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Che cos’è la laicità? Il dibattito politico recente ha riportato alla ribalta la questione della laicità dello Stato, suscitando polemiche che parevano anacronistiche, e che invece sono state riproposte, peraltro con particolare virulenza da formazioni politiche affatto minoritarie, spesso di irenica composizione, a cui va imputato una riesumazione del tema in modo spesso strumentale, in quanto legato anche alla bruciante sconfitta referendaria da esse patita, e che perciò a mio avviso necessita di una puntualizzazione concettuale, in quanto dall’uso improprio della terminologia e dalla mistificazione dei concetti è scaturito un processo di degradazione del dibattito politico e un fenomeno di deplorevole aggressività di parte, volta ad individuare nel Cristianesimo una minaccia all’indipendenza dello Stato. Se per laicità intendiamo una concezione per cui nella società non debbono essere ravvisabili influenze anche indirette della religione in quanto tale, abbiamo di essa una visione che, oltre ad essere irrealizzabile – in quanto la religione è parte della cultura umana e quindi i suoi influssi sono ineliminabili – è anche drammaticamente antidemocratica, in quanto tarpa e mutila gli individui in una delle loro fondamentali dimensioni esistenziali e comunitarie. L’Homo è religiosus così come è faber: la religiosità è un nesso in cui si articola la sua natura di sapiens sapiens, almeno da quando nella Preistoria la nostra specie cominciò ad adorare monoteisticamente il Cielo – come ha dimostrato Julien Ries – a raffigurare soggetti spirituali nelle pitture rupestri, a seppellire i morti con un rito, a differenziare il ruolo del cacciatore da quello del sacerdote – sciamano. La religiosità, lungi dall’essere una forma di sapere primitivo e inadeguato (come sembrano credere gli ultras laicisti di casa nostra, attardati alcuni su una filosofia della cultura di matrice positivista ottocentesca, altri su un’interpretazione letterale del marxismo-leninismo, tesi che nessuno oggi più sostiene seriamente nel mondo accademico, e ampiamente contestate dai maggiori autori dell’antropologia religiosa, come lo stesso Ries o come Mircea Eliade, che evidentemente sono ignorati dai polemisti a cui faccio riferimento) ha ispirato arte, economia, società, politica, e ne è stata influenzata. Volerla pertanto espungere dal corpo sociale e considerare degradato ciò che ad essa si rifà è un vero crimine contro l’uomo. Si potrebbe polemicamente rilevare che molti degli estremisti che in Italia hanno mistificato il tema della laicità più volte hanno tentato di strumentalizzare posizioni ed eventi del mondo ecclesiastico più consone ai loro programmi politici, senza ravvisare in questo alcun contrasto con la loro ostentata aconfessionalità, ma ciò ci porterebbe lontani dal nostro intento. Va inoltre da sé che il riconoscimento del ruolo sociale e culturale della religione non implica un’accettazione preconcetta di tutto ciò che viene da essa ispirato, anche in politica o nel diritto, e persino nella morale, tanto più che in una società moderna coesistono più religioni, ma respingerlo per principio è certo lesivo della libertà umana. Si aggiunga a questo che la religione ancora oggi, sia pure in modi diversificati e molteplici, costituisce la ragione o una delle ragioni di vita della maggior parte delle persone. Tale concezione, nel suo radicalismo, deve per forza di cose arrivare alle estreme conseguenze, e rifiutare non solo per sé l’idea di un diritto naturale immutabile determinato per ragione –alla luce del quale per esempio si ripudi l’aborto perché compiuto su un essere vivente anche se privo di personalità giuridica - ma anche presentarlo come una minaccia alle libertà degli individui, mistificando gli intenti di chi la pensa diversamente e ostacolando l’esercizio fattivo della libertà di pensiero, così da assumere un atteggiamento dogmatico nettamente antitetico ai suoi asserti iniziali. Tale risultato è ancor più deprecabile in quanto il concetto giuridico di diritto naturale e del dovere etico che ne consegue ha un pedigrèe di tutto rispetto, che parte da Tommaso d’Aquino, prosegue con Grozio, Molina, Suarez, Mariana e De Vitoria, s’interseca col contrattualismo moderato di Locke e Spinoza e raggiunge i tempi nostri con una varietà di spunti interdipendenti, nel diritto propriamente detto (per esempio in Radbruch, Dworkin, Rawls), nella bioetica (col magistero dei papi Paolo VI e Giovanni Paolo II e con autori come Sgreccia, Pessina, Di Pietro già nella sola Italia), nella filosofia (tra gli altri con Mounier, Maritain, Lèvinas, Stein, Arendt) e nella teologia (negli insegnamenti dei papi Leone XIII, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e dei già citati Montini e Wojtyla), per cui andrebbe trattato da certi personaggi con maggior rispetto e mistificato con più circospezione. Il risultato quindi di questa dialettica politico-culturale si risolve in un’autonegazione di fatto e si involve in una sorta di autoritarismo intellettuale, che trasmuta il concetto di laicità in quello deprecabile di laicismo. Esso ha segnato drammaticamente la storia d’Italia e di larghe parti del mondo, divenendo spesso causa di persecuzioni anche violente, a cui peraltro ben si sarebbero adeguate le intemperanze verbali di certi politici locali. Lungi dall’essere realmente democratico, lo spirito laicista troppe volte contraddistingue solo un gruppo esiguo di persone, spesso influenti, che pretendono di essere le uniche ad aver compreso il vero interesse del popolo, anche a suo dispetto. Intimamente reazionario perché incapace di confrontarsi con posizioni differenti, il laicismo caratterizzò non a caso le società liberali del Tardo Ottocento, dominate dalla massoneria e spesso con un ristretto corpo elettorale basato sul censo, da cui erano escluse le masse popolari devote, tacciate semplicisticamente di superstizione. L’avvento della democrazia di massa e dei partiti di classe o interclassisti aveva fatto superare quest’involuzione antidemocratica della concezione laica della società, pur sollevando altre questioni in merito al rapporto tra Stato e Chiesa, spesso anche più gravi. Oggi purtroppo, da noi come in altri paesi europei ed extraeuropei, la ventata conservatrice imperante ha prodotto questo regresso culturale. Assai influenti sono per esempio in Spagna i circoli anticristiani legati al premier Zapatero, che considerano la Chiesa Cattolica la fonte unica di tutti i mali del loro paese. Che una simile tesi sia erronea, lo dimostra già la pretesa di dare di un problema complesso come i limiti storici di una nazione una soluzione tanto semplificata. Potremmo addurre a discolpa di costoro – nel paese iberico come nel nostro – la loro scarsa formazione intellettuale, ma sembrerebbe più una denigrazione che un’argomentazione. Potremmo rilevare come la crisi profonda del Socialismo ha spinto i partiti che vi si ispirano ad abbracciare i motivi del laicismo anticlericale borghese e massonico abiurando quelli propri legati al concetto – dialettico di matrice marxista – leninista, etico di ascendenza austromarxista – di lotta di classe. Ma ciò metterebbe sotto i nostri occhi solo il pasticcio politico culturale che mescola la sinistra della destra e la destra della sinistra nel fronte laicista internazionale, senza fornire ulteriori coordinate per la soluzione intellettuale del problema. Potremmo rilevare, per stigmatizzare la debolezza del pensiero laicista e quindi per svalutarlo, che persino i partiti che ancora professano il marxismo – leninismo, con maggiore acutezza delle altre formazioni politiche che pur come loro sono tradizionalmente antireligiosi, mettono l’accento più sulla necessità di ridare spazio alla riflessione politica nella società che di penalizzarvi la religione (così per esempio Fausto Bertinotti in una interessante intervista al Corriere della Sera a proposito dell’idea di rivedere il Concordato in Italia, da lui considerata una falsa emergenza, o anche Oliviero Diliberto, che ha ammesso la liceità del dibattito sul sistema concordatario ma non ha convenuto sulla sua utilità politica). Ma ciò che ci preme è ribadire che spacciare per confessionalismo l’idea che possa esistere un diritto naturale condivisibile anche da laici per ragioni non religiose, o l’idea di considerare l’etica sociale immutabile, e di converso affermare che solo il loro contrario è genuinamente laico, è una mistificazione e un’alterazione patologica della genuina cultura democratica, che deliberatamente discrimina uomini e pensieri perfettamente legittimi, creando un totalitarismo strisciante che svuota e svilisce il dibattito intellettuale. In buona sostanza, è inaccettabile l’idea che uno Stato non possa, per motivazioni razionali e non religiose, rivedere una legge sull’interruzione di gravidanza o sull’eutanasia, porre limiti alla fecondazione assistita, rigettare l’idea di una regolamentazione matrimoniale delle unioni di fatto o omosessuali: motivazioni in tal senso ce ne sono, ed escluderle a priori dal dibattito politico e addirittura dalle opzioni di scelta del popolo sovrano è inconcepibile e inaccettabile, e fa dei credenti dei cittadini di serie B. Il passo successivo, già fatto da molti, è lo spacciare per confessionalismo il fatto che in un sistema politico possano esistere partiti anche d’ispirazione religiosa, mettendo sullo stesso piano formazioni come la Democrazia Cristiana, il Partito Popolare o l’Unione di Centro e le Repubbliche islamiche dove la legge coranica è legge civile, e dove i Consigli degli Ulema hanno poteri costituzionalmente definiti. Non a caso, andando contro le regole di quel politically correct che a parole i nostri superlaici hanno tanto a cuore, l’insulto più gettonato per i loro avversari è quello di Talebani. Questo fascismo linguistico del resto viene, almeno in Italia, da lontano: apparve col craxismo, che per supplire al suo vuoto politico spesso assunse posizioni anacronisticamente anticlericali. Per questa deteriore tradizione laicista, la nostra storia patria ha subito mutilazioni dolorose: il massimalismo verbale di un Mazzini, che identificava nella Chiesa il pilastro della Reazione assieme all’Austria e ne auspicava la distruzione, convocando l’Anticoncilio di Napoli contro quello Vaticano I e divulgando la sua Enciclica laica contro la Quanta Cura, le intemperanze di Garibaldi che voleva andare a Roma per “svaticanare” e “spapare” l’Italia, il livore di un Carducci che scioglieva l’Inno a satana in odio alla Fede cattolica e scomunicava il Papa, chiamato spregiativamente “prete”, sono gli esempi più significativi di quella gestione massonica del Risorgimento che, polarizzandolo attorno alla questione Stato-Chiesa, lo ha espropriato della sua componente cattolica, peraltro illustremente rappresentato da Manzoni, da Gioberti, da Rosmini Serbati, da Tommaseo, da Balbo, e costringendo il liberalismo devoto in un cantuccio, così da lasciare il campo solo agli estremisti dell’altro campo (come gli Zelanti alla Pacca, alla Rivarola, alla Leone XII e alla Gregorio XVI, o il Bernetti, il Della Somaglia, l’Antonelli) o ancora trasformando in essi anche illustri indecisi, come Pio IX. E non tragga in inganno il problema del Potere Temporale, con l’ostacolo connesso all’unificazione della nazione: lo stesso Cavour, che pur professava libera Chiesa in libero Stato e proponeva al Papa garanzie formali per compensarlo di un’ipotetica rinuncia a Roma, nel medesimo tempo in cui le presentava – e Pio IX le respingeva – si preparava a dilazionarne l’applicazione se fossero state accettate. La nostra laicità nasce anticlericale – come del resto quella francese, a differenza di quella anglosassone – e il suo scopo è l’eversione della Chiesa istituzionale. Sentir parlare oggi di revisione unilaterale del Concordato e del suo sistema di autofinanziamento della Chiesa, basato sulla spontanea contribuzione dei fedeli, a cui è concesso un solo modo per sovvenzionare la propria organizzazione religiosa, esercitando così la propria libertà di culto, mi ricorda le leggi con cui il Parlamento torinese, prima nel solo Regno di Sardegna e poi in tutta la Penisola, liquidarono il patrimonio conventuale, sopprimendo addirittura la metà delle fondazioni religiose (334 su 607 per 35 Ordini nel solo Piemonte), mandando monaci e monache a fare i pensionati nelle case paterne – quando ancora c’erano – e andando a rimpinguare il già cospicuo latifondo laico con l’asse ecclesiastico svenduto, togliendo ai poveri la beneficenza fatta dagli enti cristiani senza rimpiazzarla in alcun modo. In effetti, se i tagli alle entrate della Chiesa fossero, ope legis e non per volontà dei contribuenti, quasi dimezzate, le opere sociali del clero (che spesso sono le uniche o tra le poche ad operare in campi minati come il recupero dei tossicodipendenti o delle prostitute, o l’educazione degli orfani o l’accoglienza degli immigrati, o l’assistenza agli anziani o ai malati permanenti e gravi e ai portatori di handicap fisico e mentale) sarebbero irrimediabilmente colpite. Questo forse corrisponderebbe agli auspici della ex-deputata radicale Adele Faccio che, decenni orsono, definì alla Camera mostruosa l’assistenza data al Cottolengo ai suoi ricoverati, ma non certo a quelli di coloro che vi si trovano, tra le altre ragioni, anche perché nessun altro si prende cura di loro. Tra l’altro gli effetti disastrosi di questo laicismo livoroso e di principio, digiunatore ma sempre in forma, colpirebbero lo stesso apparato ecclesiastico con una violenza indegna di un Paese democratico qual è l’Italia, che si accinge a concludere ulteriori intese, anche finanziare, con varie Comunità religiose presenti sul suo territorio, come ha già fatto per esempio con i Valdesi o le Assemblee di Dio o le Comunità ebraiche unite. Invece di cercare nuove forme di convivenza tra un solo Stato e più religioni, garantendo ad ognuno la possibilità concreta dell’esercizio organizzato della propria fede mediante la contribuzione finanziaria, l’Italia, umiliando la confessione religiosa in essa più professata, dovrebbe grottescamente ripercorrere la strada risorgimentale dei Ricasoli, dei Rattazzi, dei Lamarmora, dei Lanza, dei Depretis, dei Crispi, che espropriarono i benefici delle cappellanie e delle collegiate - sopprimendo anche le figure giuridiche ecclesiastiche corrispondenti - che incorporarono a forza le Opere pie nelle congregazioni comunali di carità, che soppressero le decime al clero senza neanche sostituirle con uno stipendio statale come aveva fatto la Costituzione Civile del Clero in Francia. Evidentemente qui non siamo di fronte alla semplice questione di abolire o meno questo o quel vantaggio fiscale per i beni del clero, sul quale si può essere o non essere d’accordo, ma si mette in forse la possibilità stessa di poter contribuire liberamente alla vita della Chiesa, alla quale si negherebbe di potersi sovvenzionare in modo proporzionale alle proprie dimensioni. Non dimentichiamoci infatti che proprio per la mole delle strutture ecclesiastiche il Concordato ha previsto il principio della ripartizione maggioritaria delle risorse del gettito IRPEF, che oggi invece viene messo in discussione come se fosse stato estorto dalla Chiesa allo Stato. E questo in un Paese dove a disposizione di quasi tutte le altre confessioni c’è lo stesso sistema dell’Otto per mille, dove ben presto esso sarà esteso all’Islam, dove numerosi gruppi musulmani ricevono generosi aiuti economici da correligionari esteri che – legittimamente – contribuiscono ad opere spirituali e sociali. Mentre in Germania esiste un’imposta a vantaggio delle Chiese la cui destinazione è scelta sulla base della religione del contribuente e negli USA c’è l’esenzione fiscale per i beni delle confessioni religiose, e nella Gran Bretagna di Blair che ha istituzionalizzato le coppie omosessuali la Comunione anglicana è ancora Chiesa di Stato, come del resto nelle secolarizzate nazioni scandinave lo sono le Chiese luterane, e nel grosso dei Paesi slavi le Chiese ortodosse, o in Giappone lo Shinto. Questo neoestremismo anticristiano spesso mostra il proprio preconcetto antireligioso in genere disprezzando la stessa possibilità di tramandare il sapere religioso: in un Italia dove andrebbero inseriti insegnamenti religiosi nelle scuole per alunni di altre confessioni, qualcuno vorrebbe espungerne come un corpo estraneo quello cattolico, fondamento della nostra cultura nazionale e occidentale. In effetti, l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche ha senso finchè viene richiesto: esso si spegne da sé non avendo adepti. Ma bandirlo quando il bacino di utenza esiste ancora è una violazione del diritto alla conservazione dell’identità e della stessa libertà di espressione che è alla base dello stesso insegnamento. In questo, la pseudolaicità di cui andiamo parlando mostra quanto poco sia laica – ossia aperta a tutte le culture – e molto laicista, in modo peraltro fatiscente. Anche questa è una strada già percorsa, con la soppressione di questa disciplina dal curriculum scolastico per volere di Crispi, e dovrebbe far riflettere il fatto che essa fu reinserita dal Concordato del 1929: persino il Fascismo totalitario, inteso a conseguire il monopolio delle coscienze, sia pur per calcolo riconobbe la rilevanza culturale dell’insegnamento religioso. Con maggiore oculatezza il Concordato del 1984 introdusse il principio della libertà di scelta, di cui ancora si avvalgono i due terzi degli studenti, nonostante qualche flessione, imputabile più alla crisi culturale delle modalità dell’insegnamento religioso che al disinteresse dei giovani, ansiosi invece di conoscere temi spirituali in modo esauriente. Il principio stesso della coesistenza delle sfere politica e religiosa viene negato da questo laicismo travestito di laicità, in quanto, ventilando una denunzia unilaterale del Concordato, non solo mostra la sua insensibilità verso procedure regolari di revisione degli accordi politico-diplomatici (una disdetta di parte contraddice le norme del diritto), ma mostra come voglia di fatto assorbire nella sfera del diritto comune le questioni ecclesiastiche, lasciandole arbitrariamente senza tutela. E’ l’esperienza che l’Italia ha fatto nel settantennio tra la proclamazione del Regno e i Patti Lateranensi. In questo periodo, persino al Papa furono date Guarentigie unilaterali e revocabili, che ne facevano una sorta di persona nullius (era la soluzione proposta dalla Repubblica Romana del 1796 e da Napoleone dopo le due cadute del Potere Temporale del Ventennio Francese, e permise loro di arrestare Pio VI e Pio VII..), mentre molti prelati furono sottoposti a restrizioni della libertà (leggi carcere) per aver denunziato gli arbitri dello Stato esercitando il proprio magistero (ossia in violazione della loro libertà di coscienza garantita dallo Statuto albertino), assieme anche a chierici di rango minore, e simultaneamente laici impegnati subirono odiose discriminazioni lesive della legge (a Paolo Pio Perasso furono negati gli aumenti di stipendio perché aveva raccolto le offerte per l’Obolo di San Pietro, a Giovanni Acquaderni fu confiscata la tabacchiera donatagli da Pio IX, e in genere dure restrizioni furono spesso sancite contro l’Azione Cattolica). E’ il periodo in cui diverse diocesi rimangono senza pastore per il veto dell’autorità civile, e in cui questa tenta – invero senza successo e prima delle Guarentigie – di ripristinare vecchi arnesi del giurisdizionalismo settecentesco come l’Exequatur, il Placet regio, e persino la medievale Monarchia sicula. E’ il periodo in cui chi tenta di assaltare il corteo funebre di Pio IX per buttarlo nel Tevere non subisce alcuna condanna. E’ il periodo in cui riviste come l’Asino descrivono il Vaticano come una spelonca di ladri, mediante immagini e concetti che urtano la sensibilità religiosa e che ricordano certe villanerie sentite di recente contro il denaro raccolto dalla Chiesa italiana con l’Otto per mille. E’ il periodo in cui, scoppiato il conflitto mondiale, gli ambasciatori presso il Vaticano sono costretti a riparare in Svizzera, senza che sia loro riconosciuta l’extraterritorialità. Non stupiscano gli arbitri: nel vuoto legislativo sono ovvi. Cosa dunque possa spingere a desiderare di tornarvi, non si sa. E il fatto che per avere il Concordato e addirittura lo stesso Trattato con la Santa Sede come potenza sovrana bisognò aspettare il Fascismo, dovrebbe far riflettere i veri democratici: tanto ostile e ostinato fu il laicismo italiano da essere superato in longanimità politica da un totalitarismo. Esso pure commise gravi violazioni, contro l’Azione Cattolica, contro la stampa cristiana, contro la stessa Santa Sede, ma almeno questa poteva protestare sulla base di qualcosa di giuridicamente stabilito. Questo fu possibile persino in Germania con Hitler, che sia pure per tattica non denunciò mai il Concordato, da lui oltraggiosamente violato in mille modi. Evidentemente i nostri estremisti vogliono surclassare persino il Fuhrer. Sanno che Pio XI e Lenin trattarono segretamente per un Concordato minimalista, anche se senza successo? Conoscono il fatto che la Santa Sede ha un Concordato con Gheddafi ? Che esistono accordi e modus vivendi con moltissimi Stati illiberali ? Ignoro la risposta. So però che nel Dopoguerra i Patti Lateranensi furono inseriti nella Costituzione con i voti determinanti del PSI e del PCI di Togliatti, che evidentemente aveva del laicismo una visione più pragmatica, nonostante le atroci persecuzioni religiose dell’URSS staliniana. So che il Concordato rivisto del 1984 fu approvato dal Pentapartito e dal PCI di Berlinguer, evidentemente per una visione tattica analoga a quella del Migliore e per una passione morale più sincera, che lo aveva spinto a riconoscere il ruolo sociale della religione in quanto tale. So che disappunto sul revisionismo concordatario è stato espresso, nell’Unione, non solo da Prodi e da altri ex-democristiani, ma anche da Fassino, Di Pietro, Pecoraro Scanio, che certo non sono politici di area confessionale. Cos’altro ci dobbiamo aspettare da quest’offensiva ateo-conservatrice, incapace di riconoscere alla Chiesa il ruolo che si è ridisegnata nella società e perciò vogliosa di colpirla sconsideratamente? Le commemorazioni tra il grottesco e il livoroso della Breccia di Porta Pia e le dimostrazioni contro i Patti Lateranensi sembrano lasciar presagire la volontà di abolire il Trattato che restaurò di fatto la mai interrotta di diritto sovranità temporale dei Papi, istituendo lo Stato della Città del Vaticano. Fu il punto di arrivo della dolorosa Questione Romana, che conciliò il bisogno di unità dell’Italia e quello d’indipendenza del Pontefice, al prezzo più che ragionevole per entrambi dei quarantaquattro ettari della Città leonina. I notabili del Risorgimento e i loro epigoni non seppero mai arrivarci. Crispi aveva affossato i tentativi conciliatori di Papa Pecci, Vittorio Emanuele Orlando quelli di Benedetto XV. Bisognò aspettare, a loro vergogna ancora una volta, Mussolini il fascista. E i padri fondatori della Repubblica lo seguirono su questa strada, dando i crismi della democrazia ai Patti dell’11 febbraio 1929, inserendoli nella Carta costituzionale. Naturalmente nessuno in Italia, almeno per ora, darebbe credito a quest’estremo delirio antipapale, ma il fatto stesso che indirettamente più volte si neghi il diritto all’esistenza della Santa Sede come Potere temporale autonomo costituisce un inaccettabile violazione del diritto all’esistenza di uno Stato sovrano, e un attentato alla libertà morale di più di un miliardo di cattolici sparsi in tutto il mondo che hanno il diritto di avere un Capo spirituale libero da qualsiasi potestà terrena. Non sufficientemente coraggiosi, nel loro fanatismo, dall’invocare la cancellazione del Vaticano dalle carte geografiche come Ahmadinehjad ha fatto di Israele, questi estremisti hanno tuttavia più volte portato sin sulla soglia del confine italo-vaticano la loro volgare invettiva, e hanno più volte in Parlamento cercato di spingere verso violazioni unilaterali dei Patti Lateranensi. Mi domando: si sentono in buona compagnia a pensare che certi fascisti alla Farinacci definirono il Vaticano “l’appendicite cronica dell’Italia”, e che Mussolini vaticinò un campo di concentramento per il Papa, se non smetteva di piatire per la pace? E come giudicano il bombardamento fatto dallo stesso Farinacci del Vaticano durante la II Guerra Mondiale, e i tre progetti di Hitler di invaderlo rapendo o uccidendo Pio XII ? Domande provocatorie a parte, mi sembra giusto, avendo distinto tra laicismo e laicità, dare di quest’ultima una definizione libera dalle ipoteche delle parti politiche che in Italia la considerano “Cosa nostra”. Certo, il nostro è un paese che non ha mai conosciuto una vera laicità, e il sui background in materia è particolare. I nostri laici del Risorgimento, lo abbiamo detto, erano più che altro anticlericali. Nemici della fede cristiana, erano adepti della fede massonica; restii alla liturgia latina, preferivano il Rito scozzese; negatori di Cristo, professavano di credere nel Grande Architetto dell’Universo; insensibili alla missio ad gentes, volevano liberare gli uomini dalle catene della Chiesa. Erano cioè religiosi in un modo diverso. Cioè non erano laici. Un vero laico fu sicuramente Giolitti, ma fu solo. Poi sorse la religione fascista, con la sua caricatura della Chiesa. Caduta la statolatria, vennero fuori le altre fedi a sfondo politico: il marxismo-leninismo anzitutto, e poi il socialismo e lo stesso cattolicesimo democratico, che – per scelta – non è laico nel senso comune del termine, ossia ha precise idee sulla famiglia, sulla vita e sulla società. Franate le ideologie, cosa possiamo chiamare laico in Italia? Tutto ciò che non è cattolico? Allora facciamo della laicità politica un calderone indistinto in cui mettere il neoliberalismo di Berlusconi, la destra aconfessionale di Fini, il retaggio del Partito d’Azione che sopravvive nel PRI, il postcomunismo dei DS, il comunismo di Cossutta, quello di Bertinotti, il neopaganesimo celtico e razzista della Lega di Bossi e Borghezio, l’ecologismo di Pecoraio Scanio, il socialismo di Borselli e di Craxi jr., la massoneria, la finanza delle Grandi famiglie, il Radicalismo di Pannella? Non è un po’ troppa roba? E non dimentichiamoci del monito di De Gasperi: a chi gli rinfacciava di non essere laico, ricordava di non aver preso ancora gli ordini sacri…Il termine laico è abusato e ha nel linguaggio comune un significato improprio, partendo dal presupposto che si definisca per esclusione di tutto ciò che non è cattolico. Tale idea è eziologicamente erronea: giocata tra la contrapposizione tra il laòs, ciò che è comune, e il kleròs, ciò che è separato. Questo equivoco, che considera di parte tutto ciò che è religioso, identificato tout court col clericalismo, sottende tutta la storia della laicità occidentale. A fatica si è diffusa una laicità neutra, in cui tutte le idee politiche avessero realmente una pari dignità. Un apporto fondamentale è venuto proprio dallo sviluppo del movimento democratico cristiano internazionale, che ha mostrato come l’antica religione dell’Occidente poteva adattarsi allo spirito politico moderno. Laicità è dunque essenzialmente parità di condizioni, ossia un sistema che non abbia verità politiche preconfezionate – come ha recentemente insegnato il cardinale Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, intellettuale certo di parte ma di universale considerazione - ma che tuttavia permetta a tutti i cittadini, all’occorrenza, di condividere una cultura giuridica basata su valori indiscutibili, che sono le stesse condizioni di esercizio dei diritti. Perciò i cittadini si rispettano tra loro perché portatori dei medesimi diritti, indipendentemente da come li esercitano, purchè non vadano contro le condizioni che li determinano. Questi sono i diritti naturali (di parola, di pensiero, di religione, di coscienza, di movimento, di scelta delle condizioni di vita e soprattutto il diritto alla vita stessa e all’integrità della persona), che non possono essere oggetto di dibattito, e per la cui tutela dunque le modalità di esercizio delle libertà individuali possono essere sanzionate e contestate, mai però con mezzi che deprimano la dignità dell’individuo (per esempio la libertà di parola non legittima all’insulto, e nessuno potrebbe tuttavia sanzionare quest’ultimo con il taglio della lingua). Tali diritti sono essi normativi per la libertà, che esiste per esercitarli, e non per violarli. Perciò il diritto è tale in chi lo esercita ed è dovere in chi lo rispetta. Il limite delle azioni umane non è la possibilità di compierle, ma la loro corrispondenza ai criteri di ragione, legati alle caratteristiche della natura umana. Ossia, appunto, ciò significa che la laicità non ha una politica preconcetta, ma ha un’etica condivisa. Purtroppo se tutti concordano sull’idea di diritti dell’uomo, molti rigettano il concetto di diritto naturale, e parecchi punti sono stati o sono controversi. Per esempio molte formulazioni della Declaration des droits de l’Homme et du citoyen risentono della mentalità dell’epoca e sono assolutamente insufficienti per la mentalità moderna; alcuni principi della Costituzione dell’Anno III a posteriori sono risultati demagogici, mentre altri di quella dell’Anno V sono risultati eccessivamente retrivi. I sovietici non hanno mai accettato l’idea che la proprietà privata fosse un diritto, e il marxismo in genere aveva una filosofia del diritto di classe completamente diversa da quella dell’Occidente. Oggi, sopravvissuti solo i principi delle democrazie parlamentari, il dibattito ferve sul concetto di libertà, o sul diritto alla vita, investendo questioni controverse come aborto, eutanasia et similia. Tuttavia è chiaro che il fondamento della libertà sta nei diritti umani, che essi si identificano per via di ragione e che non si mettono in discussione. La fondazione dei diritti è il grande tema della filosofia politica contemporanea, reso drammatico dall’esperienza pregressa dei totalitarismi e dal loro perdurare in vaste regioni, ma anche dalla sopravvivenza di profonde discriminazioni tra i popoli, che spostano il dibattito dall’interno delle comunità politiche al loro esterno, in relazione alla comunità umana in quanto tale. Tale indagine è ancor più ardua per la necessità di storicizzarne l’oggetto, consapevole che esso ha subito modifiche e trasformazioni nelle varie culture, che non possono essere liquidate con un metro di maggiore o minore barbarie. E’ dunque un tema non meno cruciale della fondazione della conoscenza che occupò la filosofia da Cartesio a Kant. Ed è evidente che nessuna delle posizioni prese sull’argomento può essere per principio discriminata. Diversi possono essere i presupposti e i metodi del discorso sui diritti, ma l’accettazione comune delle modalità del discorso stesso lo rendono patrimonio dell’uomo, e quindi conquista acquisita. Il tempo probabilmente darà all’umanità una visione unitaria sui temi caldi indicati. Questa sola è l’autentica laicità della comunità umana, che in subordine diventa dello Stato e quindi della politica. Ciò non vuol dire che adesso la giurisprudenza non possa sposare una tesi su questi temi: significa solo che nessuna di esse escluda per principio la professione di una diversa in quanto incompatibile con il senso della laicità. E così, per esempio, gli Stati possono permettere o proibire l’aborto, e chiaramente solo una delle due posizioni sarà coerente col diritto naturale e dimostrabile per ragione, ma nessuno che sostenga una posizione minoritaria in subiecta materia potrebbe essere considerato non laico per il semplice fatto di sostenerla. La laicità, infatti, non è un principio di giurisprudenza e tantomeno politico, ma una condizione di convivenza. Condizione che investe una sfera più vasta e generale del diritto e della politica, e che riguarda appunto il fondamento della convivenza umana. Chi ne fa un principio giuridico-politico lo trasforma in un principio confessionale. Confessionalismo non è infatti solo la professione di una fede politica immutabile, che può essere un totalitarismo che risolve nello Stato o nel Partito o nella Classe la sostanza etica della società e dell’individuo; confessionalismo non è solo la commistione tra Stato e religione nel modello classico o – per citare un esempio afferente ad una cultura diversa dalla nostra – nella Umma musulmana e in particolare nelle cosiddette Repubbliche islamiche: confessionalismo è la fondazione della politica su una giurisprudenza a sua volta basata su principi non razionalizzabili ma presupposti come veri – possono essere religiosi come accade nella Sharija o nella Torah , ma anche culturali come avviene nella visione laicista della comunità umana – e indiscutibili. Tutto ciò è incompatibile con la laicità così come noi l’abbiamo elaborata. Coloro che se ne proclamano i maggiori difensori ne sono i primi deformatori. Non a caso spesso inventano di sana pianta rivendicazioni frutto del costume e li spacciano come diritti dell’uomo (come la complessa questione delle coppie di fatto e di quelle omosessuali). E’ lo stesso sviluppo storico della laicità che mostra il debito che essa ha con il Cristianesimo, a dispetto dei giacobini di casa nostra. Faccio qualche rilievo. La cultura classica non conosce laicità, come non l’aveva conosciuta la tradizione anteriore: il nòmos di ogni popolo implica una religione tradizionale, il cui pantheon svolge un ruolo fondativo rispetto alla stessa comunità socio-politica. L’arco lungo il quale si dispiegano gli esiti di questa commistione strutturale tra Stato e religione – che è cosa diversa da quella tra Stato e Chiesa – è ampio e va dalla teocrazia faraonica o ellenistica alla funzione mediativa del monarca tra gli uomini e gli dei della tradizione mesopotamica – passata in quella biblica – e contempla casi di ierocrazie (come quelli delle più antiche forme di autogoverno cittadino in Sumer o in Giuda ai tempi dei Maccabei), ma tutte hanno un presupposto comune: non esiste una specifica comunità religiosa, e tantomeno fuori di quella civile. Essa svolge una funzione anche spirituale attraverso quei corpi sociali che sovrintendono al culto, e che hanno come vertice lo stesso dello Stato. Questo è sostanzialmente presente nella tradizione indoeuropea, dagli Hittiti agli Achei ai Greci classici fino a Roma, che sperimenta varie forme di questa commistione, deificando se stessa, assegnando ai propri maggiori politici onori divini postumi, glorificando il Genio dei suoi imperatori e infine elevandoli al rango di comites divorum fino a farne delle divinità in terra. Certo è che la religio soggiace al diritto pubblico, e quello che noi oggi chiameremo disciplina ecclesiastica è una branca della legislazione statale. L’avvento del Cristianesimo introduce nel dibattito il concetto di Chiesa, ossia di comunità religiosa organizzata, ma fino alla riforma gregoriana dell’XI sec. il paradigma della commistione sopravvive, nella forma che contamina Stato e Chiesa, sia per la teocrazia bizantina, che influenza quella carolingia e la ottoniano-salica, sia –almeno in Occidente – per l’imbarbarimento della cultura, che non riesce a giungere a distinzioni sottili sulla differente consistenza ontologica dei due corpi sociali in questione. Sarà proprio l’orgogliosa autoaffermazione della Chiesa come organismo separato e tendente all’egemonia a rendere possibile questa distinzione teorica: essa è una comunità soprannaturale, che abbraccia al suo interno tutti i cristiani, che temporalmente si configurano come una Christianitas, ossia una Umanità il cui vincolo è nel battesimo e che distingue al suo interno i vari Stati propriamente detti, gerarchicamente disposti attorno all’Impero. Questo evento della storia della cultura rende l’Occidente capace di distinguere, sia pure in un ordine gerarchico, la comunità politica da quella religiosa. Qui nasce la laicità dello Stato, inteso come realtà comune, e quindi di tutti, perché è del laòs, il popolo, in contrapposizione con la clericalità della Chiesa, come realtà separata, affidata al kleros, la parte scelta. Ed è doveroso ricordare che tale distinzione è fatta dalla Chiesa per salvaguardare la propria specificità e libertà. Ossia nasce non contro, ma per la libertas Ecclesiae. La laicità non solo è dunque un concetto cristiano, ma di un Cristianesimo ecclesiastico, romano, che mira a distinguere le due comunità, proprio per garantire quella religiosa. Essa rettamente esaminata è strettamente favorevole alla religione. Anche la cosiddetta teocrazia papale si regge sulla distinzione dei due poteri, sia pure in seno ad una rigida struttura gerarchica che pone al vertice l’auctoritas sacrata pontificum. La Riforma, con la soggezione della Chiesa al Principe e col suo minimalismo gerarchico nell’organizzazione ecclesiastica, fa rientrare nella storia d’Europa la tendenza cesaropapista del mondo bizantino, evolvendola verso il giurisdizionalismo tipico dell’Antico Regime e che avrà in Italia rappresentanti tipici in Paolo Sarpi e Pietro Giannone, ma che già si era preparato nel dibattito filosofico-politico della Tarda Scolastica, con Ockham, Marsilio da Padova e Jean de Jandun. La Controriforma, con le sue guerre inutili tra confessioni cristiane diverse, spinse a quella mutua inter christianos tolerantia che costituì il presupposto per la coesistenza dapprima di Stati con religioni diverse, in cui valesse il principio del cuius regio eius et religio, e poi per il graduale processo di emancipazione della cultura giuridica di ciascuno Stato dai principi religiosi, mediante il riconoscimento della libertà di coscienza e poi di religione. Alla distinzione ontologica tra Stato e Chiesa e a quella giuridica inter utrumque ius, subentrò così quella tra etica civile ed etica religiosa, per cui le sfere di competenza dell’autorità laica ed ecclesiastica si separarono. Mentre nella concezione tradizionale la libertà era una facoltà che veniva valutata in base al modo in cui era esercitata, in quella nuova va salvaguardata anzitutto la possibilità di esercitarla. Questo non è in contrasto con l’essenza dogmatica del Cristianesimo, compresa la sua forma ecclesiastica – prova ne sia che la stessa autorità pontificia ha, nel diritto canonico medievale, due limiti: la legge divina e la coscienza individuale – solo che mai nella storia precedentemente era stata teorizzata, per cui il Cristianesimo stesso si era sviluppato in un mondo senza questo concetto. Anzi esso soprattutto aveva, nella riflessione patristica e scolastica, posto l’accento sull’importanza della libertà, anche se in vista del suo retto uso, essendo essa vulnerata dal peccato originale. Un apporto significativo tuttavia venne sul tema della laicità dall’Illuminismo. Esso, almeno in alcune sue componenti, condì l’anticlericalismo insito nel giurisdizionalismo - per esempio nella sua forma giuseppinista - di anticristianesimo, sia nella forma deista alla Voltaire sia in quella materialista atea alla Helvetius, culminata nella violenza persecutrice del Giacobinismo francese, già preparata dallo scisma imposto alla Chiesa dalla Costituzione Civile del Clero. Tuttavia forgiò un concetto di laicità che, pur avendo sostanzialmente un presupposto agnostico, costituì un caposaldo intellettuale con cui tutti dovettero misurarsi, o per censurarlo – come i conservatori o i reazionari, il cui spirito è stato ben divinato da pensatori come De Maistre o Chateaubriand, e dalle cosiddette encicliche antirisorgimentali, la Ecclesiam a Jesu Christo di Pio VII, la Ubi Primum e la Quo graviora malo di Leone XII, la Traditi Humilitati Nostrae di Pio VIII, fino alle due più nette condanne della Mirari Vos di Gregorio XVI e della Quanta Cura di Pio IX, a cui fu annesso il più celebre Syllabus Errorum – o per correggerlo – come avvenne negli ambienti cattolico-liberali, raggrumati attorno a pensatori come Lamennais, Rosmini, Gioberti, e riscattati dal magistero di Leone XIII con encicliche del calibro della Immortale Dei Consilio, Libertas Prestantissimum, Graves de Communi Re, ecc.- ma che nessuno potè più ignorare. Al concetto di laicità più genuinamente illuminista, in cui l’elemento massonico, agnostico o ateo, faceva sviluppare una tendenza discriminazionista nei confronti di tutto ciò che non è esso stesso laico, si andò sostituendo, non senza contrasti, una laicità basata sulla pari dignità giuridica di tutte le scelte individuali e collettive. La Chiesa coonestò questa laicità neutra con il concetto già menzionato di diritto naturale di estrazione tomista, che creava un baluardo alla dissoluzione dell’etica sociale impostata dal liberalismo estremo alla Stirner, in quanto individuava una serie di norme scopribili dalla ragione e quindi condivisibili da chiunque. Baluardo ancora più efficace se consideriamo che gli stessi diritti della persona, che presuppongono e motivano l’esercizio della libertà stessa, vengono fondati su questa filosofia giuridica. Ed è con questo formidabile strumento teorico che i cristiani in genere, e non solo i cattolici, si sono attrezzati per la competizione politica democratica nelle società moderne, arrivando a creare partiti che sono stati a lungo al potere in tantissimi Stati e che hanno perfettamente garantito le libertà costituzionali. Salvaguardia del diritto naturale e attenzione ai problemi sociali sono stati i due pilastri della democrazia d’ispirazione cristiana, che dunque ha dato della laicità dello Stato una nuova e proficua interpretazione. Alla luce di quanto detto, l’idea della inconciliabilità tra fede e laicità appare non solo meschina e infondata, ma stantia. Coloro che hanno a cuore la genuina tradizione della autonomia delle sfere temporale e spirituale tra loro hanno il dovere di difendere la retta interpretazione della laicità, perché la pacifica e proficua convivenza di tutte le culture sia realmente garantita in un momento di gravissima confusione. Theorèin - Marzo 2006 |