|
Una riflessione sul trentennale dell’aborto Nel trentennale della promulgazione della legge sull’interruzione di gravidanza, fervono in Italia i dibattiti e i bilanci, per cui buona parte dell’intellighenzjia, del mondo politico e di quello ecclesiastico si è coinvolta in una querelle sulla necessità o meno di modificarla, di abolirla, di applicarla meglio. Sullo sfondo l’eterno dibattito: è migliore l’Italia in cui si abortisce a norma di legge, o quella in cui lo si faceva di nascosto? Quelle che seguono sono brevi riflessioni di un cattolico antiabortista, per il quale il nodo rimane sempre e solo questo: è vera vita la fase prenatale dell’esistenza umana? Se lo è, nessuna considerazione può legittimare la 194, né alcun’altra legge sull’aborto di tutto il mondo. Se non lo è, nessuna considerazione può intaccare il valore della conquista della libertà di abortire. Non si tratta di litigare sul fatto che si possa o meno abortire. Bisogna interrogarsi se si debba o meno farlo. La questione antropologica La domanda sulla liceità dell’aborto è diversa da quella sulla sua legalità. Una possibilità legale non annulla la problematica morale che la sottende. L’aborto si basa sull’antico principio, oggi più presupposto che tematizzato, per cui l’embrione e il feto siano pars corporis matris, siano materia organica, ma non persona, ossia non una realtà sussistente in sé, in quanto simbiotica – se non addirittura parassitaria – dell’organismo che lo gesta, ossia quello della madre appunto. Se accettiamo questa concezione, peraltro a volte sostenuta anche da illustri teologi medievali, è impossibile non arrivare a ritenere lecito l’aborto. Esso non è più un omicidio, ma la soppressione di un organismo umano incompleto e non autosufficiente. E a chi obietta, da questa posizione, che l’aborto andrebbe proibito perché potrebbe uccidere un uomo, si può rispondere che va mantenuto perché tale dubbio non può essere alla base dell’attribuzione di una colpa: in dubio pro reo. E’ su questo principio non detto, su questo argumentum in silentia che la bioetica laica e la filosofia che la sostiene può invocare l’autodeterminazione della donna in materia di aborto, il pluralismo di opzioni operative di fatto in relazione alla prosecuzione o meno della gestazione e la copertura delle stesse da un impianto legislativo permissivo e tollerante in materia. Se è vero che il mondo moderno è pieno di idee cristiane impazzite, allora l’abortismo è anch’esso la filiazione post-cristiana della cultura cattolica scolastico-medievale. La teologia cattolica tradizionale, non avendo mai puntualizzato il momento dell’ominizzazione, ossia quello in cui il Creatore infonde l’anima nella materia corporea, creando la vita umana, ha giustificato la prudenza del non – uccidere, ma non ha fornito una base solida all’etica della difesa della vita, in quanto non sapeva dire quando la vita cominciasse. Questa incertezza teologica, una volta che la secolarizzazione si è diffusa, non ha avuto obiettivamente la forza di imporsi alla giurisprudenza, specie se laica, per vietare la legalizzazione dell’aborto. E così, sebbene sin dai tempi della Didakè nel I sec. la Chiesa condannasse aborto e infanticidio, la cultura teologica medievale non ha saputo ben supportare l’antico principio antiabortista, e ha creato i presupposti per cui, nel mondo odierno, esso potesse essere legale. Oggi il magistero ecclesiastico, ben agganciato ai moderni sviluppi della biologia, con maggior energia difende l’idea dell’inizio della vita personale dal primo istante del concepimento, e pur non avendo definito dogmaticamente il momento dell’ominizzazione, ne ha fatto un elemento incontestato del suo insegnamento ordinario, asserendo anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica che l’anima incontra il corpo nel vincolo sussistente della persona individuale subito dopo la fecondazione dell’ovulo. Per cui l’antropologia teologica oggi ha un basamento solido per tentare la riconquista giuridica della normativa sulla tutela della gravidanza. Ma il mondo di oggi non è solo cattolico o cristiano, e l’argomentazione teologica deve tradursi in un linguaggio atto a persuadere anche i laici. Deve cioè esplicitare il suo fondamento filosofico. Ma questo, oggi, non è più di matrice metafisica, ma soprattutto epistemologica: deve cioè tesaurizzare il dato obiettivo che gli viene dalla scienza biologica. Questa in effetti non dà alcun dubbio nell’evidenziare che, dalla fecondazione dell’ovulo alla morte, non vi è soluzione di continuità nella vita dell’uomo. Per cui la soppressione dell’embrione o del feto è, senz’altro, soppressione di una vita umana, la cui sussistenza si identifica con il patrimonio genetico, presente sempre uguale dall’inizio alla fine. Ma questa vita è persona? Ossia ha uno statuto biologico e quindi antropologico suo proprio, autonomo, per cui la sua distruzione è omi-cidio? A mio avviso, sicuramente sì. Le fasi primordiali dell’esistenza umana pongono mano alla costituzione di tutti gli aspetti, sia vegetativi che sensitivi, della vita individuale, fino a culminare nella costituzione della sua natura intellettuale ed emotiva. Sono dunque le tappe della formazione progressiva della persona umana, ma nessuna di esse le è anteriore: tutto ciò che l’uomo sarà nella sua fase compiuta, già è presente nel patrimonio genetico, che è solo del singolo, dell’individuo, ossia della persona umana. La vita simbiotica del nascituro con la madre implica la sua non autosufficienza biologica, ma non si configura né come parassitismo né come fusione totale: nessuno può negare che le reazioni vegetative, sensitive e persino emotive del feto siano autonome. Alla vigilia della nascita compaiono già definite funzioni intellettive autonome. Ossia personali. La madre lo ospita. Se essa non è un contenitore del figlio – ossia non è subordinata ad esso ontologicamente – il figlio non è una sua appendice. Appare perciò insostenibile, da un punto di vista antropologico, che la pratica abortista si basi sulla non –personalità del nascituro. Né tantomeno che egli non sia soggetto vivente, ma solo materia organica. La moderna empiriologia, temperata dal tradizionale sapere scolastico – specie nella rilettura fattane da Maritain- dà ad esso ragioni nuove e forti per asserire la personalità del nascituro: un embrione o un feto non sono una potentia essendi, ma un actus essendi. Essi possono dare e ricevere. Se perciò è comprensibile che una madre, la cui vita sia messa in pericolo da un parto, scelga, per sopravvivere, di abortire per difendere la sua esistenza, è inaccettabile che un nascituro si uccida per qualunque altra ragione: è una persona umana, portatrice del diritto inalienabile di vivere, diritto pre-giuridico, ma sicuramente morale. La bioetica d’ispirazione non religiosa non può ignorare questa questione, e ben si ravvisa, in essa, il terreno di un fecondo incontro tra le due visioni morali opposte, alla luce dei principi di conciliazione teorizzati da Beauchamp e Childress. La tutela di una persona biologica, infatti, è un gesto di beneficenza, di non-malevolenza e di giustizia; essa non esige la violazione dell’autonomia decisionale del soggetto, ma piuttosto sprona a far sì che la gestante, portatrice di una duplice responsabilità, per sé e per il nascituro, sia motivata a proseguire la gravidanza. Questa duplice responsabilità della gestante non è la prova della mancanza del diritto all’autodeterminazione del nascituro, ma piuttosto significa che solo tramite la madre il figlio può espletare la sua scelta. Se, come ha insegnato magistralmente Levinas, ogni persona è fenomenologicamente un volto il cui mostrarsi è appello etico per i suoi simili, nella condizione singolarissima di vita del nascituro tale appello è rivolto solo ed esclusivamente alla madre in modo diretto, e solo tramite essa a tutto il mondo degli uomini. Ma è pur sempre un appello etico, anzi il più antico di tutti. E’ l’appello di venire alla vita, di farsi heideggerianamente gettare nel mondo come progetto, di costituirsi, secondo la lezione di Jaspers, in una situazione – limite come il vivere, che non può essere arbitrariamente negato se non come una violenza. E’ cioè la prova estrema e più eloquente della valenza esistenziale della condizione del non-nato, ossia della sua personalità. Nel tutelarla la donna di oggi è chiamata a vivere la forma più alta di etica della responsabilità verso i posteri teorizzata da Hans Jonas: la tutela del proprio immediato epigono, di colui che porta l’impronta della propria sostanza genetica: il figlio. In quest’ottica non si tratta di abolire, applicare meglio, modificare o confermare le leggi sull’aborto, ma di modificare la mentalità che le rende necessarie. La questione giuridica Il diritto può prescindere dall’etica? Può considerarsi legittima la legislazione che non tenga in conto il diritto alla vita dei non-nati? E’ questo un tema controverso e complesso, che certo non può essere esaurito in questa sede, e tantomeno in modo soddisfacente per tutti. Tuttavia partendo dal presupposto dell’umanità e della personalità del nascituro, ci si può porre un quesito di ambito più circoscritto: è giusto negare ad esso la garanzia giuridica? Fino a che il ventre materno è stato considerato solo una parte del corpo della donna, giustamente si è lasciata libera la scelta di disporre di tutto quello che vi era contenuto. La questione principale era al massimo tutelare la salute della donna, evitando gli aborti clandestini, per cui l’interna corporis matris diventava un fatto giuridico solo per la sua implicazione igienica, bisognosa di una disciplina pubblica. In effetti, la legislazione tradizionale, contraria all’aborto ma priva di qualsiasi garanzia dei diritti del non-nato, aveva una contraddizione di fondo: vietava l’aborto come omicidio, ma non riconosceva a nessun fine la personalità del nascituro. Si basava sull’egemonia della morale cristiana nel senso comune: scomparsa l’egemonia, venne meno anche la legislazione. Oggi tuttavia una rifondazione personalistica del diritto, specie in subiecta materia, appare congrua con le scoperte biologiche e quindi opportuna proprio per estendere quella sfera dei diritti civili che surrettiziamente viene invocata per legittimare l’interruzione di gravidanza. Alla base vi è anzitutto un equivoco da chiarire: non è tanto il pluralismo etico moderno e post-moderno che non permette di abolire l’aborto, ma è piuttosto la finta reductio ad unum della concezione del diritto. Non esiste una sola concezione del diritto; è in quella oggi in voga che si ravvisa la possibilità di abortire. Se l’oggetto della discussione non fosse lo statuto morale – e quindi giuridico – dell’aborto, ma la concezione giuridica in sé, allora la faccenda avrebbe tutt’un altro aspetto. Di fronte alla mentalità dominante, che fa della giurisprudenza una filiazione del solo realismo giuridico, per cui il diritto sorge per convenienza, o del positivismo giuridico, per cui iustum quia iussum, s’innalza l’idolo dell’intoccabilità dell’aborto. Ma quando Kelsen, nell’ultima lezione pubblica il 17 maggio 1952 confessò di non aver saputo, lui come tutti gli altri filosofi del diritto, definire la giustizia, pose sul piatto il problema fondamentale anche per una questione come quella dell’aborto: la giurisprudenza non può sancire la liceità dell’interruzione di gravidanza, semplicemente perché tale azione investe sfere ben più ampie di quella in cui opera la giurisprudenza stessa. Essa, che si muove sul terreno delle relazioni tra gli uomini, non può stabilire chi sia persona umana. Essa, che vuole garantire e porre i diritti civili, non può negarli a chi è umano. Essa, se pretende che i diritti siano solo un suo portato, non può trascurare quelli che, pur non essendo giuridici, esistono di per se stessi. In poche parole: nessun realismo o positivismo giuridico può negare al non –nato la qualifica biologica di persona umana; qualora tale qualifica fosse acquisita dalla scienza, anche il non-nato acquisirebbe i diritti creati dalla comunità, primo tra tutti quello di vivere; se poi dovessimo riconoscere che determinati diritti fondamentali – e quello a vivere lo è in assoluto – esistono indipendentemente dalla loro formulazione giuridica – ossia anche dove sono negati – allora dovremmo riconoscerli anche nel nostro ordinamento. Ritorna cioè l’eterno tema del giusnaturalismo. I diritti naturali non sono inventati dall’uomo, e quindi non possono essere negati dalla sua legislazione, pena lo sconfinamento nella tirannia. Il non – nato ha, in fondo, un solo diritto suo proprio, che esplica senza la mediazione materna: quello di venire al mondo. Negargli la personalità giuridica, e con questo credere di aver risolto il problema della legalità dell’aborto, significa aver capovolto i termini della questione. Non interrogarsi sul fatto che gli aborti nel mondo si contano ogni anno a decine di milioni, perché la legge li permette, o perché così si evita la morte della madre in eventuali interventi clandestini, significa non aver inteso che la legislazione ha di fatto compiuto un arbitrio tale da creare il più grande genocidio della storia umana. L’aborto non è un diritto civile, perché si basa sulla libertà di scelta a danno di un terzo; e questo non può essere o non essere destinato a nascere senza che tale disparità di scelta non implichi una schizofrenia morale e quindi legale. Ciò che per una donna è un diritto non può essere un sopruso per un’altra. Detto in parole povere: la donna non può scegliere di dare o non dare la vita, in quanto è la natura che sceglie per lei; può scegliere di non toglierla; ma il poterlo fare non significa che ne abbia il diritto. Può odiare una gravidanza, perché frutto di uno stupro, può temerla per una malattia trasmissibile al nascituro, e può perciò essere compresa nel desiderio di sopprimere il suo portato, e persino nell’atto di compierlo, ma non avrà mai il diritto di farlo, almeno non di più di quanto ne avrebbe di uccidere il suo violentatore o l’uomo che le ha contagiato una malattia (anzi forse in questi casi ne avrebbe di più, perché il nascituro è vittima anch’egli di tale gentaglia). Bisogna dire con forza che l’antiabortismo è una lotta per un diritto civile e più che civile: vivere. La questione politica Esiste una questione politica nell’aborto? Esso modifica la visione che si può avere della polis e del modo di reggerla? Certo la soppressione sistematica di centinaia di migliaia di individui che costituirebbero il ricambio generazionale della razza umana è un fatto tutt’altro che privato, anzi è sociale per eccellenza, dato che madre e figlio sono una comunità simbiotica, per la precisione l’unica comunità prodotta direttamente dalla natura, in quanto l’una genera l’altro in sé. Perciò l’aborto ha una valenza politica, e l’appaltare alla persona singola la scelta in questo caso è esso stesso un atto politico, un risultato che si è ottenuto attraverso atti politici, e che ha la conseguenza socio-politica di aver ridotto di cinquanta milioni di anime la popolazione del pianeta ogni anno negli ultimi decenni, senza che tale fatto sia stato considerato d’interesse pubblico, o senza che se ne vedessero le implicazioni diverse da quelle – sessantottine e postsessantottine – che hanno considerato l’interruzione di gravidanza come un corollario della lotta di liberazione della donna dal predominio maschile. Lungi dal rispettare una situazione oggettiva, l’aborto legale è oggi lo strascico del veterofemminismo che ha sostituito la lotta tra i sessi a quella di classe, o meglio ha integrato l’una con l’altra: per cui oggi un padre naturale non può mettere bocca nella scelta di interrompere una gestazione fatta dalla compagna, solo perché non ha gestazione in corpore. Come se la generazione fosse un fatto solo femminile, e la gestazione stessa la totalità di essa e non solo una parte, anche se la più significativa. In quest’ottica l’interruzione di gravidanza è una filiazione politica di quella particolare concezione del marxismo che convenzionalmente chiamiamo “Sessantotto”, e che ha avuto nella “liberazione sessuale” il suo strumento di lotta più cospicuo e di successo. Ma il fallimento storico dell’esperienza politica marxiana, sia rivoluzionaria che riformista, non può non farci interrogare sul senso di questa lettura dei rapporti sociali e sulle sue conseguenze. Il socialismo post-moderno, sulle ceneri di Marx, non può non interrogarsi sulla sorte delle nuove vittime delle ingiustizie sociali, tra cui metto al primo posto i non-nati, a cui persino di venire alla luce viene negato, dal “disordine stabilito”. Eppure certo zapaterismo, privo ormai di lotte di classe e di rivoluzioni di pensiero da combattere e fomentare, ha fatto di questi temi, ormai per forza di cose datati, la trincea del proprio immobilismo, dietro cui nascondere una forte crisi di valori e quindi di identità. Dovrebbe colpire che le forme più avanzate di socialismo democratico, persino quelle laburiste anglosassoni, dove bassissimo è l’influsso ideologico marxiano, promuovano soluzioni in cui il tasso di aborti è proporzionalmente simile a quelle imposte brutalmente dall’ultimo grande dispotismo del mondo, quello cinese. Vogliamo essere partner di Pechino in questa gara di infanticidi? Ma l’ideologia abortista è proteiforme: l’individualismo sfrenato, stirneriano, della nostra epoca, lo ha legato alla vecchia concezione liberale, in particolare nella sua accezione di sinistra, quella radicale, oggi radical-chic. Adornianamente, la dialettica dell’Illuminismo e dei Diritti dell’Uomo si è incartata, dando alla donna la facoltà di uccidere in nome dell’autodeterminazione. A tutt’oggi tale diallelo non è stato ancora risolto, né mai lo sarà, fino a quando l’Uomo non avrà che diritti e nessun dovere. In questo vuoto ideologico l’unica visione che può tutelare i diritti del non-nato è una personalista, fondata saldamente su un umanesimo cristiano, capace di mettere l’uomo al centro del suo mondo. Da Mounier a Maritain, è una lezione che la democrazia post-moderna può far sua senza impoverirsi, ma arricchendosi. Meno politica e più diritti in una materia del genere ! La deideologizzazione dell’aborto è l’unica strada da percorrere per capire bene cos’è oggi questo trentennale. Solo con essa ci renderemo conto che l’interruzione di gravidanza non è una conquista, ma un’acquisizione, che può essere stata positiva o negativa. Non si tratta dunque di abolire una legge come la 194. Si tratta di capire se vale la pena o no di abortire, dando voce a chi, per crudeltà dei suoi simili, dalle tenebre dell’utero scende in quelle della morte, senza neanche il conforto di una tomba, senza neanche conservare l’integrità del proprio corpo mai messo in movimento. Theorèin - Giugno 2008 |