IL MIDOLLO DEL LEONE
A cura di: Francesco Massinelli
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18. Dalla mole al molo
 

«Chiglia, elemento continuo sotto lo scafo, che stabilità hai dato alla barca quando, sia da vitale che da mortale, con te in passato sono affondato?» questo dicevo per scherzo. A passeggio con lo sguardo poggiato sul colmo delle quinte collinari meno elevate, non lamentando l’eclissi degli sforzi di volontà a condurre la vita a vantaggio dell’ispirazione sorgente ad essere condotto, felice che passando dalla mole al molo la memoria degli impegni abbandonati si riformulava di nuovo, ritrovavo me terribile per quanto giovanino, da una domanda cui pungolavo il mio fitto interscambio con un mondo vicino. Ritrovavo me in un contesto avaro verso il bisogno mio d’ambientarmi con lentezza. Felice d’accatto, tra il quasi scemo e il sommamente saggio. Felice con l’identità di una chiarissima serenità.

Dall’attracco dei battelli in poi, con i miei acciacchi lacustri in qua, passeggiare, respirare senza soluzione di continuità, tra i soldi e la moda, sentivo che era cosa da fare. Infatti, con il molo o pontiletto meglio emerso, l’esperienza nostrana più strana mi sarebbe capitata. Non lo dico per tentativi di portare in porto una serenità alla mia portata, via andata. Sentivo che quando sarei stato all’isola, all’approssimarsi del buio, con il battello da riprendere al mattino per non ripartire con un motoscafo a nolo subito, l’aspetto ancora in attesa sul mio rispetto avrebbe cercato il suo solito ammutinamento funzionale per guastare l’immagine rimastagli.

Isolato tra gli isolani non insolenti per successione d’episodi, quando svolsi la vicenda che non narrai vicino all’antica dogana pontificia, dove passai scarno, tra dolenti intenti ovvi, la mia quasi passeggiata dalla mole al molo finita, già sapevo che mi sarei sentito dell’uomo la precarietà sopita. Impastoiato nelle deprivazioni dei miei concittadini appassionati delle cose del loro signore, nel tempo forte, con rigogliosi innesti d’altri tempi presenti, pini tipo marittimi da un lato, siepe di tuglie dall’altro, non avrei penetrato con lo sguardo soltanto. Non so se mi ci sarei potuto nascondere, se avrei potuto scrollarmi via d’addosso la smania dell’uomo che sono, che sempre ho appresso. Il passeggiare, con il vago presentimento di essere ad un passo dal mio passo, con il resto d’ogni falcata lasciata incespicando tra la sterpaglia varia, ansimando molto quell’aria, come chi mai s’arrese senza accenni di riprese, mi avrebbe rinnovato certamente. Ne ero sicuro.

Quando da Corito a Tuoro, con a destra della statale il lago, non incontrai la stazione di sollevamento, né quella meteorologica di prima classe. Quando passai come passato in disuso da una via non battuta dal fronte, con casolari senza fili intravisti, ora restituiti alla campagna dalla morte, capii che ero desideroso di lasciarmi alle spalle la mole degli impegni del passato a vantaggio d’un molo in cui poter finalmente dare inizio ad un periodo di vita nuovo. Era prima della primavera ed in verità al sollevarsi della linfa non ci sapevo ancora far. Già si parlava dell’Europa occidentale ed orientale in quella mediterranea, dei tanti paesi con i loro presagi delle mie difficili relazioni a spingermi. Già si parlava di me verso un ben rientrare svelto in casa con la speranza di averla scampata. Chiudersi in sé, ripiegarsi nel più vile egoismo, è bruttissimo.

Vicino al vecchio aeroporto il molo era già residuato d’un tempo passato, particolare come una castagna lessa e arrosto nello stesso tempo poiché cotta dentro un sacchetto posto sopra uno sbocco di vapore geotermico. Accanto a una rotta di transito per il battello, dinanzi uno sfacelo di palazzine ben visibili d’inverno dal camping vicino, al guaito del gruppo di cani della finanza che si addestrano per contrastare il contrabbando doganale dei tabacchi lavorati all’estero, io ero perplesso. Non avevo l’anima dell’animo abbandonata a chi ti scavava facendoti saltare fuori un frutto. Il molo era quanto di meno altezzoso e più comprensivo potevo permettermi da quel punto d’infermità raggiunto, da me medesimo ben vestito di tutto punto.

Prima di prendere il battello quel molo era quanto di bello ricevetti e che poi non ridonai come dovuto, verso un come, come una passeggiata iniziata, più precisata che passata. Il molo non era figura di quando troppo buttato giù mi sentivo bravo, coi progetti del poco riferiti al passato, passato di sicurezze precipitato in un'ora come quaranta litri di pioggia in un metro quadrato di terra paludosa. Era solo qualcosa di funzionale in senso pratico. Tornando a girare attorno ai miei luoghi natali, trovando dei rimandi a tempi di ruderi interessanti, era un mezzo che mi serviva per andare all’isola. Non mi ricordava il passaggio da giostrare le persone scontento per poi esser sempre più giostrato contento.

19,30. Non stazionavo sui binari del treno, avevo alle spalle un porto d’imbarco per quell’isola e nel valico collinare che mostrava terso il cielo non scorgevo orizzonti marini ma, senza fretta, con calma, l’ora tarda. In isole di gerghi, facce, razze, furbizie, con le frange sulla fronte, tra le acque infrante sugli scogli, m’ero osservato come volatile in un vicolo al molo vicino, meglio a galla che in acqua. Da quella posizione paesaggistica favorevole e facilmente accessibile, misurando il livello del lago da cui guardavo, mi interessavo anche all’ambiente. Prati d’erba medica accanto a prati umidi fitodepuranti, annessi agricoli trasformati tramite condoni in abitazioni della domenica, forme rifatte e scoline mantenute, scorgevo. Il dettaglio dei punti più salienti in impianti di termoventilazione dimessi, tra terreni incolti e vegetazione spontanea, mi sembrava un contenitore, un CVA, un centro di vita associata. Ma vedevo tanti immigrati extracomunitari che occupavano luoghi da tempo inabitati e mi sentivo in colpa, a volte si e a volte no, perché non facevo abbastanza.

Come un pescatore che preparava la rete tutto preso dal daffare, per troppo tempo avevo creduto indilazionabile l’impegno dove il ragazzo del disagio è sempre situato. Omaggio nel suo significato più profondo, era per me sinonimo di disponibilità, umiltà e senso del gratuito per il mondo. All’omaggio particolare cui dedicavo molto tempo in tempo, guardando contento la qualità dell’ottenuto risultato e non la quantità dei lavori svolti da portento prima del sovraccarico, associavo ancora un legame al ragazzo del disagio, specie se è povero ed extra-comunitario. Ma lo avvicinavo nello stento di quell’oggi con meno forza che in passato, sempre però pensando che sarebbe potuto diventare un mio futuro cognato.

All’isola, dal rumore del battello che mi avrebbe portato al silenzioso mio calpestio sperimentato, sarei stato al trasporto reale al passato, non quello raccontato dai nonni o dai libri di scuola, ma quello vissuto e riletto in base alle emozioni e alla mia memoria. La navigazione lacuale non mi avrebbe dato il mar di mare. Di quanto percorso prima di andare a prendere il battello, del veder da seduto a pelo d’acqua l’allontanamento della riva, di me che rimugino il passato di un piccolo sogno comunemente condiviso, al paesaggio si collimerà come un miraggio. L’odore del battello approdato non sarà mai lontano con rammarico dall’alito d’un vento, da diffusore d’essenze scarico a stento.

Nell’esterno giorno in cui era evidenziato il mio tratto percorso vero la sera, come ipotesi da accarezzare, non c’ero io solo tra le acque interne con una vela, per me cadetto che non sono più. Dentro me, seduto sul battello, nel modo che si conviene, con una rinnovata limpidezza, il desiderio di fare la felicità del prossimo era una vocina che diceva «mh, si può fare, si può ancora fare».


Theorèin - Settembre 2005