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Quante ripetizioni non ho prese per migliorare il mio ozio in inglese! Quante per non spendere non ho mai accettato, sfibrato! Nel mio imbarazzo enfatizzato il merchandising del mio dissenso se esposto come oggi è tremendo. Dicevo delle piccole cavolate quando lui mi disse: “la prossima volta che vengo alla festa della «Foce del Paganico» mi paghi un panino con la salciccia!”. E non me lo meritavo. Come falegname che si occupa anche di restauro, che allestisce i ponti per arrivare in alto, ti posso enumerare certe tresche da far accapponare la pelle, di tante belle tradite miseramente. Pur non avendo ammaccato a cerchio il legno, senza riuscire a centrare un chiodo, come falegname scomodo ho perso più volte il lavoro. Non ho scartavetrato fermandomi quasi a legno finito con premura da maggiordomo, senza sminuirmi troppo grazie all’album delle mie foto presenti a darmi identità vincente, ma ho sofferto più di te per mantenermi il lavoro. Nessuno che ti sposta la forfora dalle spalle, che ti passa sempre ciò che ti serve come un grande, viene mantenuto al vagar di una vaghezza vacante nelle piccole aziende a conduzione familiare, in cui i datori di lavoro sono così gagliardi da saper amare sia la moglie che le amanti. Io questo posso dirlo a te, come tu non puoi dirlo a me. Sei troppo coinvolta e giovane rispetto a me. Ma torniamo a lui, a quando gli dissi della salciccia. Io gli dissi: “però ci metti la tua!” indicando col dito. Fu rabbia, mani messe sui miei vestiti. Io che lo spinsi verso la stufa a legna, verso una sua scottatina che mi obbligò alla sfida. Mi dette l’appuntamento - per fare a pugni al bar della stazione - ma non ci venne perché giocava a carte in altro bar. E quando io lo ribeccai gli ricordai subito l’appuntamento mancato, ma lui mi disse: “t’hò domato tra i pivelli, t’ho domato”. Pensare che oggi è il mio datore di lavoro ed il tuo amante che ti fa arrabbiare. In modo che io possa essere messo in luce su quel che di male faccio rievito di oppormi a quanti fan come lui, adesso, con coraggio. Le cavolate le dico in inglese per non correre rischi da botte prese. Sedicenti irriverenze di cinquantenni aggressivi come quando erano sedicenni sopporto meglio perché la rabbia che mi deriva dalle offese la deglutisco via. Non faccio marameo ad un arameo errante che non si dava un sacco d’arie per farsi notare. Guardo le figlie degli istinti di dominio nelle idee che esprimo, senza far dispetto all’autorità, pieno di livore deglutito via. Per quello che sarà possibile nello spiccato senso confidato, m’immaginerò esautorato e conficcato quando schiverò le situazioni in cui potrei subire altre prepotenze. Andrò dove tacciono per dare una chance ai peggio i pentiti dei loro atti esecrabili. Non mi si confà ora che pranzo, con la nausea di ricordarmi di questo e di quest’altro, come una teppa nella steppa, la mia floscia stretta sulla posateria zigzagante innanzi al secondo primo (da mangiare). Inghiotto il rospo che raspa sul raspo d’un ansia infruttuosa in contrasto gonfio, deglutendo male, con il palmo sul pomo, tutta la mia voglia di vendetta molto prima della pausa merenda. È esagerato chiedermi quel che è dono di grazia sovrumana, sappilo. Nelle turbe dei miei turpi pensieri l’oblio del bene ricevuto avviene. Nell’urto di una capocchia non c’è puntura di spillo, non c’è un grido da bocca, non c’è uno stillo di fiotto sanguigno. Questo non perché sale o scende chi si trascende, sorella tra le sorelle. Questo per dire che per stare bene nel posto del lavoro devi fare come me ed imparare a deglutire via la rabbia. Intanto mangia, che la pausa è quasi finita. Dandomi quello di cui ho avuto bisogno in modo tale che non ho potuto apprezzarlo, non posso evitare adesso la dolorosa recisione quando giustamente lo scanso, il tuo uomo. Nel diniego non sego, taglio, poto e guardo. Guardo le foglie che rotolano secche, sotto una pioggia di petali bianchi giù dall’alto. Davanti un antico basamento cittadino, dal ripiego a terra al cielo. Guardo le foglie di una vita a rotoli e non vedo nel mio lavoro precario che un licenziamento sempre in agguato, anche se ho successo dove gli altri non riescono. Nelle settecentesche terme papali, abbiamo infatti abbassato superbamente e costantemente il rilievo ottico d’alcune lacune da restaurare, a cui ridare unità formale nell’immediato rapporto figura-fondo. L’esatto piano d’appoggio delle singole foto in cantiere, la loro esatta giacitura nello spazio per riavere un dipinto da rivedere, sono stati permessi da metodologie di presa opportune e ben definite, mia cara amica tra tante amiche. Proprio come la mia identità, frantumata e ricomposta, grazie a foto metriche in tanti scatti scandite, prese da tutti i versi dall’inizio alla fine. Ma tu cedila colà, sul versatoio, quella serie di occhiali vecchi da mandare in raccolta nel paese sottosviluppato. Se non vedi ancora quanto ti si mostra con i fatti della vita puoi provare con una lente dopo l’altra a guardare meglio. Sei buona a lavarla, quella serie, per vedere oltre il miope e il presbite le tue miserie. Adesso, nella tenebra fitta del dolore, tra istanze spirituali e pulsioni istintuali, schiacciata senza malumore, ti dici che se l’iniziativa è buona, con la b maiuscola, fasti nefasti d’imperfezione vedrai in altra occasione. Balordaggine! Il restauro non ti riuscirà certo perché sei l’amante tenuta meglio e arrabbiata al cento per cento. Infatti lo sai, hai già sofferto! Ti regalo questa mia osservazione. Alzando il coperchio di una pentola, in bollore sul fornello acceso d’azzurrognolo, uno spavento mi ha colto: c’era la testa di un porco che mi guardava storto. Come ho bramato non fare quella fine, sapendo che nella transizione al lavoro si gioca la partita tra integrazione ed esclusione di promozione umana ben concepita. È sulla bocca di tutti che la fioritura di consorzi d’uffici fa strategia d’innovazione di utilità esigua. Nell’alternanza tra svago insulso e consumismo sfrenato ti puoi trovare subito in apprendistati non in regola nel business più vacuo. E la calma per non andare via di testa, nell’analogo epilogo che forse ti aspetta la troverai se mi darai retta. Il successo delle amanti con datori di lavoro molto più grandi può rivelarsi proficuo in modi altalenanti, che più del successo ti spianano la strada verso la perdita del tuo tempo più bello. Al calcar della mano non ribadisco un che, se non il desiderio bramato da ieri di riuscire a riportare il vecchio dipinto frantumato al suo splendore sbriciolato. Profitto della circostanza del lavoro che ho, nativa nell’angustia di quanto s’agita sul tuo esercizio ascetico che ha fatto tanto per far si che io fossi preso, per confermarmi (con senso di quel mio distinto dolore che avvisa, funzionale alla vita), uno che per riconoscenza ti vuol salvaguardare perché al restauro di un’opera associa il vero benessere di una amica bella, quasi sorella tra le sorelle. Con il fiuto usato nel distacco ben mirato individuato, solo e senza sicura d’entusiasmi a darmi forza, quel che il gesto riporta innescato è solo l’effetto visibile di quel riposizionare giustamente anche il più piccolo segmento. Senza farmi raggiungere dalla rabbia che mi salva la psiche sempre scortata alla fine cerco d’insegnarti a deglutire. A restaurare già ci sai fare. Brossurato non mando un wafer, un vai a farti gli affari tuoi, in lettera cifrata quasi commendatizia, al tuo convincimento di essere unica per quell’amante bravo ad esigere. Brossurato, fors’anche per non fare dell’affermazione dell’uomo sull’umanità una nostalgia, io mando a te, che hai interceduto con questo datore di lavoro a me utile, tutto il mio consiglio in italiano. Nota bene che in inglese non ho parlato. Tutto il possibile eseguibile nel lavoro fattibile non è prossimo alla fine se perdo la testa come tu e il porco l’avete persa. Ma visto che sei satolla m’alzo e vado a restaurare, visto che le foto metriche posponi alla raccolta degli occhiali. Theorèin - Luglio 2005 |