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Si legge in Baudelarie ne L'abisso:
Pascal aveva un abisso che con lui s'agitava.
In alto, in basso, ovunque, profondità,
Ho paura del sonno come si ha paura d'un gran buco,
e il mio spirito, sempre ossessionato di vertigine,
Il ricercare è presente in Nietzsche
si legge in Così parlò Zarathustra:
"A voi intrepidi cercatori, tentatori e a tutti coloro che s'imbarcano per terribili mari con vele sagaci: A voi, ebbri d'enigmi, amatori del crepuscolo. Voi cercatori, voi tentatori e voi tutti che con accorte vele v'imbarcate per mari inesplorati! Oh tutti voi che amate gli enigmi..."
Nasce l'equazione Abisso-Poesia Abisso-Parola.
Eugenio Montale in Elegia ci parla di mare, abisso subacqueo.
Non muoverti.
Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 si arriva ad un azzeramento del linguaggio. Govoni nel suo "Porto" attraversa varie esperienze (tavola parolibera; immagine del palombaro come messaggero degli abissi. "Rarefazioni e parole in libertà).
Il Centauro di Maurice de Guérin (1810-1939): è il soggetto della tesina di diploma di Ungaretti alla Sorbona.
Si legge in Italia
Sono un poeta
Sono un frutto
Ma il tuo popolo è portato
E in questa uniforme
Locvizza il 1° Ottobre 1916
Italia e Poesia chiudono Il Porto Sepolto con funzioni simmetriche a quelle esercitate da
In memoria e dal Porto sepolto in apertura dell'opera. In Italia
si narra il ritorno del poeta alla patria, come
In Memoria commemorava l'estinguersi del poeta.
Le due poesie finali quindi sono il compimento di quelle iniziali.
Italia sancisce l’identità di poeta e nazione. E' la presentazione del poeta al popolo. E' presente l’omaggio alla tradizione letteraria, la funzione classica di chiusura del
Canzoniere così come la canzone All’Italia apre i Canti Leopardiani. Il finale verrà tratto dall’ultima immagine della poesia
Fiumi quella del riposo:
I simboli "dell’urna di acqua e la "culla di mio padre" ci riportano ai simboli materni e paterni, ai miti primordiali. Nell’ultima strofa de
I fiumi Ungaretti conclude e stabilisce un'ora, un momento topico della sua giornata in cui meglio si riconosce;
è il momento in cui la notte incombe; e questo momento di buio completo, di tenebre, Ungaretti potrebbe averlo derivato da Leopardi e in particolare dal
Tramonto della luna, pagine che Ungaretti più maturo dedicherà proprio a questa poesia ci spiegano questa coincidenza. Il tramonto della luna
è infatti il momento di buio assoluto, un momento in cui anche la luce della luna sparisce e l’uomo
è in attesa dell'alba. Ma di questa alba Leopardi non parlerà; nè parlerà Ungaretti perchè le esperienze sono diverse. Questo momento cosmico, di estremo valore esistenziale,
è il momento della conoscenza dello spavento del buio, della paura del vuoto, della paura della solitudine; un momento in cui la vita appare come
"una corolla di tenebre". E' anche il momento in cui l'uomo è solo con se stesso e nella disposizione migliore per ascoltarsi.
Il tramonto della luna
Quale in notte solinga,
In una sua conferenza intitolata: influenza di Vico sulle teorie estetiche d'oggi datata 1937, quando si
è trasferito in Brasile, Ungaretti comincia a parlare dei miti romantici, della gioventù e del perire, e dice: il mito del perire lo vediamo nel simbolo che si fa vecchio e muore; lo vediamo nelle società che si fanno vecchie e muoiono; lo vediamo nell'universo che si fa vecchio
e muore. Questo mito è legato al sentimento dello scorrere inevitabile del tempo che così come coinvolge l'uomo, il singolo individuo, coinvolge anche le intere civiltà. C'è nella poesia una grande pausa cosmica, quel momento nel quale già tramontata la luna non
è ancora sorto il sole; è un momento di sospensione spaventosa e poi naturalmente poeticamente si rinnova Al singolo che a un piede nella tomba succede il figlio; alle vecchie generazioni seguono le nuove. In questo brano del 1937 c'è un Leopardi letto alla luce della ideologia politica contemporanea (il fascismo), ma c'è dall'inizio anche un Leopardi letto alla luce delle teorie nicciane; la poesia leopardiana filtrata dal pensiero dell'eterno ritorno quindi i miti romantici rivistati alla luce del pensiero del filosofo tedesco. Quindi Ungaretti individua questo momento di grande pausa cosmica e poi tutto fortemente si rinnova. (vedi I Fiumi).
Influenza di Vico sulle teorie estetiche d'oggi
L'altra sera, nell'iniziare il nostro discorso, mostravamo come, con quella semplicità
che sanno raggiungere solo gli uomini profondi, Vico riassumesse la sua dottrina in questa frase: imparare bene per giudicare bene e giudicare bene per ragionare bene. Così noi vediamo subito
fissati i gradi dello spirito, secondo Vico. Per imparare bene una cosa occorrono dunque fantasia e memoria. Alle origini dello spirito — perché Vico va sempre alle origini — c'è dunque una prima conoscenza morale, che scaturisce dalla fantasia e dalla memoria. Croce, che ha scritto una trentina d'anni fa un
trattato d'estetica considerato anche oggi, e non solo in Italia, come l'ultima parola in tale materia, procedendo dal Vico pone il principio che il fatto artistico risulta da un'identità fra intuizione ed espressione. La debolezza del
sistema crociano ch'egli stesso ebbe a rilevare applicandolo, dipende da un piccolo errore del Croce, intorno al quale Croce gira e rigira, ma che esita a riconoscere anche ora, dopo che gli è stato indicato da tutta la polemica letteraria svoltasi in Italia e fuori, negli ultimi quindici anni. Vico aveva
detto: fantasia e memoria. Il Romanticismo è sorto negando — negando fino ad un certo punto — negando la memoria. Croce, venendo fuori direttamente dalle estetiche romantiche, ha creduto che Vico non avesse parlato se non di fantasia e nel suo spirito, intuizione ed espressione non entrano in funzione se non per
virtù di sola fantasia. La verità, la verità che chi ha praticato l'arte dovrebbe conoscere bene, è che non c'è fatto artistico, che non c'è identità fra intuizione ed espressione se la fantasia, e la memoria, funzioni necessarie dell'intuizione, non divengono funzioni dell'espressione. Da Croce, tutta
l'attenzione che un artista è costretto a rivolgere al mezzo espressivo per esprimersi, è considerata con ostinazione come trascurabile. Per esempio, una forma metrica che un dato poeta ha da scegliersi: l'endecasillabo, o un metro
libero, sarebbe dal punto di vista estetico, trascurabile: schemi, schemi che la fantasia dovrà riempire. Ebbene, potrebbero essere schemi, presi in sé, oggettivamente; ma quando nel poeta, o in chiunque, operino soggettivamente, non
è vero, non sono più schemi. Sono parole, parole diverse, che ci sono dette da persone diverse e da persone di secoli diversi.
Perché noi possiamo parlare anche colle persone morte da diversi secoli: è il miracolo della poesia. Quelle voci ci seducono per
quello che ci dicono, ed anche per la loro inflessione. Credete che il ricordo di quelle voci, non entrerà per nulla in quella tale vostra espressione poetica
che dovrà venire a dare identità a quella vostra tale intuizione vagante in voi? Tutto, tutto, tutto è memoria. Già una cosa, quando noi la vediamo, non abbiamo
il tempo di nominarla, ch'è già passato, che è già memoria. E non dico che occorra partire dalla memoria che è conservata nei libri; e partiamo pure dai
fatti che ci hanno toccato direttamente, dalla memoria dei fatti che muovono direttamente il nostro sentimento mentre ce li rappresenta o ce li deforma o ce
li trasfigura. Quando avremo da esprimere quest'intuizione, noi sentiremo che questo primordiale modo d'impossessarsi del valore d'una cosa ch'è l'intuizione,
muoverà incontro a noi una musica — come un poeta diceva l'altro giorno che era avvenuto ai poeti provenzali, grandi poeti, se mai ce ne furono —, e questa
musica preesistente, necessariamente preesistente alle nostre parole, le modellerà. Questa musica non è stata inventata da noi. Potremmo darle il timbro della nostra voce. Ma questa musica, è una musica di secoli. Vico pensava
addirittura a una lingua del genere umano per la poesia. Non c'è. Non ci potrà mai essere. Ci sono lingue nazionali, ci sono modi delle lingue nazionali, c'è
un patrimonio letterario di ciascuna nazione. Quando Croce non bada alla memoria nella sua estetica cade nello stesso errore cartesiano contro il quale Vico
s'era eretto, e toglie alla poesia la sua potenza storica, la separa dal tempo che la rende così umana, la riduce a pura anima, mentre la nostra condizione di
perire e la nostra illusione d'immortalità, così intrinseche alla nostra azione, non divengono effettive se non affermando la persona umana fatta
inscindibilmente di corpo e d'anima.
Un esempio — e procederemo stasera per esempi — ci farà subito vedere nella sua esattezza, ciò che intendo dire. Prendiamo due poeti, due poeti italiani, del primo Ottocento. Siamo in piena polemica
romantica, e questi due poeti, questi due grandi poeti, il Leopardi e il Manzoni, naturalmente vi partecipano. Il primo, in un modo molto semplice. Il Romanticismo gli dà noia, non per quello che afferma, per quello che fa. Il Romanticismo porta in campo il senso della vecchiaia delle lingue, — non delle
lingue antiche: il senso della vecchiaia delle lingue neo-latine. Lingue scritte già da cinque secoli. Il Romanticismo, mentre sente che qualche cosa di nuovo nel mondo è avvenuto che va raffigurato, sente che ridotti a universali poetici, i miti forniti dalla mitologia classica non sono più miti, e più non valgono
ormai se non come una semplice metafora. I miti antichi per l'Umanesimo avevano rappresentato la sete del sapere che stava conquistandosi armonia, erano il modello perfetto, la meraviglia dell'adolescente nello scoprirsi uomo, erano infinite cose bellissime per le quali quella mitologia era tornata viva. Per il
Romantico tutte queste cose sono oramai morte. Il Neoclassicismo che lo fiancheggia o lo precede di poco, tenta un rinnovamento dei miti classici più che al seguito di Winkelmann, come generalmente si dice, in seguito piuttosto
alle scoperte d'Ercolano: scoperte d'oggetti: sculture, pitture e soprattutto rotoli di papiri contenenti svolgimenti delle dottrine di Epicuro. Dal 1750 al 1850 si possono seguire delle infiltrazioni nette d'epicureismo nel pensiero e nell'estetica, e vengono
direttamente dagli scavi d'Ercolano e dalle pubblicazioni dell'Accademia ercolanense. Sono cose che tre o quattr'anni fa ho dimostrato in un saggio e sulle quali ora non è il momento di insistere; ma si può vedere, per esempio nel
Canova — e cito uno scultore perché le arti sono fra loro molto più legate che non si creda — che ciò che lo seduce è quel pallore dei suoi marmi, fatto risaltare da pochissima ombra, ma così giusta e così fonda da mettervi nelle
ossa un senso di malinconia, come se tutto fosse morto e null'altro valesse se non gingillarsi, e quasi quietarsi, e quasi dormire nella propria sensuale malinconia. Arte di decadenza, che segnava appunto lo spirare in bellezza degli
ideali del Rinascimento.
Si diceva che il Romanticismo sentiva la vecchiaia dei mezzi espressivi e sentiva che erano sorti dei nuovi miti. Essi appaiono,
per esempio, nel 5 Maggio del Manzoni. Essi appaiono, per esempio, nel Tramonto della luna ch'è l'ultima e la più
bella poesia del Leopardi. Nel 5 Maggio bisogna almanaccare molto per arrivare a capire quello che il Manzoni ha in animo d'esprimere.
Esteticamente, il5 Maggio presenta alcuni difetti gravi di composizione. La parte che dovrebbe avere maggiore risalto poetico, la parte dove manifesta il rapporto fra l'uomo e Dio, suggerito dal perire, suggerito dal fatto che anche un uomo che aveva riempito di sé il mondo tanto che pareva che il mondo avesse ormai preso il suo nome e si raffigurasse unicamente in lui; il rapporto fra l'uomo e Dio suggerito dal fatto
che anche per un Napoleone c'era la morte, non trova se non termini d'un ragionamento prosaico, stentato: non dimostra affatto d'essere un'intuizione che s'identifichi nell'espressione:
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque...
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio... Non ho oggi il tempo di farvi un commento diffuso. L'ho fatto ai miei giovani. Vi dirò in breve il perché c'è difetto. Perché
essendo e dichiarandosi vichiano, e sentendo che bisognava per ricorso storico rinnovare il mezzo espressivo, trascurava di considerare, commettendo lo stesso
errore del Croce, che l'intuizione si muove da due funzioni verso l'espressione, trasferendole all'espressione quando in essa si sia identificata: si muove dalla
memoria e dalla fantasia. Quei versi del Manzoni non erano versi di ritmo italiano, non portarono in sé la memoria del ritmo italiano. Il ritmo italiano è
fatto sulla base di parole piane, e il ritmo del 5 Maggio è fatto sulla base di sdrucciole e di tronche, nell'italiano, moto insolito nelle parole. Non c'è solo
un motivo formale; c'è una ragione più vera. Il Manzoni col suo raziocinio afferrava benissimo tutto: afferrava la necessità di rinnovare la lingua,
afferrava i miti nuovi: il mito dell'uomo provvidenziale nel quale le aspirazioni delle masse vengono storicamente ad essere simboleggiate: la
coscienza delle masse infatti si rivela a se stessa epicamente nell'uomo provvidenziale; afferrava come Vico, il rapporto tra l'umano e il divino,
rivelato dall'illusione d'immortalità e dalla condizione di perire. Ma poeticamente, il Manzoni era attratto da altro, e ciò che l'attraeva non era
diverso da ciò che attraeva i Neoclassici. L'attraeva il perire, o meglio l'attraeva quella bellezza che toccata, o dal male morale o dal male fisico,
presenta improvvisamente nel suo disfacimento, non si sa quale luce.
Oh quante volte al tacito
Ecco i versi belli del 5 Maggio. Versi bellissimi, e che hanno ritrovato il ritmo italiano, perché in realtà non sono due settenari affannati nel loro trotto, come gli altri, ma un endecasillabo: Oh quante volte al tacito
e un quinario: D’un giorno inerte.
Il Manzoni ch'era un uomo di strenua volontà morale, ed è ciò che fa soprattutto la sua grandezza, ha combattuto con tutte le sue forze le sue inclinazioni naturali. Ma esteticamente, le sue pagine bellissime: la morte d'Ermengarda, la Monaca di Monza, i momenti d'umorismo, sono le pagine che rispondono alle sue da lui combattutissime inclinazioni.
Inoltre, la questione della lingua, il Manzoni la risolve, nei Promessi Sposi, non fondando il suo italiano sulla base del lombardo ch'era la sua parlata naturale, ma sulla base del toscano della borghesia di Firenze, ch'è una bella parlata, ma non era la sua. In realtà il Manzoni alla propria parlata regionale,
sovrappone un'altra parlata regionale. Arriva alla sua prosa, spesso di bellissimo effetto e di schietto italiano, per uno di quei miracoli che finiscono sempre col compiere gli uomini di genio anche partendo da una falsa posizione, come partiva sempre, per le complicazioni della sua mente, il Manzoni. In ogni caso, non a torto il toscano Carducci ha fustigato gli amatori di riboboli e lo stenterellismo dei manzoniani fabbricanti di lessici e di grammatiche fondati sull'uso d'una particolare parlata. L'italiano non è la
lingua d'una regione — e primo di tutti l'ha visto benissimo il toscano Dante — è una lingua alla quale tutte le regioni d'Italia hanno dato grandi scrittori. C'è dunque una lingua italiana che risulta dagli esempi di tutti questi
scrittori. C'è una memoria della lingua alla quale dovrà uniformarsi la propria parlata regionale, o comunale, o rionale, o di ceto, e così sarà rispettata e la propria natura e la tradizione letteraria della lingua nella quale si scrive.
Tali erano i criteri del Leopardi che rinnovava il verso, e lo rinnovava tenendo conto di tutte le aspirazioni musicali del suo tempo, ma era l'endecasillabo del Petrarca, era l'endecasillabo del Tasso che si rinnovavano nel suo; ma era la canzone del Petrarca, era il Tasso lirico che si rinnovavano nella sua canzone.
Tali erano i criteri del Leopardi che rinnovava la nostra prosa nelle sue Operette morali; ma era la prosa italiana del Trecento ed era la prosa italiana del Cinquecento ed era la prosa scientifica italiana, l'insuperabile prosa scientifica italiana fissata da Galileo, modello a tutta la prosa scientifica
europea, e che porta nella terminologia un rigore che direi quasi crudele pure lasciando che la lingua si scapricci a suo agio nella fantasia; erano 500 anni di prosa nostra che si rinnovavano rielaborandosi nella prosa leopardiana. Dirò
di più, per restare fedele alla sua natura, pure restando fedele alla tradizione, il Leopardi leggeva con particolare predilezione gli scrittori della sua regione, i Marchigiani: Annibal Caro, per esempio. Non è tutto: guardate
come in una, per esempio, delle sue poesie, nel Tramonto della luna, che abbiamo scelto, fa balenare dalle identità poetiche fra espressione e intuizione i miti romantici della gioventù e del perire. Il mito del perire lo vediamo nel singolo che si fa vecchio e muore, lo vediamo nelle
società che si fanno vecchie e muoiono, lo vediamo nell'universo che si fa vecchio e muore. Quest'intuizione è resa disperata dalla potenza del sentimento. C'è nella poesia una grande pausa cosmica: quel momento nel quale, già tramontata la luna, non è ancora sorto il sole: è un momento di sospensione
spaventosa, eppoi tutto, naturalmente, poeticamente, si rinnova: al singolo che ha un piede nella tomba, succede il figlio, alle vecchie generazioni, seguono le nuove; le società che si decompongono, lievitano Tutta la polemica letteraria moderna, come si diceva da principio, tende a superare l'incompiutezza dell'estetica crociana, restituendo al precetto vichiano i suoi due termini di memoria e di fantasia,
come abbiamo cercato di fare anche noi nel nostro esempio. Su queste basi si svolge in Italia la critica di Alfredo Gargiulo, al quale dobbiamo il libro migliore su Gabriele d'Annunzio e i saggi migliori sulla letteratura italiana
d'oggi. Sulle medesime basi è stato recentemente condotto in Francia un trattato teorico, succosissimo sebbene non voluminoso, intitolato Les Fleurs de Tarbes e dovuto a Jean Paulhan. Ma la critica arriverà, e sta arrivando, a superare interamente lo scoglio idealista, ricollegandosi al concetto vichiano di mito. S'è più volte stasera pronunziata questa parola di mito. In un recente saggio di Roger Caillois si tende a dimostrare che se ha un valore in quanto è mito, il mito non ne ha alcuno di misura d'ordine estetico. Il mito è considerato dal Caillois come appartenente per definizione alle masse
e giustifica, sostiene e ispira l'esistenza e l'azione d'una comunità, d'un popolo, d'una corporazione. Sono su per giù gli stessi termini usati dal Vico; ma il Vico andava più in là. Il verdetto nell'ordine estetico, soggiunge il Caillois, spetta invece all'individuo, non perché non v'influisca la società; ma
in questo caso essa propone senza costringere. Quando il mito diventa letteratura, dice sempre il Caillois, perde la sua potenza morale costrittiva e si fa oggetto di godimento estetico. A quel punto, per esempio, Ovidio
scriverebbe le Metamorfosi. Ciononostante, pure mirando a raggiungere solo effetti d'ordine estetico, la letteratura dà vita nell'immaginazione popolare a miti, e quindi può scriversi
una storia del mito attraverso alla sua formazione dipendente da effetti dell'opera letteraria. Questo è quanto dice il Caillois. Vico avrebbe detto che se un'opera d'arte dà vita a miti cogli effetti della sua espressione, è segno
che questi miti erano virtualmente nell'intuizione dell'artista. Il giudizio estetico, del resto, è sempre anche un giudizio storico. Si può vedere dal giudizio che noi ci facciamo dell'opera di Dante, oppure di quella del Petrarca,
diverso dal giudizio che se ne faceva il Cinquecento o il Settecento, e non solo per il mutarsi del gusto, ma anche perché cose dell'opera letteraria che possono
essersi oscurate per gli uni, possono tornare a chiarirsi per altri; ed anche perché, in certe opere di sommo valore il mito resta segreto a lungo per impreparazione del pubblico a farselo proprio prima di un secolare stratificarsi di commenti, come precisamente è avvenuto per il Petrarca e per Dante.
In ogni caso, che sia entrata nella storia letteraria questa considerazione vichiana dei miti, è un fatto che in un certo senso mi lusinga personalmente perché è stato proprio chi vi parla, discorrendo del mito di Roma nel Petrarca e in tutta la poesia europea successiva, a dimostrare l'importanza storica del mito e a dimostrarla in conferenze tenute proprio anche in Francia: all'Università di Digione, al Centro Universitario Mediterraneo di Nizza, all'Università di Strasburgo.
Prendiamo un fatto storico: la fondazione, per esempio, dell'Impero Carolingio. Che cosa significa questo fatto? Significa che masse barbariche di molte provenienze avevano raggiunto una certa unità nel costume, nelle credenze e nelle aspirazioni, che avevano raggiunto cioè una certa comunanza di coscienza, che ormai possedevano un'attività morale in comune, che possedevano una volontà collettiva. Come si manifesterà questa loro coscienza? Con un fatto epico. Questa coscienza unitaria dell'Europa nascente — o della cristianità come allora si diceva — si manifesterà e prenderà slancio — coll'affermazione della propria autonomia da conservarsi e del proprio sviluppo da garantire — nelle grandi imprese militari contro la minaccia islamica. Dunque si affermerà con fatti epici. Perché questi fatti siano espressi dalla poesia occorrerà che prima la memoria se li nomini e ci fantastichi su, e quando, per questa elaborazione della memoria e della fantasia, verranno intuiti dalla mente nella loro verità reale, alla mente stessa allora appariranno come miti — o chiamateli fantasmi se vi piace di più — e allora verranno dall'espressione poetica resi oggettivi. Come i miti delle canzoni di gesta abbiano importanza non solo per spiegarci fenomeni letterari, ma per rappresentarci tutta la vita medioevale fino all'avvento dell'Umanesimo, e come soprattutto ottengano questo risultato per i miti che verranno ad opporsi ad essi (e saranno miti religiosi e insieme politici e sociali perché tutto è colorito allora dalla religione, e sarà infine il mito della natura) — è un capitolo di storia interessantissimo, anche per i complessi fattori di diritto che entrano in giuoco. L'ho svolto, nelle mie lezioni sulle origini della letteratura italiana, alla nostra facoltà, e purtroppo non posso ora dilungarmi ad esporlo di nuovo. Si dirà: ma quella era poesia popolare. Intendiamoci: Jacopone non era affatto un poeta popolare, nel senso che si dà di solito a questa parola, e cioè nel senso di poesia più di genere, presa nel suo anonimato, che non rispecchiante una particolare personalità poetica: se mai poesia ha ricevuto l'impronta d'una fortissima personalità è proprio quella di Jacopone. C'è secondo me errore in un criterio com'è quello seguito dal Caillois che vuole per i fatti sociali un certo determinismo, mentre per quelli del singolo riconosce il libero arbitrio. Quest'errore ha portato nell'Ottocento anche a un mito, e che ha prodotto grande poesia — quella di Baudelaire per esempio — ed è il mito dell'antinomia insanabile fra individuo e società. In realtà non possiamo arrivare a formarci un criterio critico efficace se non ammettendo che tanto il singolo quanto la società agiscono di propria volontà. Oppure si ammetta il determinismo in ogni caso, ma sarebbe criterio che deprimerebbe l'uomo e gli strapperebbe la sua stessa dignità, e non arriveremmo più a spiegarci perché ci siano poeti sulla terra.
Ci sono naturalmente dei miti moderni — ne abbiamo citato uno reso struggente dalla poesia di Baudelaire — e Balzac, al quale, per sua stessa dichiarazione, Vico era familiare, nella Vieille fille, come riporta il Caillois, osserva: «Les mythes modernes sont encore moins compris que les mythes anciens, quoique nous soyons devorés par les mythes». Ricorriamo ancora agli esempi, e prendiamone questa volta nella pittura. Si sa quello che cercava l'Impressionismo francese e si sa quello che cercava il Macchiaiuolismo italiano. L'Impressionismo partiva dall'idea di luce: pensava che gli oggetti non potessero esistere se non per via della luce. Quindi il pittore impressionista non intendeva riprodurre col suo dipingere gli oggetti, ma semplicemente quell'attimo fuggitivo della luce che li rivelava. Non entro nel merito di questa pittura, che pure è gloriosa, ma lo è appunto per quel contenuto morale e tradizionale — letterario e di museo come essi dicevano con disprezzo — che manifesta e che trascende il loro credo nel valore puramente fisico della loro arte. Il Macchiaiuolismo si prefiggeva di riprodurre episodi della vita familiare borghese: il suo era un bozzettismo. Anche il Macchiaiuolismo ha dei pittori gloriosi. Ma l'impressionista veramente glorioso è Cézanne e il macchiauolo veramente glorioso è Fattori, perché l'uno e l'altro si rivoltano decisamente contro la presunzione della loro scuola, e l'uno ritrova il senso del volume e della costruzione, l'altro si ritrova il sentimento al posto del sentimentalismo. Non è questo che voglio dire. Voglio dire che ad un certo momento appaiono contro l'Impressionismo e contro il Macchiaiuolismo, in Francia il Cubismo e in Italia il Futurismo. Il Cubismo affermerà che un oggetto non vive, come la macchina fotografica forse suggeriva, un'infinità innumerevole di volte diverse e in diverso modo quanti sono gl'infiniti attimi della luce che torna continuamente a ricrearlo, ma che esiste per conto suo, non miliardi di volte, ma una volta sola che è quella formata da tutti i suoi aspetti diversi. E, Cartesiani, questa vita unitaria degli oggetti la daranno per volumi astratti. Seguiranno Cézanne, ma con questa differenza, che sostituiranno alle sue bagnanti, alle sue nature morte, o ai suoi giocatori di partite alle carte, ecc. volumi astratti. Con gl'Impressionisti avevamo il mito della luce, con Cézanne quello dell'ingombro corporale e del peso dei corpi, con i Cubisti abbiamo il mondo oggettivo trasfigurato in puro spazio e in puri volumi. Il mito della purezza ch'era entrato nella pittura con gl'Impressionisti, rimane intatto con i Cubisti, ma rimane d'ordine fisico e, peggio, d'ordine fisico astratto. Qual era il difetto del Cubismo? Faceva appello alla memoria: l'oggetto ricostruito in tutto il suo tempo storico; e gli toglieva fantasia, tendeva cioè quell'oggetto astratto e arido; faceva appello alla fantasia per intuire come in tutto quel suo tempo storico avesse vissuto, e gli toglieva la memoria, togliendogli qualsiasi segno del suo perire e dimenticando così che un oggetto è avvinto a noi e c'ispira per quel dato particolare che ci ha toccato improvvisamente una volta per sempre, che rimasto nella nostra memoria, sollecita la nostra fantasia a ricostruirlo miticamente in tutta la sua e la nostra durata insieme confuse.
Il Futurismo era, molto più umanamente, colpito dalla macchina: mito della velocità, mito della simultaneità. In realtà la macchina porta in sé un contenuto di memoria umana: molti millenni di sforzi progressivi in una data direzione; ed essa stessa è un modello di costruzione armoniosa che dimostra a quale punto di disciplina può arrivare la fantasia quando voglia nell'espressione arrivare a comporsi in un insieme di sicuro effetto. Non erano queste le cose che si proponeva il Futurismo; queste sono le cose che si proporrà la scuola italiana dei Poeti d'oggi, cioè tutta l'ultima poesia italiana d'oggi, nata nel 1917, in trincea, con il Porto Sepolto.
Il Futurismo considerava la macchina nella sua brutalità di nuova natura, non cercava di averne scienza morale umana, ma di restituirla mimeticamente nella sua travolgente brutalità. Nella pittura futurista — e considerazioni analoghe valgono per la poesia futurista — si voleva dare il movimento della macchina. Si può dare il movimento nella pittura, l'ha dato il Caravaggio, ma con mezzi che sono della pittura: con uno schianto prodotto dalla luce, coll'opporre masse di tonalità divergenti, coll'interrompere bruscamente e quasi capovolgere la scena e con mille altri espedienti; e si può dare anche con molta semplicità, contraendo appena il disegno: le ballerine di Degas ballano; ma proprio dare il movimento come lo dà il cinematografo, per quanto ellittica sia la logica espressiva alla quale si ricorra, è assolutamente impossibile. I pittori futuristi possono essere arrivati, per l'ingegno che alcuni di essi indubbiamente avevano, a effetti decorativi notevoli; ma questo non era il loro scopo: volevano esprimere il mito della macchina che, in quella loro arte è rimasto inespresso. E, notate, non per mancanza d'intuizione; ma perché l'intuizione era caotica e non chiara e distinta, e quindi l'espressione non poteva essere se non puerile, e difatti era onomatopeica. Se vi applico il criterio estetico vichiano quest'arte è non arte: perché prende la macchina nella sua brutalità, e non aspetta che la memoria l'abbia trasfigurata in fatto moralmente conoscibile, perché prendendola nella sua brutalità non aspetta che la fantasia possa soccorrere la memoria a trasfigurarla in mito; perché negando qualsiasi valore alla tradizione del mezzo, nega qualsiasi valore all'espressione artistica: se la macchina dev'essere imitata solo nella sua brutalità, è lavoro inutile: sarà più umana com'è. L'arte non è imitazione, ma fiuto storico e valutazione morale.
In ogni modo il Futurismo aveva due meriti: quello d'insorgere contro gli amatori dei loreti impagliati trovati nei bauli dellanonna, e quello di richiamare l'attenzione sul mondo moderno nella sua violenza, e quindi di fare nascere nella mente d'un poeta, che verrà più tardi, nel 1917, il mito della memoria considerato anche nel suo senso cieco, nel suo senso d'opera umana prodotta dall'intelligenza umana, ma non ancora resa puramente umana dall'attività morale dell'uomo. È un mito che naturalmente in poesia non può avere valore se non in opposizione ad un altro mito della memoria nel quale dovrà convertirsi e purificarsi. Sarebbe insomma come un diramarsi mitico della memoria in un contrasto, in un dramma, nel seno stesso della memoria. Del resto, questo fenomeno della scissione introdotto nel fatto poetico è cosa che possiamo osservare anche nell'opera di Pirandello. Il suo concetto della scomposizione della coscienza, che rispondeva molto bene a ciò che succedeva in Europa nel periodo dell'inflazione, quando non c'era cosa che avesse più un valore in sé, e tutto prendeva il valore che per un attimo le apparenze gli davano, e tutto pareva in balia delle apparenze, l'avete visto interpretato ottimamente dalla Compagnia Bragaglia, l'altro giorno qui al Municipale, nell'umanissimo Tutto per bene. Il concetto drammatico della memoria nella mia poesia ha questa differenza: oppone a se stesso, la fede ferma nella volontà dell'uomo.
Il pittore impressionista cercava in tanti attimi di luce creatori d'un oggetto, l'attimo che glielo creasse in modo più impressionante, e s'intenda per impressione, un'impressione di piacere. Il pittore cubista cercava nella durata degli oggetti di astrarre quei puri volumi, quei puri rapporti di piani che potessero suggerirgli una costruzione armoniosa. La poesia pura da Mallarmé a Valéry ha cercato l'evocazione da parole accostate e fra di esse combinate nel loro valore oggettivo di senso e di suono. È una ricerca petrarchesca, salvo in questo: che l'attenzione è quasi interamente spostata dall'intuizione all'espressione. Il difetto di quei due poeti, sebbene siano arrivati ad opere di altissimo tono, sarebbe al lume di Vico dovuto, non alla loro angoscia di purezza nell'espressione, quanto al loro trascurare interamente il processo morale al quale tale purezza deve collegarsi per essere veramente tale. Parrebbe il medesimo difetto dei Cubisti e degli Impressionisti; ma in realtà il peccato di queste due scuole si presenta in termini alquanto diversi, e li abbiamo indicati. Piuttosto dobbiamo osservare un'altra cosa: Cubisti, Impressionisti, Poeti puri parlano di piacere estetico, come ne parlavano anche i teorici del Rinascimento. Il piacere estetico esiste, difatti. Un'opera d'arte che non lo comunicasse, non sarebbe un'opera d'arte. Anche una scena orrida, se in essa circoli la forza dello stile, non per la sua orridezza, ma per lo stile, dà un piacere estetico. Noi non possiamo entrare a ragionare stasera intorno a ciò che è o non è lo stile. Si può dire che c'è stile quando in un'opera sia perfettamente raggiunta l'identità fra espressione e intuizione. Negli altri casi ci sono incertezze di stile, ci sono parti riuscite e parti no, c'è allora uno stile frammentario, ecc. In queste cose, si può anche nascere; ma è quasi sempre quistione di lunga educazione. In ogni modo, quello che volevo tornare a dire, riferendomi alle mie osservazioni a proposito del saggio del Caillois, è che il fatto del piacere estetico non è affatto né astorico né antistorico, né quindi in contraddizione col concetto vichiano di mito.
L'idea della purezza è precisamente uno dei miti della poesia italiana, perché appunto tiene conto del valore estetico della poesia, ma anche perché nello stesso tempo usa la poesia come un atto di purificazione morale. Se la poesia non fosse per il poeta atto di progresso nella conoscenza morale, se la poesia non gli servisse di costante perfezionamento morale come uomo, egli non sarebbe un poeta ma un perdigiorno.
Il Manzoni in uno dei suoi tanti scritti sulla lingua, in uno scritto teoretico — perché è su quelli di indole pratica dove è difficile non essere in disaccordo con lui — in un suo scritto teoretico dove invece il suo pensiero è lucidissimo, nel suo dialogo dell'Invenzione, reso pubblico nel 1851, e tutto portato a luce a confronto del pensiero d'un filosofo come il Rosmini al quale s'era in quegli anni strettamente legato; sostiene come la lingua non possa essere considerata se non come rivelazione. Se la lingua — osserva — riassumo il suo pensiero — esprime il nostro mondo morale, essa è rivelazione. Come? Perché? Se è mondo morale, soggiunge il Manzoni, tutto prima d'essere nella mente umana, è dall'eterno nella mente divina. Quindi l'uomo, quando è uomo, quando ha coscienza del bene e del male, ha rivelazione di questa coscienza perché ha imparato a dire, dopo essersele duramente foggiate, le parole che gliela esprimono, che gliela rivelano. Dunque la parola da puramente estetica, come era nel Rinascimento, sta diventando — come intravede il Manzoni — parola storica considerata nel suo valore estetico; dunque la parola dal suo valore assoluto di ente del bello che aveva nel Rinascimento accede ad un valore considerato in relazione alla qualità morale di chi l'esprime.
Sono cose facili a dirsi; ma col Romanticismo è incominciata una vera tragedia della parola, che perdura, e alla quale si cerca di portare ogni giorno qualche rimedio. Forse oggi, col valore nuovo che si dà al mito, il rimedio definitivo sta per essere trovato. Come avete rilevato dagli stessi termini del pensiero del Manzoni che ora v'ho citato, la tragedia è stata determinata dallo stesso pensiero di Vico intorno al perire, e non c'è da stupirsene, il pensiero d'un genio precorrendo i tempi. E come aveva preveduto e annunziato la catastrofe, così, in quel termine fortunato di rivelazione che usa il Manzoni, sono contenuti e fusi quel suo concetto di morale e di mito — di intuizione e di espressione, dirà il Croce — che il fatto artistico per essere tale deve incarnare.
Per fare un ultimo esempio: oggi si sente tanto questo bisogno di rivelazione che i Surrealisti in Francia hanno pensato di poterci arrivare, cercando un linguaggio che fosse in diretto contatto coll'inconscio. Hanno trovato la scrittura automatica. Hanno commesso, rovesciandolo, il medesimo errore dei Futuristi. Per i Futuristi, occorreva imitare il cieco oggettivo, per i Surrealisti occorre imitare il cieco soggettivo. In realtà i migliori Surrealisti s'accorgono poi della memoria, e scrivono allora perfino con troppa cura e razionalità, e direi quasi con preziosità e leziosità.
La tragedia della parola è segnalata e avvertita da ogni parte. Il finissimo Bontempelli, in un discorso sulla musica, tenuto a Roma ai primi di quest'anno, diceva: «L'opera scritta è in un certo modo fatta di due piani paralleli — il piano della parola e il piano delle cose — e da ciò nascono tante confusioni ed errori ed arbitrii che si commettono di continuo nel giudicare un'opera scritta. L'ideale supremo dello scrittore è saper talmente accostare l'uno all'altro quei due piani paralleli, ch'essi alla vista si confondono in uno; pare che parola e cosa si scambino di continuo i loro influssi e i loro dominii; ma la duplicità sussiste, e questa è la tragedia dell'arte dello scrivere». Per me non è questa la tragedia; per me la tragedia è nel trasformarsi della parola in rivelazione: tutto il tormento dell'artista è lì: ed è ciò che fino dal 1917 in volume, e prima ancora nelle riviste, ho sostenuto cogli esempi e con piena coscienza; e da questa affermazione e dimostrazione ho visto nascere la nuova poesia italiana; e sento fermamente che è poesia sulla strada della verità. Non ci sono due linee parallele fra le cose e le parole: le cose, quando le guardiamo, non sono già più esterne, sono già in noi, sono noi: ed esse tornano esterne, colle nostre parole, vi tornano trasformate da cose materiali in cose morali. Anche Orestano, in un suo acuto scritto di pochi giorni fa, parla di tragedia della parola: «La parola» scrive «che per millenni è stata onorata come depositaria di tutta l'ontologia, oggi è stata detronizzata dal suo millenario soglio teoretico. Teoricamente essa non significa più nulla: è nulla più che un simbolo, un contrassegno, una convenzione senza alcun legame intimo e necessario con le esperienze che esprime. Ma quanto più questo rapporto teoretico tra la parola e l'oggetto indicato è venuto meno, tanto più si è ingrandito il suo ufficio soggettivo di espressione dei valori umani». Teoricamente, affermo invece, essa torna a significare qualche cosa. Poiché finalmente — e sarà l'onore della nostra generazione — il messaggio di Vico è oggi integralmente accolto. Dice bene Orestano: l'ufficio soggettivo della parola, il suo ufficio di espressione dei valori umani si è ingrandito. Ma per questo suo diverso possesso da quello del Rinascimento, essa non ha perso affatto il suo soglio, l'ha soltanto spostato. Le riflessioni di Orestano mi richiamano in mente ciò che mi diceva una volta un giovane scultore. Mi diceva: Michelangelo vedeva statue prigioniere in ogni blocco di pietra che incontrava ed era preso allora dall'impazienza atletica di liberarle a furia di scalpellate. Per noi invece, la scultura riempie il vuoto che invochi un'apparizione. Ecco infatti non più la tragedia della parola, o ancora tragedia in quanto la vita è sempre tragica; ma ecco la potenza dell'arte moderna.
In un altro saggio intitolato
Immagini del Leopardi e nostre datato 1943 Ungaretti scriverà raccogliendo le tante riflessioni fatte su Leopardi:
"soffriva per tutti ed era quindi in grado di parlare per tutti, di farsi la voce rivelatrice delle cose".
Anche nel Tramonto della luna, la sua ultima energia prima di sviare, la speranza non cede, la luna scomparsa per un attimo è rimasta la terra come fulminata dalla cecità. Il verso che Ungaretti mette in primo piano dopo il buio assoluto vedrete il cielo inbiancar nuovamente e sorgere l'alba.
Italia. Pag. 222 (il porto sepolto)
ma il tuo popolo ...
Innescata da questa congiunzione il momento del riconoscimento del poeta come girovago, sraricato e il riconoscimento della propria patria. In zona di guerra combattendo per l'Italia,
Ungaretti ritrova la sua patria d'origine. L'emigrante è tornato e insieme alla patria ritrova una tradizione e un linguaggio
della poesia. ...mi riposo come fosse la culla di mio padre... si ricollega alla poesia dei fiumi (urna d'acqua) e quindi si
ricompone il ciclo esistenziale della vita e della morte. Queste ultime strofe, questo recupero oramai avvenuto della patria, di
una tradizione e anche la scoperta della possibilità di un canto, ci indicano due strade che possiamo seguire su Ungaretti una
è
una strada che ci porta alla prima poesia del porto sepolto, in memoria ove Ungaretti soffre attraverso l'esperienza dell'amico
Moammed Sceab, l'angoscia, il dubbio di non poter sciogliere il canto del proprio abbandono, quindi il dramma dell'uomo che non
ha ancora scoperto la sua patria, ma anche poeta in cerca della propria vocazione. In Memoria siamo in questo stadio della ricerca dove si consuma l'esperienza negativa che sarà sempre
vista da Ungaretti sempre sul fondo della propria esperienza.
L'altra strada sul quale ci conduce l'ultima strofa dell'Italia ...e in questa uniforme.. ci porta all'argomento dei rapporti
degli intellettuali, degli scrittori con questo avvenimento drammatico della grande guerra, la prima guerra mondiale,
avvenimento che ha sconvolto le coscienze di tutta l'Europa.
Per poter comprendere le reazioni e il contesto in cui hanno operato
gli intellettuali occorre in sintesi richiamare le date dei principali avvenimenti storici di quel periodo:
il 28 giugno 1914
avviene l'assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo; nell'luglio-agosto 1914 l'Austria dichiara guerra alla Serbia e
la Germania alla Francia e alla Russia; l'attacco tedesco al Belgio e la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra che si allea
con la Francia contro la Germania. L'Europa si divide in due blocchi: da una parte centrale l'Austria e la Germania;
dall'altra la Francia e l'Inghilterra. Successivamente entreranno in guerra il Giappone e la Turchia; in questo contesto
l'Italia dichiarerà la propria neutralità. Da questo momento comincerà quella campagna interventista che vedrà l'Italia
divisa, dove nonostante la dichiarata neutralità, la maggior parte degli intellettuali saranno per l'interventismo.
Il 26 aprile 1915
si stipula il patto di Londra tra l'Italia e gli alleati contro la triplice alleanza. A maggio vengono dati i pieni poteri a Salandra e l'Italia entra in guerra. Un intellettuale francese Romain Rolland, una delle poche voci che sono contrarie alla
guerra, scrive una serie di articoli che poi raccoglierà in un libro intitolato:
al di sopra della mischia in cui fornisce un
quadro di ciò che stava avvenendo in Europa, del modo in cui era potuto nascere questo evento sconvolgente. Osserva Rolland:
i Nel 1914 sulla rivista fondata da Papini e Soffici Lacerba, che sarà l'organo dell'interventismo, Aldo Palazzeschi scrive un articolo intitolato neutrale, dove dice: viva la neutralità. Mi offrite la guerra che ha per mezzo la morte e per fine la vita, io ve ne domando una che abbia per mezzo la vita e per fine la morte. (5)Ma sulla stessa rivista nel 1915, quando l'Italia decide di entrare in guerra, Palazzeschi scrive un altro articolo intitolato evviva questa guerra. Gridare evviva questa guerra sostiene Palazzeschi vuol dire anzitutto abbasso la guerra, evidenziando la sua caratteristica stilistica della provocazione, della contraddizione. Accanto a questi scrittori che si proclamano contro la guerra altri sono invece del tutto interventisti. Possiamo suddividere questi in due tipi di funzione: la prima gli scrittori come "strumenti per la guerra"; la seconda in cui l'intellettuale diventa "utente della guerra" cioè quella funzione in cui l'esperienza della guerra diventa scrittura. Nella prima funzione individuiamo due momenti: uno è quello dell'interventismo; il secondo è quello dopo l'intervento. Le posizioni degli scrittori a riguardo dell'interventismo si possono riassumere in tre poli: il primo è quello dell'impeto guerrafondaio (d'Annunzio, Marinetti ne sono un esempio); il secondo è un impeto che si esprimerà soprattutto sulle pagine della rivista Lacerba (Soffici, Papini). Mentre Palazzeschi scrive neutralità, Papini si contrappone scrivendo un articolo intitolato amiamo la guerra dove si legge: Finalmente è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell'anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l'arsura dell'agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre. E' finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell'ipocrisia e della pacioseria. I fratelli sono sempre buoni ad ammazzare i fratelli! i civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano le madri belve. Non si contentano più dell'omicidio al minuto. Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? Ci metterei la testa che non arrivano ai diti delle mani e dei piedi messi insieme. E codesta perdita, se non fosse anche un guadagno per la memoria, sarebbe a mille doppi compensata dalle tante centinaia di migliaia di antipatici, farabutti, idioti, odiosi, sfruttatori, disutili, bestioni e disgraziati che si son levati dal mondo in maniera spiccia, nobile, eroica e forse, per chi resta, vantaggiosa. Non si rinfaccino. a uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere. E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo aver pianto si sta meglio. Chi odia l'umanità - e come si può non odiarla anche compiangendola? - si trova in questi tempi nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l'odio e lo consola. "Avevo ragione di non stimare gli uomini, e perciò son contento che ne spariscano parecchi". La guerra, infine, giova all'agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz'altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s'ammucchiarono i fanti tedeschi e che grasse patate si caveranno in Galizia quest'altro anno! E il fuoco degli scorridori e il dirutarnento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più belli e più igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei viaggiatori e dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un'arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa. Ci sarà sempre da fare per tutti se la voglia di creare verrà, come sempre, eccitata e ringagliardita dalla distruzione. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi. (6)Poi sempre un altro articolo su Lacerba 1915 modula un pò la sua posizione, si distacca un pò dalle posizioni interventiste alla Marinetti e intitola il suo articolo il dovere dell'Italia con questo valore aggiunto di un impegno morale che ha un radice vociana. Si chiede: "di che razza siamo? Siamo più vicini ai prussiani agli austriaci o non piuttosto ai francesi e agli inglesi che per sangue, lingua e cultura sono mezzi latini?" Entra quindi in gioco una motivazione culturale, letteraria, siamo latini e quindi dobbiamo combattere accanto a gente della nostra stessa tradizione, stessa cultura, e infatti questa affinità specialmente con la Francia, viene sottolineata: "dobbiamo alla Francia oltre duecento anni, metà della nostra cultura e della nostra arte ". Lo stesso dirà Soffici, il primo parigino italiano, il quale in un suo scritto successivo alla raccolta di prose Arlecchino dirà a proposito della Francia: "paese che hai arricchito la mia gioventù, patria ideale di noi tutti che adoriamo la bellezza della libertà. Poi un altro articolo di Papini sempre pubblicato su Lacerba nel 1915 nell'ultimo numero (22 maggio), che chiude Lacerba dopo che, secondo i fondatori ha esaurito il proprio compito. Il titolo dell'articolo è: abbiamo vinto!. Scrive Papini: le nostre parole hanno servito a rincuorare i giovani ad incitare i generosi; la nostra campagna non è stata inutile per la formazione di quello spirito di nazionale dignità che si è manifestato così improvviso e violento nei giorni; a tutti nemici conosciuti e sconosciuti che fin qui ci seguirono e aiutarono diamo appuntamento qui allo stesso posto il giorno della pace. 1. Charles Baudelaire, Le gouffre (L'abisso), Tutte le poesie, Paperbacks poeti p.384-85 2. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Feltrinelli 3. Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna,tratto da Canti XXXIII 4. Aldo Palazzeschi, Neutrale, in Lacerba, II, 24, 1 dicembre 1914, pag. 327
Theorèin - Giugno 2014
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