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Desunsi ch’ero desueto in un falciante scompiglio. Dal cielo d’uno schermo d’una televisione in bianco e nero a due canali cadevano dei fiocchi di neve in polietilene. L’incendio dei gas d’un neon di un lampione permetteva di vederli riflessi in una pozzanghera. E l’effetto era quello di un qualcosa che scorreva, come un fiume. Dei volenterosi mi avevano raccolto da un giardinetto del centro storico di Perugia e portato al Policlinico di Monteluce. Non ero particolarmente bisognoso di un pronto soccorso perché il primo soccorso ricevuto da loro era stato più che valido ma non avevo documenti d’identità con me e sembravo frastornato. In più quei volenterosi avevano raccolto me e non la mia voglia di farmi pubblicare, avevano lasciato sul pratino il manoscritto che avevo ritirato dall’editore poco prima di cadere sul giardinetto; là fuori a freddarsi. Anche senza il contatto col ghiaccio avevo bruciore alle manette alle mani che mi avevano messo per farmi star fermo, che non mi permettevano di firmare l’autorizzazione a pubblicare la mia biografia. La smentibile ma capibile avventura trascritta mia avrebbe fatto la fine d’una merenda tra atroci ferocie buttata via? Buttata via come a fare i tuffi nei luttuosi batuffoli in mano ad un bambino, batuffoli di zucchero filato sfilato via dal vaso, in modo repentino? Avrebbe fatto la fine della gioia di chi vede infilato nello stecco invece del bianco zucchero un triste grumo diverso, perverso? Io, nella difficoltà di mobilità, gli errori imputabili alle mani amputabili, strette dalle manette dei poveri mezzi non utilizzabili, ammettevo. Li vedevo figura della mia condizione lì all’ingresso del policlinico. Come tra i residui delle rovine di antiche civiltà si rinvengono oggetti attestanti specifiche ed isolate conoscenze tecnologiche avanzate così io mi aspettavo qualcuno capace di rinvenire dalla mia biografia in quel giardinetto qualcosa di stupefacente, per lui come per l’umanità. Io, dal reperto sconvolto, non mi ponevo mai un problema ancor più grande dei problemi grandissimi e mi piaceva starmene riservato come i grandi che hanno decretato il progresso delle scienze mediche. Non mi chiedevo che cammino di frode o di fede avrebbe fatto il primo partecipe di un paleocontatto ma ammettevo che nella sue essenza e funzionalità non conoscevo il mio corpo come non conoscevo quasi niente. Stando nel Policlinico di Monteluce come fossi in una clinica del fischietto qualsiasi, contento di aver trovato per una notte ricovero, infastidito dal prudere che dà l’ortica, distrassi fin dal minuto spaccato con il mio arrivo gli infermieri, esseri più evoluti di me quanto alle eccellenze nelle sanitarie urgenze. Con una specie di flirt, che non avevo considerato, fischiettavo fingendo un coma senza semicroma, contando le mezz'ore come ore, ricordando più appuntamenti persi che dolore. Fischiettavo per l’ansietà che li per li sentivo, fischiavo del disagio perché non era già mattino, fischiettavo per la paura che mi si sarebbe palesata all’apertura dello sportello di una ambulanza appena arrivata. Anche se ero spinto a dare un giudizio a critica negativa verso chi portava in giro a quell’ora in corsia un infermo muto in carrozzella, con gli occhiali da sole, mi contenevo nel contegno in cui ero localizzabile. Sapendo che non ritrovarsi orfani nella quarta età è un fatto eccezionale per l’umanità, non avendo ammiratrici settantenni a chiedermi un autografo per le loro mamme, mi feci curare da chi s’impossessò della mia biografia su mia avvertenza, da colui che fu costretto a chiedere una referenza per me a tutte le persone più o meno vip, più o meno disposte all'altro, più o meno capaci di riconoscermi, che stavano pazientando lì nella sala d’aspetto: un dottore giovane, appena specializzato. Ma non riuscì a portare al pubblico dominio la mia vicenda. E non che fosse impubblicabile o impresentabile. Se la tenne per sé dopo averla recuperata dal freddo del giardinetto. Quando mi addormentai, in sogni di ghiacci fusi da baci e fondali segnati da scialle proteggenti, affetto da degradazione inorganica (ma non invertita, o gnomo asessuata, magari gay geyser, libertina, frigida) elemosinai una raccomandazione al padreterno vedendomi in un mio moto proprio sempre più sgualcito, prossimo ad abbandonare la vita da dietro un pareo con uno stile etereo. Pur essendo avvezzo ad intrattenermi in terra e nei rapporti con gli altri sentendo tante persone carine con me, capaci di dimostrarmi che ero ancora utile, da farmi sentire un essere umano felice, avevo paura di non essere ritrovabile. Nel sogno, come tra un po’, al risveglio prima della colazione, nell’ora della supposizione, supponevo che mi fossi trovato in un punto O di una piazza a fare uno spostamento rettilineo di centimetri 20. In base a questa sola indicazione la posizione mia finale non sarebbe stata determinabile perché sarebbe potuta essere un qualsiasi punto della circonferenza di centro O e raggio lungo 20 centimetri. Sarebbe occorso sapere la direzione verso cui mi fossi mosso. Ma tanto, visto che non si serra mai l’occhio del padreterno su me, dato che sono un essere guardato a vista dall’amore, avrei potuto sempre star tranquillo, sicuro. Theorèin - Dicembre 2005 |