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Nel 1976 moriva l’ultimo imperatore, Mao Zedong. A trent’anni dalla sua scomparsa la Cina e il mondo sono profondamente cambiati, ma la coscienza collettiva ancora non riesce a fare i conti con il suo disastroso lascito, e il suo fantasma vaga, in attesa di essere esorcizzato, dalle campagne sperdute della profonda Cina – che ancora paga con i suoi squilibri il suo tributo alla politica visionaria dello statista comunista – fino ai salotti buoni dell’Occidente – che ancora amano condire il loro vago progressismo con una punta di egualitarismo estremo. Mao è l’ultimo dei tre grandi tiranni del XX secolo che non è stato ancora demitizzato, sebbene abbia ampliato il solco della criminalità tracciata da Hitler e Stalin. Egli entrò in contrasto armato con Chiang Kai-Shek già dal 1930, mirando entrambi ad impadronirsi della Repubblica, proclamata nel 1911. Nel 1934-35 Mao e i suoi fuggirono nella Cina occidentale con la “Lunga Marcia”, mito dietro cui si nasconde una fuga senza progetti e una collettivizzazione barbara imposta a contadini definiti possidenti spesso solo per qualche appezzamento di terra di loro proprietà. Alleatisi contro i Giapponesi invasori nel 1937, Mao e Chiang ripresero a combattersi nel 1946. Nel ’49 Chiang fuggì nell’isola di Taiwan, dove fondò la Repubblica della Cina nazionalista, ancora esistente, sotto la protezione americana. Mao, che sarebbe restato al potere fino alla morte, adattò il comunismo alla situazione cinese, dominata da un’agricoltura arretrata e quindi ancor meno adatto della Russia alla rivoluzione proletaria. Il Mao Tse-Tung pensiero, incautamente ancora oggi esaltato, è sicuramente il punto più basso della degenerazione dogmatica e distorta del discutibile ma complesso e sofisticato sistema marxiano, già ammorbato dal leninismo e imbastardito dallo stalinismo. La prassi di governo maoista fu fedele alla prassi stalinista, che elevò all’ennesima potenza. Accanto ai lager e ai gulag i laogai, i campi di concentramento cinesi, furono il più grande sistema detentivo del XX secolo, dove perirono fino a 40 milioni di persone, sui 200-400 milioni che vi transitarono. Nel 1950 Mao invase il pacifico Tibet, governato dai sacerdoti lamaisti, avviando un genocidio etnico e culturale che dura ancora oggi nella colpevole indifferenza generale. Le scelte di Mao furono pressoché tutte fallimentari: incurante delle catastrofi delle politiche agricole leninista e stalinista, le emulò e con la sua riforma agraria e con il tentativo di industrializzare a fondo la Cina (“Grande Balzo”) nel folle sogno di eguagliare la produttività inglese, provocò dal 1956 al 1961 oltre 50 milioni di vittime. Inaugurata una linea di maggiore libertà (“I Cento Fiori”, 1956), Mao la liquidò quando vide che metteva in discussione il suo potere autocratico e il monopolio politico del Partito in cui egli si identificava, e ruppe con Mosca che aveva rinnegato Stalin. Messo in disparte dai comunisti riformatori di Liu Shao-Qi, Mao avviò, con l’appoggio dell’esercito guidato da Lin Piao, la Rivoluzione Culturale (1966-1971), in cui le giovani guardie rosse, indottrinate dal Libretto Rosso del fondatore, devastarono ogni struttura tradizionale della Cina, e facendo milioni di morti, e altre decine di milioni di vittime psicologiche. Il mito conseguente della Rivoluzione Permanente, idolo ideologico della distruzione perpetua, che tanta devastazione intellettuale e politica ha portato anche in Occidente, criticando per principio il passato, fu una giustificazione teorica della feroce lotta per il potere. Essa, congiunta alla demagogia della Lunga Marcia, contribuì ad accendere la vampata del terrorismo rosso dell’Occidente, mascherato da guerriglia urbana. Tuttavia i riformatori cinesi ripresero ben presto l’iniziativa, e Lin Piao fu ucciso (1971). Alla morte del dittatore (1976) prese il potere Deng Hsiao-Ping, che aprì la Cina all’inziativa privata in campo economico, accettando anche investimenti stranieri. Il comunismo cinese è divenuto così un guscio ideologico vuoto e dispotico, che ha di fatto abbracciato la logica del capitalismo (“Economia socialista di mercato”), ma ha schiacciato le forze democratiche (Strage di Tien An-Men, 1989), ligio alla peggiore memoria del fondatore della Repubblica popolare, ancora oggetto di venerazione mummificato nel mausoleo davanti alla Città Proibita. Il regime ancora rifiuta una collaborazione per indagare sulla reale portata dei crimini maoisti, e quel che è peggio è che ancora adesso il mondo, impressionato dalla potenza produttiva cinese – destinata a superare senz’altro a breve gli USA e peraltro nata solo dal capovolgimento dei principi maoisti – invece che cercare di esportare diritti, importa merci. E così ancora oggi i nostri telegiornali devono rapportare gli arresti di vescovi, preti e fedeli cattolici – per tacere di altri perseguitati. Le frontiere della libertà passano per l’abbattimento dell’ultimo Moloch, dagli occhi a mandorla. Theorèin - Novembre 2006 |