IL MIDOLLO DEL LEONE
A cura di: Francesco Massinelli
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22. Istantanee d’un deferito

Oggi si celebra un trigesimo e tuttavia posso affermare con certezza che non capisco quale. Viaggio in auto e davanti a me il cielo è fulmini ad anticipare la pioggia su uno sfondo blu, grigio e nero. E dietro di me un giallissimo sole riluce su gocce di pioggia grosse. È ben vero che mi sono saltati i gangheri in ghingheri sbattuti nella mia realtà di lavoro e che sono finito vicino ad uno spaccio di riti secchi quando, abbandonata l’azienda, feci con gli amici una ditta col fine guadagnare dall’attività di sfasciatori di carrozze.

Io gioii nel maggior danno circoscritto e contenuto a salvarmi la figura, pesante però come uno schizzo da un bicchiere di mercurio, riciclando il materiale delle vetture sfasciate e suddividendolo per tipo. La mia storia è molto semplice ma ad accettarla ci ho messo parecchio. Sono un sessantenne che dopo aver fatto per tantissimi anni il tassista di persone con problemi tali da essere prese in carico dai servizi di beneficenza pubblica è peggiorato economicamente proprio per averlo fatto. I giri che facevo fare a quelle persone si basavano su una situazione di sfruttamento a mio svantaggio tale che c’era un minimo di paga oraria e tutti gli scarrozzamenti erano gratis. L’ente pubblico si convenzionava con un ente privato, poi, parte dei soldi, andavano per il mantenimento e la strutturazione dell’intervento, parte al vento. Chi ci rimetteva era il pivello. Il pivello che con la sua automobile e la sua patente doveva scontrarsi con le più abitudinarie delinquenze.

Amando la corsia, sapendo che chiedere è lecito e rispondere è cortesia, pur essendo il puntiglioso che dopo un po’ si tira via, io come pivello, mai mi permisi però qualcosa in più dell’esser instancabilmente teso verso migliori dichiarazioni d’intenti, passante su temperamenti vivaci ed irrequieti a stenti. Mai mi sognai di dar per scontato quello che sciupai senza esser pacato. Ma questo solo per un dato tempo. Ed infatti mi dedicai al lavoro di sfasciacarrozze. Prima di stare in carreggiata sulla mia utilitaria avevo maltrattato col fiuto usato nel distacco ben mirato, se aderivano al progetto formalizzato, parecchi futuri autisti alle lezioni di scuola guida per contrastare il favorire un’assistenza sociale mal concepita.

Ero rimasto con il problema che li poneva nel torto di mitizzare me nella deresponsabilizzazione del menefreghismo generale. Ed io, che di sentirmi dire bravo ero stufo, spingendo le mie energie nel bene e nel male veramente unico, li maltrattavo. Vanamente. La mancata comune assunzione di responsabilità m’indeboliva sempre. Stavo in carreggiata facendo il mio dovere senza che la cosa passasse inosservata. Ma se come tassista dovevo fare un lavoro di sostegno psicologico che mai mi faceva prendere posizioni massimaliste su problemi complicati, l’audacia della guida altrui anche sregolata veniva premiata.

La raffinata goliardia di alcune mie azioni, la levità del canone di alcuni miei comportamenti, m’aveva visto combattuto tra i diritti ad evitare dispiaceri. Avevo dato - salvo eccezioni - un rispettando in toni seri tale da rispondere alle esigenze che sia l’ente pubblico, che l’utente, che il mio datore di lavoro volevano recuperare. Però ci rimettevo io. Ci rimettevo l’usura del mezzo e il combustibile, il profilo deontologico del mio agire. Ci rimettevo al punto che mi chiedevo se era la severità con me stesso a farmi sottovalutare il mio valore, a spingermi ad accettare lavori degradanti direttamente me stesso ed indirettamente gli altri. Infatti per essere un bravo tassista non facevo un sostegno psicologico adeguato a quanto, essendo preparato, consideravo degno di essere guidato.

Riguardo agli utenti potrei fare mille constatazioni sorprendenti.

Le astrazioni di situazioni concrete che con comportamenti non estrapolabili in situazioni analoghe passabili davano ragione al mio fiuto, condito con l’amarezza della giustizia omicida di quell’attivismo sociale partecipato subito; nell’insuccesso economico, mi davano successo relazionale in modo armonico. In ogni mio intervento facevo quello che era giusto fare ed in modo bello. Quelli che mi avevano scelto per come mi avevano visto guidare, dove uno slancio avevo dimostrato, non mi avrebbero mai liquidato se non mi fossi impuntato. Gli facevo troppo comodo. Infatti, anche se l’inquietudine nella farsa stanca, anche se la verità del passato a non tutti garba, la mia dedizione mai aveva innescato quel salto di gangheri in ghingheri sbattuti che secca come non mai perché sempre nel borderline.

Era sempre benaccetta ogni mia presa in carico della situazione perché lasciava trapelare una particolare attenzione a quanto gli altri miei colleghi trascuravano. A chi mi chiedeva come mai riuscivo ad essere così, se era per un fatto storico verificatosi nella mia vita, io rispondevo citando piccoli avvenimenti indietro nel tempo ma non denotati da particolari eventi traumatici. A 10 anni, ad esempio, in gita allo zoo, accanto alle foto degli amici e degli animali avevo quella del pulman e dell’autista con il quotidiano in mano. Se si vogliono cercare i presupposti del mio successo sulla mia posizione prossima ad una linea di confine basta guardare la presa della patente automobilistica, grande apportatrice di autonomia.

A mettermi come non mai incubato nella posizione di accostato al fitto bruciato di chi si ghiaccia in un bourn-out in automatico erano stati tutta una serie di avvenimenti dimostrabili e certificabili nell’usura del mezzo di trasporto perennemente a mio carico, nel bordo delle linee della strada, nel borderline che capita. Non con determinazioni dirigenziali numerate, non con esiti di scaltrezze di prove selettive fallite, io mi ero autocondannato. Nel traffico stradale mi ero più volte trovato a fare i conti con le conclusioni di collusioni assurde, con il fatto di dover avere a che fare sempre con persone altamente problematiche, che ti portano prepotentemente nel loro quotidiano, dove si pretende il rispetto delle scelte testimoniate con coerenza ma si fa dell’incoerenza uno status. Difatti, impostati su alcune direttrici, tra lungaggini che si chiarificano e lavori instabili dalla mansione chiara lasciati, i limiti della mia buona volontà s’erano distinti coesi e soli, sull’istanza aperta all’obsolescenza del mio essere riuscito a mantenermi anche tra i resti della trascuratezza di altri. E non che mi fossi lasciato avvinghiare dall’incanto dell’icona della loro interpretazione della segnaletica stradale in modo intenzionalmente meschino.

I datori di lavoro erano viscidi come la burocrazia della società, che a volte ti ammazza e a volte ti aiuta.

Quando ero alla guida del mio mezzo di lavoro, di quella mia sorta di taxi, quello che sgusciava via come da un rostro, più del fiato rantolato nel bisogno d’affetto provato, era un bisogno d’amore profondo nel costante rumore di sottofondo. Che qualche volta arrivava sporco, qualche volta pulito, svicolato e indiviso, normalmente vestito dai discorsi che lo abbellivano. Il bisogno di semplici e schematiche spiegazioni (pazientemente date) e di punizioni correttive (tipo oggi niente gelato), non avvertivo quando interagivo con i mandanti di chi trasportavo, con i committenti del mio ente di lavoro. Acerbe pesche di beneficenza simulate con lo stato non m’avevano auto-finanziato. I miei dirigenti, più degli utenti, guardando i segnali stradali, immaginavano percorsi diversi e me li volevano far fare. Anche contromano volevano farmi fermare dove il parcheggio era vietato pur di seguire il cliente nel modo da loro congeniato. Una segnaletica vista a loro uso e consumo mi portava a discussioni da conducente in picchiata su ogni taglia di bugia indicata che mi permetteva di evitare una brusca inchiodata, una repentina sterzata, una grattata di marcia scalata, una sgommata. Transitando con ostacoli al petto presi e affrontati quando collezionai multe pari agli ideali rannicchiati mi impuntai e mi liquidai. E loro mi deferirono.

I risultati di quanto ottenuto dall’organizzando all’arrabattando, senza sapere come far servire al lavoro quanto fatto grazie al denaro della provvidenza familiare, furono il segno decisivo che impegni vincolati da calendari e riunioni di gente variamente remunerata a stressare delle povere sottospecie di tassinari come me in ruoli troppo aperti a relazioni da gestire, non uccidono. Persino gli atti d’indirizzo nel menage d’ogni giorno, in una defaillance senza cilecca arrivata, non andarono ma vennero al punto come al pettine i nodi delle imprecisioni lasciate addietro, quasi fermati da clip metalliche da 0.01 euro. In fondo a tutta la dotazione del taxi c’era l’eco del valore dato allo sfruttamento di un pivello prudente nella guida (velocità medio-bassa e distanza di sicurezza). Un valore vicino a quello che aveva fatto allontanare l’extra per gli aventi diritto ad un rimborso. Uno scarto profondo tra il mio reddito e quello dei miei coetanei.

Andandomene, uscendo dal garage, constatai che ero stato un ragazzo secco, che alla pariglia o alla disparata, tra l’asciuttezza fors’anche sfinferava, sconfinferava, la sua andatura sfatata, come mezz’ala di pollo che guardava la sua vita svoltata, dipartita e andata. Parso a tutti in modo coerente al me stesso che non esisteva più al tempo, come mai adesso, m’arrestavo in una lastra in cui mi riconoscevo parte di futura salma. Lo strazio del mio spazio che mi vide deperito, mi vide fanfarone non capito. Irredento a scorgere, scontando repellenze, lavoravo per chi di me non sapeva niente. In tutta la mia voglia nell’andar solo inadempiente ambiguità, distanze allungate, vicinanze accorciate. In ogni affinità continuata con prudenza avevo inoltrato la mia esistenza verso la cronico degenerativa partenza.

Considerazioni personali di quella esperienza da taxi-driver del sociale.

L’essenziale sbaglio di quel mio tono in divenire fu, anche in gite fuoriporta o fuoriluogo dove a pensare in un certo modo non ero solo, il voler fare molto in mancanza di tempo giusto. Con il mio mezzo privato in vece di un mezzo pubblico. Mancanza significata da un indugio altrui, validato dal fatto di non veder me come fuori dal contesto adatto. In messe di tutto in discussione, in un divenire malamente umile, il dimostrare l’integrità conservata mi vide in cura per migliorarmi con le persone più piccole, per lasciar intervenire la compagnia degli autisti più grandi. Senza comunque mai creare problemi di guida. Il dimostrare l’integrità conservata fu vampira delle mie povere volontà e delle mie ingarbugliate intuizioni per tutto il tempo della mia presa in carico, della mia assunzione fuori dall’autorimessa e in giro senza tassametro realmente in funzione.

Quando strinsi risultato alcuno mi spiazzai anche per lo scoramento più ludico. Non ero all’avviamento d’un balletto in cui l’imbranato non riesce a portare lo stendardo del folklore, non ero come quando in processione si porta una statua sdraiata sotto lo sguardo del turista. Non ero il solito bonaccione tra lo sdatto e il finto tonto nell’infermeria, senza anestesia, tenuto fermo in 5 per estrarre un’unghia incarnita, senza istruzioni in merito a come lasciarla ricrescere. Ero tassista di negligenze, uniche e significative presenze.

L’utilità del mio girare mi vede adesso capiente di incoerenze ma troppo coinvolto per attuare una faida. Ho sei volte dieci anni e una prospettiva di longevità altissima. Renitente a nessun congedo quando mi chiedo come fa tanta gente sanissima a non ricordarsi che la cosa più importante è una vita spesa bene me ne sto al sole tiepido tra folate di vento e sabbia. La tempesta della notte ha lasciato un’acqua che è già asciutta ma c’è un velo di polvere che permette di scrivere ovunque. Sentendomi come i picchi che fecero saltare tanti anni fa una missione spaziale perché andavano a bucherellare dei materiali speciali m’interrogo in modo nuovo sui miei limiti umani. Metto becco sulle vicissitudini di un mio amico che si è andato a chiarire da una sua amata, dovendo dire frasi dolorose dal tono drammatico, proprio pochi giorni dopo una visita odontoiatrica. Tra ffff, sss, hhhì, con un bell’apparecchio in bocca nuovo nuovo, lui molto prima di me aveva vissuto l’imbarazzo stringente ed inevitabile in un frangente. Metto becco sulle sue vicissitudini perché pur avendo calcolato tutte le combinazioni possibili a favorirlo ne era sempre stato vinto.

Tra il vento caldo e gli svolazzi di sabbia lo convinsi a rintracciare il numero di un nostro comune amico d’adolescenza infranta finito in clinica, presumibilmente impazzito. Le istantanee della nostra gioventù a confronto non facevano ridere molto. Eravamo giovani senza tempo ma con una lacerazione dentro da far curare al più presto.

I frutti di un reticolo vitale però c’erano e ci lasciavano sperare. Basandoci sul una mia vecchia ricerca di gioventù non esistevano problemi insormontabili. Preparati rivolti a piccolissimi gruppi, senza razzismi d’età, ci attesero. Come avanzi dallo standard ben presentato, ad impegnarci stoicamente andammo vicino uno spaccio di riti secchi già inaugurato. I soldi ancora ci servivano per campare. Chiamammo la nostra ditta “Tartaruga” e ci dedicammo all’arrangiarci in un campo attrezzato a farci fare gli sfasciacarrozze anche di domenica e di sabato. Ottenemmo utili per garantirci lo sviluppo futuro ed investire nell’innovazione necessaria a creare lavoro e giusto profitto per noi, sessantenni in un mondo sempre più interdipendente e competitivo. Imprenditori puntuali, volitivi, incisivi in una serena e proficua attività.


Theorèin - Gennaio 2006