Innamorato della natura e dei suoi scenari mutevoli, Sandro Penna registra costantemente nella sua scrittura le sfumature lievi di un paesaggio, i capricci del cielo, l’esuberanza vivida dell’estate, l’alba livida, la pioggia battente, l’intensità azzurra del mare, il calmo respiro del fiume.
I luoghi fisici strutturano il paesaggio delle sue prose e dei suoi versi andando a costituire un’impalcatura necessaria e insostituibile che spesso si stacca dalla cornice per divenire essenza stessa del discorso poetico.
Nella maggior parte dei casi il paesaggio si anima al passaggio di un fanciullo, e da esso acquista forza e bellezza. In alcune circostanze, però, la natura diventa lo scenario privilegiato in cui inserire più genericamente l’uomo, colto nella genuina e in alcuni casi primordiale semplicità di ogni giorno. Così come avviene per il dio-fanciullo che, pur se circondato da un alone quasi mitico, conserva sempre la sua dimensione ferina e domestica, gli uomini che catturano l’attenzione del poeta sono sorpresi nel loro quotidiano affaccendarsi e nell’atto di recitare, più o meno consapevolmente, il proprio ruolo sulla scena del mondo. L’occhio del poeta si sofferma spesso sull’umile vitalità dei contadini, o sulla grigia esistenza condotta in città dagli operai e dagli anonimi passanti. L’umanità dipinta da Penna il più delle volte non dialoga, non riflette, ma più semplicemente si muove, lavora, cammina, canta, si lascia osservare mentre ingenuamente assaggia e consuma la vita. Il poeta vi si accosta mantenendosi come sempre in disparte, anche quando il suo coinvolgimento potrebbe apparire inevitabile: Penna descrive frequentemente luoghi affollati in cui egli stesso si immerge con avida curiosità, indugiando nella rappresentazione di taverne e osterie, piazze e strade, cinema e tram traboccanti di un variopinto campionario umano. Eppure il poeta non riesce mai a rendersi pienamente partecipe delle vicende da cui scaturiscono gli aneddoti che descrive con un’attenzione quasi maniacale, e la sua capacità di comunicare con i suoi simili appare spesso insufficiente ad imbastire un contatto concreto e durevole. L’immaginazione di Penna è attratta spesso da particolari semplici: un gesto, un oggetto, una leggera inflessione della voce, una pronuncia dialettale. In più di un’occasione, però, gli uomini descritti nella vivacità materica della loro carne tendono ad assumere la consistenza di immagini che si riflettono nella mente del poeta confermandone la perenne assenza dalla scena del mondo:
Io sono in un locale greve e nero,
pieno di fumo, pieno di parole.
Ma sono assente: e sogno il cimitero
di un piccolo villaggio sotto il sole. (p. 350)
Il fumo e le parole sono certamente prodotti dagli uomini che riempiono il locale in cui si trova il poeta, ma egli si proclama apertamente assente, irrimediabilmente perduto nelle sue fantasie di più profonde solitudini. Dall’immagine del cimitero affiora l’idea dei morti silenziosi, che non vivono più se non nei loro freddi simulacri.
Nella prosa Penna si compiace spesso di tratteggiare i personaggi in cui si imbatte insistendo sulla tipicità del loro atteggiamento, che in alcune occasioni appare come conseguenza di un atavico legame con la terra d’origine. Nella poesia, invece, si registrano un’attenzione più sfumata per le cose degli uomini e una vena certamente più propensa a rielaborazioni liriche che della figura umana diminuiscono la presenza ma non certo il peso.
A partire dall’analisi di alcuni racconti piuttosto rappresentativi, si tenterà ora di ricostruire le varie tipologie umane così come dovettero apparire alla sensibilità di Sandro Penna, mostrando il processo di trasformazione che l’immagine dell’uomo subisce nel passaggio dalla prosa alla poesia.
In prima istanza bisogna mettere in evidenza il fatto che la figura umana è inscindibilmente legata al paesaggio, di cui diventa parte integrante e allo stesso tempo profondamente integrata. Gli uomini infatti si inseriscono sempre nel contesto di uno scenario, cittadino o naturale, che va a condizionarne atteggiamenti e stati d’animo. Un testo altamente significativo in questo senso è quello intitolato I sentieri, che compare nella raccolta Un po’ di febbre. La prosa si apre con la descrizione di un viaggio in tram verso la periferia e del relativo ritorno. Il primo elemento da rilevare è quello che riguarda il rapporto che intercorre nella produzione penniana fra il paesaggio e il movimento. Lo scenario naturale o cittadino sembra essere maggiormente apprezzato, infatti, quando il poeta si trova in viaggio o comunque in transito su un qualsiasi mezzo di locomozione.
Si è già insistito sul valore emblematico assunto dal treno in molti luoghi della scrittura penniana, ma non bisogna sottovalutare l’importanza dei brevi spostamenti in tram, o al limite effettuati a piedi. Il movimento consente la metamorfosi di un paesaggio in un altro, ma anche la possibilità di imbattersi in una grande varietà di tipi umani scrutati proprio nella casualità di fugacissimi incontri.
Il tram corre veloce abbandonando gli ultimi casamenti della città. Poi si tuffa in una campagna di fitta umida vegetazione. Sui due lati del lunghissimo e diritto viale appaiono e scompaiono rapidamente chiari ben definiti sentieri […] Là fuori stanno seduti, nel crepuscolo, contadini e fanciulli allo svago e al riposo.
Il tram consente di passare senza soluzione di continuità dalla città alla periferia e viceversa, e di assistere alla mutevolezza del paesaggio che si anima in virtù del movimento e della comparsa dell’uomo. Il brano in prosa registra un andamento vistosamente melodico nella struttura dei periodi, costruiti attraverso un linguaggio connotativo basato soprattutto sull’abbondanza dell’aggettivazione. Nella poesia il tema della natura colta di sfuggita da un finestrino ritorna con accenti ancor più marcatamente lirici ed onirici, anche se intrisi di una certa propensione alla prosaicità, del linguaggio non meno che delle immagini:
Lungo è il tragitto in autobus. Anche
se la campagna fuori è così bella.
Anzi sognata tra la nebbia. Un rozzo
garzone di fornaio una sua tenera
grazia concede ad attimi e poi nega
facendo di quel tratto una catena
di bei ricordi da sgranare a sera. (p. 260)
Gli enjambements del primo e del terzo verso spezzano un discorso che oscilla fortemente fra la dimensione lirica e quella colloquiale, realizzate entrambe grazie ad una sapiente modulazione del doppio livello significato/significante. Nei primi tre versi l’afflato lirico è efficacemente temperato, infatti, da un abbassamento di prospettiva che agisce sui contenuti non meno che sul tessuto stesso della versificazione. La prolessi dell’aggettivo e del predicato a inizio verso, sul modello della lirica alta, introduce infatti un banale tragitto in autobus che prelude alla visione di una bella campagna. Il dato oggettivo del paesaggio, però, viene immediatamente sublimato attraverso il ricorso alla dimensione onirica e quasi fantastica: la campagna è sognata, e sembra quasi emergere magicamente dalla nebbia. L’enjambement del terzo verso sposta il discorso sulla figura umana, costituita in questo caso da un garzone qualificato preliminarmente come rozzo. La comparsa del garzone produce un nuovo equilibrio nella struttura metrica, che negli ultimi tre versi diventa più regolare nella misura dell’endecasillabo e maggiormente ritmata dalle assonanze nega/catena/sera. Sul piano concettuale il rozzo garzone produce una metamorfosi in senso lirico nel paesaggio facendo di quel tratto una catena/di bei ricordi da sgranare a sera.
Fra il brano e la poesia in esame non esistono evidentemente relazioni così forti da far pensare ad una netta derivazione nell’uno o nell’altro senso, ma gli elementi considerati confermano certamente l’esistenza di una tendenza precisa che agisce sull’immaginario del poeta come polo di riferimento costante.
Il racconto I sentieri prosegue alternando sensazioni visive e stati d’animo, fino alla descrizione di un evento improvviso che muta il ritmo della narrazione:
Poi tutto ad un tratto sale un’infinità di gente, con lieti e altissimi gridi. Il tram ne è subito riempito e riparte illuminandosi fra tutte quelle ragazze, fra tanti soldati e giovanotti.
La fiumana della vita, scorta fino a quel momento soltanto dal finestrino, irrompe nel territorio occupato dal poeta, costituito in questo caso dal tram. La scena narrata è collocata in un momento serale, tanto che gli elementi esterni affiorano dall’oscurità. Una situazione simile a quella del racconto viene proposta anche nella produzione poetica:
Ero chiuso in un tram, tra deliziosa nebbia,
quando malinconia entrò con allegria.
Quanta malinconia nella vita serena,
giovani allegri che la vita alleva. (p. 385)
Nei versi la nebbia sostituisce l’oscurità del crepuscolo, mentre una vena malinconica si va ad insinuare laddove nel racconto è del tutto assente, almeno a livello esplicito. L’elemento comune è certamente quello della sferzata di allegria portata all’interno del tram da un gruppo di giovani. È interessante rilevare come il poeta abbia insistito all’inizio del primo verso nel presentarsi come chiuso, riproponendo la medesima dicotomia e successiva osmosi fra dentro e fuori, fra spettacolo e spettatore.
Nel prosieguo del racconto, le ragazze salite sul mezzo pubblico iniziano a cantare, contagiando a catena tutti gli altri passeggeri che intonano in coro canzoni popolari e in voga, e allora è difficile che qualcuno resista più. Nel soffermarsi sui personaggi in cui si è imbattuto, Penna cosparge quasi distrattamente gustose macchie di colore che modellano con tratti svelti e precisi un carattere o una situazione:
Perfino questa donna dapprima tanto seria… (E il bambino che ha in braccio, tenero e inconscio, sembra guardarla con tanta meraviglia).
Il canto, soprattutto quello spontaneo e popolare, è un elemento che ricorre costantemente nella produzione penniana. Il popolo di Penna, infatti, è un popolo che canta quasi per una inclinazione originaria. Cantano le ragazze, come nel brano citato, ma cantano anche i contadini su la buia valle. Cantano gli operai e i soldati nelle caserme, ed è sempre una melodia atavica quella che si leva ad incantare la notte:
Mi ridestava la voce
del giovane operaio che cantava
dentro la stanza vuota. (p. 226)
Anche se il vento copre
la primavera, il popolo
canta alla notte.
L’ascolto io dal mio letto. Lascio
‹‹La vita di Gesù››. Ardo a quel canto. (p. 51)
[…] I canti ardevano
fino alla notte fonda.
[…] (p. 56)
La lettura dei frammenti citati richiama immediatamente alla memoria Giacomo Leopardi e la sua formulazione della teoria del suono, trattata nello Zibaldone e riversata in alcuni fra i versi più belli del poeta recanatese:
È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, […]; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; […] il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disponibili a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze.
[…]
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
[…]
[…] ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
Sandro Penna e Giacomo Leopardi sono accomunati dal medesimo senso di disappartenenza nei confronti del mondo, e questo disagio si riversa nella loro esistenza appartata, chiusa, raggiunta da suoni che possono provenire soltanto dall’esterno, al massimo da lontano. La dialettica fra il dentro e il fuori rappresenta dunque un momento fondante tanto nella poetica di Sandro Penna quanto in quella del poeta di Recanati. In quest’ottica, il paterno ostello è del tutto assimilabile alla stanza chiusa in cui Penna trascorse gli ultimi momenti della sua vita e, idealmente, l’intera sua esistenza. Nel poeta perugino, però, il canto assume anche una funzione differente, non strettamente legata alle argomentazioni e alle realizzazioni liriche di Giacomo Leopardi. Per Sandro Penna, infatti, l’elemento fondamentale è costituito non solo dalla distanza da cui giunge un suono, ma anche dalla dimensione notturna e primordiale, radice da cui si diffonde il canto, voce del popolo non meno che della natura, dal momento che la dolcezza del suono emana proprio da una spontaneità arcaica che riecheggia quasi per istinto animale nel buio della notte, marcando così l’origine ferina dell’uomo. Questo valore più strettamente mitico del canto è presente quasi esclusivamente nella poesia, dove l’immagine di cori ancestrali che si perdono nell’oscurità subisce un forte processo lirico di sublimazione. I rari canti dei contadini compaiono infatti anche nella prosa, ma assumono una connotazione più domestica e concreta, priva dell’alone umbratile e misterioso che li avvolge nei versi. Nella produzione narrativa, però, Penna riesce a rendere esplicite le ragioni del suo interesse per la matrice spontanea e genuina del canto, soffermandosi a considerarne l’origine ingenua e festosa e la relativa possibile degenerazione in un suono tanto più falso quanto più consapevole. Il processo a cui si fa riferimento viene tratteggiato proprio nel brano I sentieri:
Ricominciano poi le case illuminate della città senza che l’entusiasmo di quei canti nati nel buio s’intimidisca. Soltanto ad una delle prime fermate tutto sembra farsi d’improvviso volgare. Il canto perde ora lo slancio un po’ folle e naturale nel quale era nato, e si fa quasi un compito, una già fredda volontà di eco.
Il canto entusiastico e un po’ folle nasce emblematicamente nel buio, dunque nella fase onirica che precede la coscienza. Non a caso i cori dei passeggeri diventano d’improvviso volgari alle prime fermate effettuate in città. La metropoli in questo caso diventa l’emblema della civiltà, dell’umanità adulta e consapevole che può concepire il canto ormai soltanto come un compito. Lo slancio naturale a cui si fa riferimento nel brano è al tempo stesso quello che rende ardenti i canti dei contadini e quello che corre continuamente il rischio di trasformarsi in una fredda volontà di eco, volta a desacralizzare i miti notturni mortificandoli nei riti volgari di una diurna razionalità.
L’ingresso del tram nella città implica, tra le altre cose, un netto mutamento nel paesaggio:
Io mi innamoro allora di questa zona della città lungo il fiume, ancora buia e ariosa […]. Piove lentamente, ma io entro lo stesso sul ponte lunghissimo, avido di questa pioggia, di questa fresca oscurità del fiume che riflette lontane e rarissime luci.
Il brano citato richiama alla memoria un ricchissimo repertorio poetico che percorre tutta la produzione in versi dell’Autore perugino. La pioggia che cade sulla città, la fresca oscurità sul fiume che ricalca fedelmente la dolce umidità del fiume evocata nella poesia Non era la città dove la sera (p. 108), le luci rarissime e lontane, sono tutti elementi che intrecciano una trama fittissima ed inestricabile tesa fra la prosa e i versi. Una volta in città, il poeta si imbatte nella folla fitta e disordinata che intasa portici, caffè e cinematografi provocando la sua attenzione e la sua viva curiosità di osservatore sensibile e attento:
Tra la folla godo di scoprire volti assai disuguali e mi diverto, come sempre e dovunque, ad immaginarmi la terra d’origine. Ascolto avidamente i dialetti, e scopro ancora che quel volto meridionale certo è cresciuto poi nei geli di questa città, mentre è proprio il biondo e alto magro giovane a darmi un accento solare e quasi a dirmi che tornerà presto laggiù alla sua terra. […] qui sono giovanotti felici di aver scoperto fra i militari qualcuno del loro paese.
L’attrazione verso gli uomini e le loro esistenze individuali spinge l’interesse del narratore a scovare la tipicità dei volti e degli accenti, alla scoperta di un legame di ciascun uomo con la propria origine.
La tematica del ritorno all’origine non è mai vistosamente insistita, e comunque non costituisce nell’opera di Penna un’impalcatura concettuale ben definita, eppure riemerge con una costanza che esige di essere investigata. L’idea dell’origine invade infatti il territorio dell’istinto ferino e sessuale, che tanta parte occupa nella poetica penniana. La regressione all’origine è strettamente legata inoltre alla sfera della quotidianità ingenua e spontanea dei fanciulli, dei contadini, degli umili, ma anche all’elaborazione di un linguaggio poetico aperto a qualsiasi espressione realistica e prosaica. La sorgente primordiale del canto, ancora, nasce nell’oscurità dell’origine e si perde nella profondità arcaica della notte. Anche le riflessioni dedicate dal poeta alle inflessioni regionali e alle caratteristiche somatiche indicano infine un interesse chiaro e costante rivolto alla sfera misteriosa e allo stesso tempo rassicurante occupata dall’origine e dall’istinto, elementi che concorrono a formare una medesima matrice, quella tutta fisica e materica del corpo e dunque dell’uomo inteso nella sua naturalità. Non bisogna poi sottovalutare l’ideale contiguità che, agli occhi del poeta, sussiste proprio fra il canto e la musicalità dei vari accenti regionali, e che viene esemplificata nel già citato brano Due Venezie:
La meraviglia affettuosa di udire dolci sconosciuti accenti uscire da bocche in tutto simili ad altre conosciute. I modi, le voglie, la vita insomma è forse sempre la stessa, ma sentirla tradotta in altro linguaggio, e sentire la spontaneità fresca di questa nuova invenzione ripetersi identica presso tutto un popolo vario come per un miracolo, è davvero per me la più dolce delle scoperte – né so dire di più. Più tardi importano le scoperte individuali, la psicologia di ognuno, ed è forse cosa più profonda. Ma chi ci ridà la gioia della musica?
Per quanto riguarda poi più in particolare la sola tematica delle cadenze dialettali registrate da Penna, la poesia testimonia ancora una volta un processo di riduzione e di sublimazione che condensa in pochi versi l’atmosfera evocata dalla prosa:
Nelle notti stellate aspettavo
nel racconto di un giovane a un altro
nascere il nuovo accento dialettale. (p. 283)
In poesia Sandro Penna evita di caratterizzare in modo preciso ed esplicito i suoi personaggi ma, quando questi ultimi appaiono, conservano sempre una freschezza ed una purezza straordinarie. Nel breve respiro di tre versi, infatti, il poeta è riuscito ad esemplificare e a conservare l’atmosfera suscitata dalla medesima situazione che nel racconto I sentieri era stata affrontata con ben maggiore estensione e densità concettuale La poesia citata, pur se estremamente concentrata, non perde nulla della vivacità riscontrabile nel brano, e questo perché ne estrae la purissima essenza.
L’impronta culturale e regionale riscontrabile nel popolo ricompare nella prosa Aspetti di Milano, in cui Penna descrive il suo arrivo nel capoluogo lombardo, avvenuto nel 1938, riportando le emozioni suscitate in lui dai suoi abitanti. Le prime immagini che si imprimono nella mente del poeta sono quelle dei ciclisti e dei fanciulli che salutano il passaggio del treno:
Dai borghi ci venivano incontro i ciclisti, le voci diffuse, alte nell’ora del tramonto. I ciclisti scomparivano sotto il nostro passaggio, silenziosi. E il treno lento e trionfale passava sui ponti, accoglieva il saluto di monelli dritti su muretti.
L’Autore è rapito immediatamente dal suono di quell’accento lombardo, che provoca in lui una forte meraviglia:
Erano come una fiabesca tenue minaccia di temporale nell’aria, quelle voci milanesi, per chi aveva da così poco salpato dalla terra che fin troppa dolcezza dà alle voci dei suoi uomini.
Subito dopo il narratore informa il lettore di essere giunto a Milano da Venezia, specificando così quale fosse la terra da cui era appena salpato e che conferiva fin troppa dolcezza all’accento dei suoi abitanti. Penna si sofferma ancora a valutare le cause dello stupore in lui suscitato dal modo di parlare dei milanesi, rovesciando così il cliché di una città fredda e silenziosa attraverso la descrizione dell’allegria di questo popolo che tanto lavora. Davanti ai suoi occhi si presenta infatti ad un tratto uno spettacolo inatteso, degno di una delle più “calorose” città del Sud:
Sulla piazza adesso arrivano tre persone con l’aria di prendere risoluta dimora. Fuori chitarra, voce sfiatata della donna, manifestini per chi ne vuole. In un attimo si è formato un grosso grappolo d’uomini e biciclette. […] Io non credo che a Napoli si canti così per le strade.
Ancora una volta compare il canto, come si è visto elemento indispensabile per determinare il colore e la vitalità di un popolo. Questo motivo viene riproposto infatti anche poche righe dopo ad evidenziare in negativo l’opinione comune sui milanesi:
Per di più se sono di cattivo umore mi ripeto che il popolo milanese è incolore, fiumana disciplinata, incapace di canto, di originalità. Altrove invece…
La mancanza di colore e la disciplina vengono contrapposte alla capacità di cantare e all’originalità. La forza istintiva e variopinta della musica agisce dunque come polo positivo contro il potere limitante della razionalità. La capacità di generare il colore e il canto, però, anche in questa occasione non viene attribuita ad un singolo individuo, ma ad un intero popolo che conserva la propria identità attraverso caratteristiche collettive, frutto di un antico retaggio culturale.
Il brano preso in esame fa emergere fattori presenti in due poesie che mettono a tema proprio la città meneghina. L’aderenza del passo in prosa alle liriche è in questo caso pressoché totale, fin nei particolari linguistici.
Arrivavo a Milano. Era un fanciullo
seduto sovra il muro di un sobborgo
sotto l’ultimo sole di quel giorno
che salutava quell’ansioso arrivo. (p. 290)
Nei versi è rievocato l’arrivo del poeta a Milano accolto dal saluto di un fanciullo seduto su un muretto. Similmente, il racconto indugia su alcuni monelli che, dritti su muretti, salutano l’arrivo del treno su cui viaggia l’Autore. Nella prosa si precisa che il momento descritto è quello del tramonto, e puntualmente la poesia registra l’ora serale attraverso l’immagine dell’ultimo sole. Elementi interessanti vengono proposti anche in un’altra poesia, in cui viene rappresentata l’atmosfera solare e “canterina” che si può respirare a Milano:
Di febbraio a Milano
non c’erano le nebbie.
Ma numerosi sciami di ciclisti
andavano nel sole silenziosi.
E li fermava come in una gara
sospesa il suonatore siciliano. (p. 71)
La scena descritta è la stessa riportata nella prosa, fin nei dettagli:
Ero arrivato a Milano di febbraio. Mi aspettavo nebbie, gente che lavora e va poi seriamente al cinema. […] Sciami e sciami di ciclisti s’addensano al segnale rosso, si riespandono al verde. Silenziosi. […]
Segue poi la scena sopra citata dei musicisti di strada che attirano l’attenzione della folla. La puntualità dei rimandi è quanto mai netta, e interessa sia il tema che la lettera: l’arrivo a febbraio, la piacevole sorpresa procurata al poeta dalla mancanza delle nebbie, gli sciami di ciclisti silenziosi. Lo scarto fra la poesia e la prosa è minimo e si avverte in un’unica, imprevista precisazione che riguarda l’origine dei suonatori. Nel racconto, infatti, si rifletteva semplicemente sul fatto che un piccolo gruppo di musicanti avesse avuto il potere di interrompere il flusso disciplinato e monotono dei milanesi, provocando una piacevole impressione nel poeta che non immaginava di respirare un’atmosfera così “meridionale” proprio nel cuore del capoluogo lombardo. Penna azzardava persino l’ipotesi che neppure a Napoli si potesse cantare in quel modo per le strade. Il paragone con il Sud emerge anche nella poesia, ma attraverso un punto di vista completamente differente e, per così dire, straniante agli occhi del lettore che attui un confronto con il brano in prosa. Nei versi, infatti, si precisa che il suonatore capace di bloccare e incantare per un attimo la seriosa fiumana milanese è siciliano, e questo particolare non è di poco conto, se si tiene presente l’attenzione registrata da parte del poeta per le varietà e i caratteri regionali. L’entusiasmo che nella prosa è dovuto alla sorpresa di scoprire un popolo diverso rispetto a quello dipinto dall’immaginario collettivo viene fortemente ridimensionato nei versi, in cui il ruolo di “pifferaio incantatore” è svolto da un siciliano che introduce musica e colore in una città del Nord.
Questo dettaglio implica immediatamente una riflessione inerente al rapporto fra i versi e i racconti che non riguardi soltanto i rimandi contenutistici e formali. Nel caso esaminato la poesia costituisce infatti un completamento e, per certi aspetti, un rovesciamento della prosa, poiché fornisce una possibilità di rilettura dell’intero brano dedicato a Milano conferendogli così una maggiore densità di significati. Nel breve volgere di soli sei versi, infatti, Penna ha rielaborato la situazione descritta nel respiro ben più ampio del racconto riuscendo a fornire un dettaglio capace di ribaltarne completamente il senso. È chiaro che la poesia ha da sempre la funzione di sovrapporre ai significati più ovvi sensi riposti. In tutti i casi fin qui esaminati di rimandi fra prose e versi, in effetti, la vena lirica ha sortito l’effetto di dilatare lo spettro delle interpretazioni possibili di un brano. Nell’ultimo caso, però, la poesia stessa si presenta come interpretazione del racconto perché ne scopre i retroscena, modificandone in certa misura il senso. Non è possibile dire quanto questo esito sia stato perseguito dal poeta, così come non si può stabilire con assoluta certezza quale sia l’ordine cronologico di elaborazione dei due prodotti letterari.
Quel che è certo, però, è che la variazione di un minimo dettaglio fra le due forme di scrittura abbia provocato una riconsiderazione dell’intera situazione descritta. La poesia, dunque, non rappresenta soltanto la trama lirica sottesa agli eventi quotidiani, ma anche la possibilità di una loro esegesi più profonda e complessa.
Riguardo alla trattazione dei personaggi, è possibile afferrare la puntualità dei rimandi che intercorrono fra la poesia e la prosa e la reiterazione di alcune tematiche esaminando altri frammenti tratti dalla raccolta pubblicata nel 1973. Spunti di grande interesse a questo proposito vengono offerti in particolare da Viaggio in Ciociaria , brano suddiviso in due parti intitolate rispettivamente Il sonno del povero e Ragazzi. Nel corso del viaggio intrapreso realmente da Penna nel settembre del 1938 , il narratore si imbatte in una vasta tipologia umana di cui coglie come sempre i caratteri essenziali e tipici:
Subito notai la bellezza di tutti, carattere di tutta la gente che si incontra a sud di Roma. [...] La loro bellezza si era certo affinata nella vita cittadina, nel senso di una maggiore levità e consapevolezza delle maniere, ma ciò che più mi attraeva era la nativa purezza dei loro sguardi […]
Penna non manca di sottolineare come l’ambiente possa condizionare persino l’aspetto fisico delle persone. Di questo egli è certamente consapevole, eppure ciò che maggiormente lo attrae della gente che incontra è la nativa purezza dello sguardo. Ancora una volta l’analisi dei testi conferma la tendenza del poeta a considerare la bellezza come frutto originario e atavico, del tutto indipendente da un’evoluzione consapevole e progressiva.
Il solitario vagare di paese in paese che viene descritto con abbondanza di particolari in Viaggio in Ciociaria, riecheggia nei versi attraverso accenti fortemente sublimati:
Sanno solo i tramonti i miei passaggi
di paese in paese, o, d’improvviso
giovane contadino, innamorato
di me, o della vita, non sapendo
egli più dei tramonti… (p. 333)
Il giovane contadino della poesia è sostituito nel racconto da un piccolo pastore con cui il poeta stringe amicizia in una delle sue tappe. Fra il narratore e il ragazzo si instaura presto un dialogo vivace incentrato sulla vita condotta dal pastorello in campagna:
Mi parlava e parlava ormai senza ch’io dovessi aiutarlo con le domande, ma ad un tratto pensò che lì sdraiato e muto io dovessi essere annoiato di lui, e mi lasciò d’improvviso, dicendomi invitante: ‹‹Dormi, dormi.›› Io resto solo […].
Una situazione molto simile viene esposta con lievi variazioni nella poesia:
Voleva raccontare una sua storia
il pastorello, ma il sonno lo prese.
I rauchi treni implorano alle stelle
e riaccendono volti nel mio cuore. (p. 359)
Nei versi il sonno coglie il piccolo pastore, che viceversa nella prosa invita a dormire il narratore. La volontà di raccontare la propria storia invece caratterizza il fanciullo in entrambe le occasioni. I rauchi treni e i volti riaccesi nel cuore del poeta segnalano ancora una volta l’elemento del viaggio, che comporta in ogni circostanza fuggevoli e indimenticabili incontri.