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Oggi il dibattito sulle frontiere dell’esistenza è acceso, perché l’uomo è in grado di controllare la nascita e la morte nelle sue modalità, e può perseguire l’ideale di determinarle secondo il proprio desiderio, respingendo o avvicinando l’una o l’altra a piacimento. Ma il groviglio che lega nell’universo vita e morte non è stato ancora scisso, e spesso una scelta per la prima implica l’altra. E solleva vari interrogativi. Molteplici sono gli approcci a tali quesiti, ma quelli che tra loro si escludono a vicenda per logica debbono essere o falsi o veri. Quello che segue è una riflessione sul tema della dolce morte, e sul posto che può avere nella vita dell’uomo, cercando di rispondere a tre interrogativi: COS’E’ L’EUTANASIA Dinanzi a gravi malattie degenerative e incurabili, che condannano i malcapitati che le contraggono a una fine obiettivamente orrenda, tutti istintivamente ci interroghiamo sul senso della vicenda che abbiamo di fronte, e tutti vorremmo, se potessimo, far guarire chi soffre, o almeno abbreviare le sue stesse sofferenze, affrettandone la morte. Non reagire così dinanzi al dolore altrui sarebbe disumano. Ma oggi sempre più spesso questo desiderio diviene un’azione, e quest’azione viene rivendicata come un diritto. Chiamiamo eutanasia l’atto per cui si provoca la fine della vita di un malato inguaribile o terminale o di un portatore di handicap fisico o mentale. E’ anche eutanasia qualsiasi azione (eutanasia attiva) o omissione (eutanasia passiva) che da sé o intenzionalmente provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore. L’eutanasia di cui più si discute è quella per pietà, in cui si distinguono un fattore soggettivo – la pietà appunto per il malato a cui si vogliono alleviare le pene senza fini utilitaristici– uno oggettivo – l’insanabilità della condizione morbosa e l’ineluttabilità della morte e delle sofferenze – e il momento esecutivo – l’impiego di mezzi che consentano una morte rapida. Ma altri tipi di eutanasia sono riconducibili al filone pietistico, anche se il soggetto che compatisce si identifica con la collettività e il compatito con la specie, con la comunità stessa o con un individuo singolo che però non è in condizione di autodeterminarsi. Abbiamo così l’eutanasia eugenica, con cui si eliminano i portatori di qualche tara psichica o somatica; quella utilitaria, che eliminano i soggetti di peso per la società e per se stessi (anziani e invalidi); quella criminale, che elimina coloro che sono socialmente pericolosi. Ognuna di queste tipologie ha in sé ragioni sufficienti per apparire valida. Tutte attingono ad una medesima linfa: l’idea che la vita in sé non valga la pena di essere vissuta se non corrisponda a determinati standard fisici e morali; tutte dipendono da un solo presupposto: che ci sia un’autorità che sia legittimata a fissare quegli standard e a far sì che chi non vi corrisponde venga eliminato. Ognuna delle eutanasie citate – tranne quella criminale - nella versione più soft è una eliminazione scelta dal singolo per se stesso, in quella più hard è una scelta pubblica fatta nell’interesse di tutti – condizione, questa, che è l’unica possibile per l’eutanasia criminale. Gli assertori dell’eutanasia per pietà sono tutti i fautori della dolce morte; molti di essi condividono quella eugenica identificando il tarato con un (potenziale) sofferente; alcuni già si spingono a rivendicare quella utilitaria come scelta individuale. Quella criminale è obiettivamente legata alla pena di morte, e apre scenari futuribili di rarefazioni metodologiche nella sua applicazione (al posto di una sedia elettrica un’iniezione di psicofarmaci che porta dal sonno al decesso). La pietà, variamente intesa, unisce queste forme di soppressione.
Accanto alla dolce morte c’è l’accanimento terapeutico, ossia la pratica di cure mediche onerose, pericolose, straordinarie e sproporzionate rispetto ai risultati ottenuti. Su di esso i moralisti, i giuristi e i politici sono tutti d’accordo nel dire che non è moralmente vincolante, e che può essere sospeso non per cercare la morte, ma accettandola come inevitabile. La decisione spetta ovviamente al paziente, o a chi lo rappresenta essendo egli impedito, nel rispetto dei suoi interessi e della sua volontà ragionevole. Le cure ordinarie sono legate all’esistenza stessa del malato, e lo devono accompagnare fino alla morte, anche quando è imminente. Ai malati terminali è lecita la somministrazione di analgesici, anche se favorisca la morte, quando questa è imminente: essa viene tollerata come inevitabile, ma non è di fatto ricercata. Anche su questa definizione etica sono d’accordo tutti gli esperti. Le cure palliative sono espressione di un aiuto disinteressato, e sono incoraggiabili. Posta questa premessa di definizioni, dobbiamo individuare i nodi etici, con le loro implicazioni giuridiche e la loro applicazione politica. MORALITA’ DELL’EUTANASIA La prima questione verte sulla distinzione tra eutanasia attiva e passiva. Per alcuni molte forme di eutanasia passiva altro non sono che sospensioni di accanimenti terapeutici. In tale prospettiva sarebbero accettabili. La seconda verte sulla distinzione tra accanimento terapeutico e terapia ordinaria, e quindi investe l’ambito in cui si possa legittimamente considerare onerosa, pericolosa, straordinaria o sproporzionata una cura. Va detto che, in virtù del progresso scientifico, le modalità mediante le quali è possibile mantenere in vita qualcuno sono oggi sempre più in crescita, per cui ciò che poteva essere oneroso o straordinario ieri, adesso è semplice e ordinario; peraltro il concetto stesso di naturalità della fine umana, spesso invocato da più parti per giustificare o avversare certe terapie, è stato profondamente modificato dalle tecnologie, che certo sono artificiali, cioè prodotte dall’uomo, ma che pure rientrano nella sua natura, essendo egli capace di modificare l’ambiente in cui si trova. In tale ottica, anche un vaccino è artificiale, ma ci si guarda bene dal ritenere che qualcuno possa rifiutarlo per non impedire alla natura di fare il suo corso. Il nodo più grave verte proprio su come considerare la nutrizione e la ventilazione: sono cure straordinarie quando richiedono macchine sofisticate e interventi invasivi, o sono sempre ordinarie? Che è come dire: è possibile abbandonare a se stessi malati che non possano più nutrirsi o respirare da soli, quando in ogni caso la loro patologia è irreversibile e la morte ineluttabile? La questione occupa il grosso del dibattito odierno, e non è certo questa la sede per risolverla. Ma non per questo mancheremo di fornire alcuni rilievi di fondo su tutte queste questioni. Il primo rilievo è di ordine morale. A costo di essere lapalissiani, rileviamo che l’uomo non si dà la vita, ma la riceve; rileviamo altresì che la vita è il bene primario, senza il quale nessun’altro può essere fruito: in un certo senso l’uomo non ha la vita, ma è la sua stessa vita. L’obbligo primordiale che egli ha verso l’esistenza altrui scaturisce dalla consapevolezza della somiglianza di quella con la propria, che istintivamente ognuno non solo vuole conservare, ma vuole che sia rispettata. Ma tale obbligo vincola anche ognuno a se stesso, perché l’istinto ancestrale che ci spinge a conservare la nostra vita altro non è che il nostro stesso dovere etico verso ciò che ci costituisce quali viventi. Quando riproviamo la vita non lo facciamo per se stessa, ma per le sue modalità che ci sono sgradevoli. L’esistenza personale, che rende reale l’essere di ognuno, è l’unico soggetto di cui si predica ogni attributo individuale, ed è perciò essa stessa la prima perfezione e la prima positività, superiore strutturalmente ad ogni altra. E’ essa che dà valore al dolore e alla gioia, e non il contrario, chè l’una e l’altra non ci sarebbero, mancando l’esistenza stessa. Essa è dunque sempre positiva in sé. In ragione di ciò mai nessuno è contro la vita, e perciò nessuno può lecitamente esserlo. L’impossibilità ontologica di essere contro la propria esistenza è il fondamento filosofico, razionale, transfenomenico, dell’impossibilità morale di uccidere se stessi, per cui lo stato in cui una persona desidera farlo è obiettivamente uno stato deviato psicologicamente, a causa di molteplici fattori che possono attutire o azzerare la responsabilità, ma che però non possono mai inficiare il dato primario oggettivo dell’immoralità dell’atto che si vuol compiere e, quindi, della sua stessa intenzione. L’uomo quindi non può uccidersi, in nessun caso, e quindi non può procurarsi nemmeno la dolce morte. A maggior ragione terzi non possono uccidere malati terminali o gravi che pur lo chiedono, e le motivazioni umanitarie addotte per giustificare simili gesti, per quanto emotivamente suggestive in alcuni casi, sono tuttavia il postulato di una teoria aberrante: che il dolore, se insopportato, disumanizza l’uomo. E’ come se gli uomini non fossero umani, se non in condizioni ottimali. Un simile principio è di assoluta pericolosità. Ed è particolarmente odioso quando è invocato per i malati incapaci d’intendere e di volere, o per i menomati mentali: non solo si vuol scegliere per chi non ha voce, ma si vuole veicolare l’idea che la menomazione e l’inconsapevolezza siano uno stato che diminuisce l’umanità dell’individuo fino ad azzerarla. Praticamente la dolce morte si basa su un duplice non-detto: che l’uomo che soffre non sia più degno di vivere – si parla infatti di dare loro una morte dignitosa, in evidente contrasto a quella che avrebbero continuando la loro esistenza, evidentemente non dignitosa anch’essa- e che colui che non intende né vuole o non ha tutte le facoltà ordinarie efficienti non abbia ragione di esistere. Accettare queste premesse significa spaccare l’umanità tra uomini veri e finti. Peraltro, se il dolore disumanizzasse, lo farebbe anche in contesti non legati all’eutanasia: l’internato del lager, del gulag o del laogai, colui che muore di fame o di freddo sarebbero dei non-più-uomini. Nessuno può però disumanizzare né l’altro né se stesso. Nemmeno la nostra disperazione può disumanizzarci. Altrimenti sarebbero non-più-uomini tutti i diseredati del mondo. E’ un punto da considerare, perché, se è vero che è lungi dai fautori dell’eutanasia voler disumanizzare tutti i sofferenti – se non in casi particolarmente abominevoli, come nella prassi eugenetica del nazismo – è altrettanto vero che la legittimazione morale dell’eutanasia apre la strada, per coerenza, alle sintesi estreme che ho presentato. Inoltre, laddove si invochi per persone in coma, ma ancora in grado di svolgere funzioni autonome a livello cerebrale se non addirittura vegetative, l’eutanasia implicherebbe una sovversione del concetto stesso di vita. Non basterebbe più avere un cervello attivo per essere considerati vivi: l’inagibilità totale, in nome di un drastico principio qualitativo della vita, sarebbe ragione sufficiente per decretare la morte reale, sebbene contraddetta dall’osservazione empirica delle funzioni mentali, e giustificherebbe la fine delle cure ordinarie, facendo spegnere una mente vivente di fame, sete e soffocamento. E questo nonostante le numerose circostanze di risvegli da coma. Teorizzare a tale punto la soppressione attiva di individui comatosi con residue attività mentali e vegetativamente autonomi - ossia non collegati ad alcuna macchina - è ancora più insostenibile, in quanto interferirebbe con lo svolgimento ordinato e naturale di una esistenza individuale, il cui decorso non si è compiuto ancora. L’eutanasia è quindi impossibile da compiersi, in tutti i casi in cui è invocata. Naturalmente parlando di impossibilità ci riferiamo a quella morale, essendo materialmente possibile sopprimere e sopprimersi, essendo questo piuttosto comune (anche nel semplice suicidio), ed essendo addirittura desiderabile in alcuni casi; ma il desiderio di uccidersi e il sollievo che può scaturirne non dà una legittimazione etica all’azione, essendo la sfera affettiva e quella morale completamente diverse tra loro, anche se suscettibili di integrazione. La pietà umana non basta da sola a giustificare un’azione. Il nostro è un discorso di principio. E per principio, il rifiuto dell’eutanasia può discendere da tutti i modelli etici teorici attualmente esistenti sul pianeta, opportunamente interpretati: Vale la pena di rilevare che la moralità dell’eutanasia è impossibile anche per il famoso Manifesto di Bioetica laica italiana, pubblicato dal Sole 240re e da Notizie di Politeia nel 1996. Se rettamente interpretato, a dispetto dei suoi stessi estensori, esso non può legittimare la dolce morte per una serie di contraddizioni interne alle argomentazioni addotte per la fondazione della bioetica cosiddetta laica: Il Manifesto mostra la profonda incongruenza della stessa impostazione della cosiddetta bioetica laica, concepita solo come contrapposizione a quella cattolica e quindi incapace di risolvere i problemi morali con criteri veramente orientativi. In quanto poi all’accanimento terapeutico, se è vero che determinare a priori le cure come onerose e straordinarie è a volte difficoltoso, va anche detto che il loro rifiuto, alla luce di quanto detto, non può essere solo finalizzato all’esclusione del dolore (che altrimenti lo farebbe confondere con l’eutanasia, rigettando ogni sopravvivenza in cui ci fosse sofferenza) ma innanzi tutto alla consapevolezza del fatto che il paziente deve, in ogni caso, morire. Solo allora si parla di accanimento, come del resto dice la parola stessa. Se la nostra etica considerasse accanimento qualsiasi cura che fa vivere chi soffre, dovremmo rifiutarci di somministrare, per assurdo, persino la penicillina a un cerebroleso, perché in ogni caso la sua vita è sofferenza. Paradossi a parte, il criterio fondamentale è dunque la possibilità di far sopravvivere la persona umana, e in subordine di attutirne le sofferenze. Peraltro, nei casi più estremi di sofferenza, rifiutare l’accanimento è normale, perché l’estremo dolore preclude la possibilità stessa di sopravvivere. Purchè, naturalmente, la vita possa durare per un periodo ancora ragionevolmente lungo, e – come ho detto- le sofferenze siano proporzionate alla possibilità stessa di avere una sopravvivenza abbastanza prolungata. Per esempio, nessuno si sognerebbe di togliere un organo malato ma indispensabile e insostituibile a un paziente, facendolo così morire lo stesso e tra maggiori dolori. Questo tema, chiaramente molto complesso, può essere trattato a proposito solo se si accetta l’idea che la vita è anche dolore, non fine a se stesso naturalmente, ma neanche escludibile per se stesso. Se tale principio salta, dall’eutanasia dei singoli per pietà si passa subito a quella eugenetica, anch’essa coonestabile con la presunta commiserazione per chi vivrebbe solo per soffrire. E da lì poi si arriverebbe a quella utilitaristica, che commisera quelli che sopravvivono solo per soffrire. Il dolore diventerebbe una pregiudiziale morale, per la quale non si può vivere eticamente una vita in cui si soffre: il mondo sarebbe un potenziale campo di sterminio per chiunque prova delle sofferenze! E il passo sarebbe breve, per arrivare poi a poter insegnare a chi soffre che deve scegliere di morire. L’ultima questione etica verte su cosa si intende per cura ordinaria. Spesso molte vite si trascinano dolorosamente attaccate a respiratori o a sonde intestinali. Sono casi di una sofferenza infinita. Si può certo discettare sulla ordinarietà o straordinarietà del mezzo che sortisce tale scopo di sostentamento, ma non si può negare che la respirazione e il nutrimento non siano semplici terapie, ma funzioni vitali. Se la scienza da la possibilità d nutrire e ventilare, non utilizzare tale possibilità per chi ne ha bisogno per sopravvivere, che cos’è se non omicidio, mediante omissione di soccorso? Certo, ci si può interrogare sull’obbligo di ricorrere a tecnologie sempre più complesse e onerose laddove la morte debba sopravvenire in ogni caso, o addirittura di perseverare in esse in determinate condizioni terminali, ma non si può teorizzare il diritto di morire, sia pure consensualmente, di fame o soffocati, anche se sedati, allorquando non ci siano altre cause che possano nell’immediato causare il decesso. Si può rinunciare a tecniche di ventilazione o nutrizione più sofisticate quando ormai si è agli estremi, ma non si può ometterle. Giustificare tale azione con la richiesta del malato è inutile: nessuno può teorizzare di poter morire per evitare un grave dolore, perché fatalmente il concetto di grave dolore dovrebbe essere soggettivizzato, e quindi per principio non potrebbe essere negato a nessuno il diritto di morire, persino in condizioni di obiettiva levità di sofferenza. Potremmo trovarci dinanzi a situazioni di giovani che si lasciano morire di fame, con anoressie volontarie, perché non possono sopportare di essere grassi, o cose del genere. Questa è chiaramente un’esagerazione grottesca, ma deve far capire dove può portare la soggettivizzazione del criterio per applicare un diritto del genere. Nessun caso singolo, per quanto commovente, può valere la perdita dei criteri etici generali mediante la concessione della morte. Può sembrare disumano, ma il mondo che ne verrebbe fuori lo sarebbe sul serio. LEGALITA’ E EUTANASIA Ma l’interrogativo etico più profondo viene dal cuore della questione. Chiedere l’eutanasia implica chiedere la sua legalizzazione, ossia che lo Stato riconosca il diritto di morire, determinandone le condizioni. Ossia che lo conceda. Il cuore del problema non è il presunto diritto del singolo da affermare nella scelta, ma il presupposto diritto dello Stato di concederlo. Riconoscimento è termine eufemistico, tanto più che la maggior parte delle eutanasie dovrebbero essere compiute da terzi, che potrebbero agire solo come esecutori autorizzati dall’autorità pubblica. L’idea che lo Stato diventi il soggetto abilitato a determinare le condizioni in cui l’uomo può scegliere di vivere o morire implica l’idea totalitaria che esso sia superiore al singolo nell’esercizio del suo stesso diritto individuale di vita o di morte. Ciò è contrario a qualsiasi forma di contrattualismo politico, e a qualsiasi concezione dello Stato basata sul diritto naturale. Ossia è contrario ai due filoni principali della filosofia politica moderna che è alla base della democrazia. Non a caso l’eutanasia nasce nei Regimi dittatoriali. Lo Stato può solo garantire i diritti esistenti, attuali: ossia può solo garantire la vita, finchè c’è, vietando di toglierla Quindi non può concedere a nessuno di uccidersi. Facendolo compirebbe una usurpazione.. Al massimo, potrebbe depenalizzare il reato, per ragioni pratiche, di commiserazione. In ragione di ciò, legalizzare l’eutanasia è una forma di schizofrenia giuridica, che sovverte i cardini del diritto dei Paesi civili, anche se, facendo una mistificazione verbale, i fautori della dolce morte la presentano come una battaglia per la civiltà. Coloro i quali chiedono allo Stato, in nome della neutralità morale, di concedere il diritto alla morte, in realtà patrocinano una concezione statuale “pesante” ed etica, in cui la comunità politica si fa carico di predeterminare le opzioni morali dei singoli in situazioni specifiche. Se è vero che ognuno, potendolo, è in grado di uccidersi, è altrettanto vero che lo Stato non potrà mai trasformare questo fatto in un diritto. Se non a prezzo della nostra civiltà giuridica. In alcuni Stati l’eutanasia è legale. Ma tale precedente non potrà sovvertire mai la realtà razionale del problema. Mantenere chiara la definizione dei contorni morali e quindi giuridici della questione è un fatto di civiltà, da salvaguardare anche in caso di imbarbarimento legislativo. Theorèin - Febbraio 2007 |