulle feste di quartiere in cui la lotta mia all’uomo truccato facevo ben vedere. Chi tra i belloni svolgeva un lavoro di supporto psico pedagogico, per una protezione sociale anche parziale (visto che lo stato non riesce a tutelare lo sviluppo delle persone offrendo pari opportunità di fruizione dei diritti a tutti) questo non l’aveva capito e non aspettava altri che me. Tenendo conto che i bacini di disoccupazione son fonte di voti anche per gli organi dell’antipotere politico e che il primo tra gli svantaggiati, conteso nel mercato sociale, può portare soldi e voti, vedeva in me un nuovo soggetto potenzialmente in grado di prendere possesso della politica e di venire controllato, nel comune intento, intanto, di farsi strada verso il municipio per un maggior guadagno. Fatale errore. Loro vedevano in me la mestizia di uno che fa dei carri e ottiene consenso e non uno che respira a malapena, dal potenziale di assenteismo frenato. Loro volevano asservirsi di me ma io, molto comunicativo e coinvolgente, ero l’opposto degli statuari e bravissimi mimi travestiti, a rappresentare santi belli e cari a chi apprezza la bravura dei madonnari, che gli sarebbero serviti. Posizionato davanti alle osterie e ai ricoveri più importanti della rete articolata a cambiare la struttura urbanistica dei bisness sociali amanti del tran tran della tranquillità io durai pochissimo. Ed io che in questi discorsi non sapevo ben districarmi, ero affidabile come un bambino delle scuole elementari al circo, come un ragazzo delle scuole medie inferiori alle gite in pomodoraia nell’ora di educazione tecnica. Nel breve volgere di alcuni anni, m’ersi a leader dei frequentatori del bar, con il successo della satira di costume che con i carri di cartapesta inquadrati dai mass-media sfoggiavo in continuazione. Non potendo fare granché coi miei problemi di respiro, mi sentii sempre più correo dei miei ex-amici perché non con l’invettiva che l’inveiva riuscivo a riparare i guasti della società perpetrati da loro. Belloni rimbecilliti e prostrati, per colpa dei canoni della bellezza giovanilistica seguiti, erano in fuga da quei guasti a me cari perché li vedevano come l’anticamera della bruttezza. La lotta all’uomo truccato che non avevano effettuato, non creando attorno a loro un consenso aulico, non gli precluse il successo ma gli fece una sorta di igiene mentale non in linea col mio proposito fallito di cambiare al meglio un’avventura grande. Criticavo i miei ex-amici nei comportamenti che li rendevano equivoci, criticavo l’utilizzo che facevano di parte dei loro soldi e venivo irriso dalle notizie più importanti del giorno. Ero il brutto mantenuto dal sistema dei belloni che sfruttavano i più poveri. Io non mi reputo migliore di loro, di quei miei ex-amici perché non mi trucco, perché preferisco la solitudine alle storie frivole, perché non son stato consumato dai beni da loro prodotti ma dal processo produttivo. Mi reputo seduto davanti ad un bar a leggermi il giornale. Non sono il figurante della mia malattia né un giudice che l’erronea idea espressa in cartapesta adotta fino a renderla perfetta. Maledicendomi solo innanzi ad una ristretta cerchia di amici, meno influenti degli ex e meno cretini, complice dei correi sono più io di loro in quanto a consapevolezza. E con il tedoforo con cui sembra a tutti che li supero offendo il povero, lo prendo per il decubito. Una loquela da ludibrio suscitata dal mio carro non m’affranca dalla prigione di un’inguaribile fobia in cui, malaccorto, bisbiglio suoni che si fermano sulle mie labbra viziose. Il mio pudico acume è qualcosa che antecede la vestigia della mia bruttezza attuale che dai carri non traspare. È animato dal pensiero che se non soffrisse nessuno starei meglio anch’io. Theorèin - Giugno 2005 |