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Può il mondo stringersi commosso attorno ai primi ottant’anni di un dittatore? Sicuramente no. Ma siccome il filtro del conformismo è particolarmente forte in Italia, dove alcune forze pressochè reazionarie nella custodia dell’idea rivoluzionaria esercitano spesso un monopolio intellettuale fuori luogo e sproporzionato alle loro modeste risorse culturali, è bene ricordare perché non c’è niente di cui gioire per il prolungarsi della sopravvivenza del regime castrista. Il barbuto rivoluzionario, a torto divenuto simbolo dell’emancipazione dei popoli poveri latinoamericani, ma che invece, in nome della mitologia socialista e per garantire la propria impunità, ha fatto di Cuba un’enorme casa di tolleranza per Occidentali e un deposito inesauribile di sostanze stupefacenti, prese sì il potere al sanguinario Fulgencio Batista – di cui nessuno sente la nostalgia – ma non volle mai sottoporlo alla conferma dell’elettorato. Dal 1959 ad oggi, sebbene la popolazione locale sia esigua, Fidel Castro è riuscito a realizzare su di essa periodiche purghe di tipo staliniano, servendosi della “Gestapo rossa” – definizione cubana – il DSE, mediante la tortura e l’eliminazione fisica dei suoi oppositori, la persecuzione violenta della Chiesa cattolica, la deportazione da un capo all’altro del Paese dei gruppi etnici minoritari identificati con elementi reazionari perché irriducibili al patriottismo di tipo sovietico su cui voleva ricostruire l’identità nazionale, e persino mediante l’istituzione dei campi di concentramento, in cui i detenuti sono ridotti in schiavitù, torturati, denutriti e uccisi. Nel 1978 c’erano 15-20000 prigionieri politici, nel 1986 12-15000, nel 1997 erano ancora 2500. Dal 1959 più di 100000 cubani sono stati internati, e 17000 fucilati. Con una tecnica consolidata nei regimi marxisti, il Lider maximo ha periodicamente eliminato i quadri di partito e dell’esercito, garantendo una turnazione fisica che non intaccasse l’immutabilità del suo dominio, da lui ora perpetuato in famiglia sull’esempio della Corea del Nord. Ha realizzato il genocidio culturale del suo popolo eliminando il grosso delle sue radici ispano-americane e sostituendole con una paccottiglia marxista-leninista della quale non è neanche in grado di comprendere gli aspetti più sofisticati in quanto privo di una vera formazione filosofica. L’ha imposta con mezzi a volte violenti e a volte gretti, come la soppressione delle feste religiose, ma certo mai originali, e ancora oggi scheda sistematicamente i suoi connazionali e ne infiltra le Chiese e ne sonda subdolamente le opinioni con la DEM, la direzione speciale del Ministero degli Interni. Ha condannato il paese alla fame perpetua, non solo per il suo rifiuto di trattare con gli USA – i cui aiuti economici avrebbero dato respiro al suo regime come hanno fatto, sia pure in ben altre condizioni di partnership, con la Cina – ma per la solita, forsennata e disastrosa politica agraria marxista con le sue collettivizzazioni e le conseguenti carestie, per la sua sciocca aggressività che ha portato il mondo sull’orlo della guerra mondiale quando accettò di ospitare missili sovietici sull’isola e che lo ha esposto all’asfissiante embargo americano, e per la sua fedeltà ottusa all’economia socialista ancora oggi: quella fedeltà che ben gli portava quando barattava la canna da zucchero col petrolio sovietico – causando l’impoverimento dei malcapitati partner commerciali – e che oggi passa attraverso l’ignominiosa pratica del turismo sessuale che fa affluire valuta pregiata nel Paese. Ha incoraggiato l’esodo dei centinaia di migliaia di cubani, disgustati dal suo regime – sebbene fossero soprattutto proletari – e che non poteva controllare. Ha creato un culto della personalità che ancora oggi lo presenta infallibile, con una maschera da prim’attore che cela la realtà di una personalità distorta che da anni recita a monologhi senza neppure le comparse. Oggi infatti circola la balla del suo riavvicinamento alla religione grazie ai suoi teologi di corte, come Boff e Frei Betto. In un paese in cui la responsabilità penale è collettiva, in cui i prigionieri sono in gabbie di ferro, in cui le detenute sono violentate sistematicamente, in cui i reclusi sono la principale forza lavoro, la sopravvivenza fisica del leader è la condizione per la perpetuazione dell’orrore. C’è da auspicare un rapido trapasso di Fidel, che certo sarà meno doloroso di quello delle vittime da lui fatte. Theorèin - Novembre 2006 |