IL MIO INTIMO ACCORDO
ANALISI DEL RAPPORTO FRA PROSA E POESIA NELL'OPERA DI SANDRO PENNA
A cura di: Valeria Masciantonio
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Capitolo 3 (II parte)

Rapporto fra prosa e poesia
in relazione alle tematiche degli uomini e del paesaggio.

 

L’interesse nutrito per le vicende umane si estende naturalmente anche alla sfera del lavoro. Operai, contadini, pastori, soldati, carabinieri, sono personaggi che ricorrono con una certa frequenza nel repertorio penniano, invadendo con la loro presenza tanto i racconti quanto la poesia. La modalità di rappresentazione che Penna riserva loro, però, sembra legata molto poco alla concretezza del lavoro manuale che essi svolgono. Al poeta, più che le occupazioni umane, premono gli odori, i sapori, le impressioni in lui suscitate dagli assonnati garzoni odorosi di menta (p. 264), o dall’onesto odore di animale dell’operaio accorso all’autobus fuggente (p. 265). L’amore per il mondo e per la vita si rivolge a tutto ciò che il mondo e la vita producono, e così anche il lavoro entra a far parte dell’immaginario di un poeta tanto legato alle cose concrete. In questo, così come in altri casi, Penna non crea dunque alcuna scala gerarchica fra i vari aspetti dell’agire umano, e il lavoro non assume un ruolo privilegiato nella sua opera: esso è un aspetto dell’esistenza universale, non diversamente dal paesaggio, dagli animali e dagli uomini, come dimostra tra l’altro un brano tratto dal racconto Tre luci:

[…] le pecore non erano sole, come si sa. Avevano il loro pastore, avevano il loro cane. […] Poi l’amico dell’uomo ritornò di corsa al suo padrone. Il padrone dell’amico dell’uomo mi apparve allora come un punto oscuro e confuso in un intimo colloquio con certe carte colorate […] Le pecore sono molte, e sono tutte belle, e il cane le tiene. Ma il cane è nulla senza il suo padrone. E il suo padrone, se risale il pendio e viene qui sulla strada, è quell’uomo lacero di fronte al tranvai che passa nero di gente importante […].

Le pecore, il cane e l’uomo che svolge il lavoro di pastore sono stretti da un legame inestricabile in cui la scala gerarchica, sia pur presente, viene ripetutamente rovesciata, o quantomeno contraddetta in un crescendo che annulla le differenze nel momento stesso in cui le pone. Le pecore possono contare sul cane e sul pastore, e il cane senza pastore è nulla, ma il pastore stesso, padrone dell’amico dell’uomo (si noti la formula con doppia, significativa specificazione che indica il vincolo indissolubile fra sfera umana e animale), diviene un punto oscuro e confuso che quasi si amalgama con certe carte. Pur se onnipotente nei confronti del cane, inoltre, il pastore è comunque soltanto un uomo lacero al cospetto della gente importante. Eppure, persino i ricchi passeggeri del tranvai si perdono nel nero del treno, dissolvendosi essi stessi entro la luce turchina e diffusa del ponte al crepuscolo. Il mondo crea così figure e gerarchie, ma poi le inghiotte di nuovo confondendone i contorni, annullandone il valore e la vanità. L’equivalenza fra i diversi piani che interessano l’universo umano e il mondo del lavoro viene esplicitata anche in poesia con tocchi rapidi e leggeri:

Muovonsi opachi coi lucenti secchi
gli uomini calmi in mezzo agli orti. Il rosso
dei pomodori sta segreto e acceso
nel verde come un cuore. Ma lontano
il mare con le sue luci d’argento,
che sono le campane del mattino,
chiama alla pesca gli uomini che il vino
del ritorno sognavano fra il lento
ondeggiar delle barche, ridestate
quali uccelli sul ramo. L’altalena
ferma nel buio della villa aspetta
il giorno. E il giorno accorderà le varie
e rumorose colazioni. Io resto
fra tanta luce e battere di panni.
Tre rape mezza mela ed una triste
macchina di cucina vecchia d’anni
sonnecchiano su un tavolo non viste. (p. 432)

La poesia, dal sapore bozzettistico, offre la rappresentazione di una giornata in cui il lavoro degli uomini si svolge sullo sfondo di un paesaggio colmo di elementi vari che interagiscono fra di loro. Contadini, pescatori e massaie si mettono all’opera in uno scenario in cui non svolgono il ruolo di protagonisti: i pomodori, il mare, le campane, il vino, le barche, l’altalena, movimentano e colorano infatti la scena evocando rumori, sapori, contrasti di colore. Il primo verso, aperto da un verbo che richiama la tradizione “alta” della lirica petrarchesca, introduce un umile sfondo sul quale spiccano uomini affaccendati. Il loro ruolo, però, viene presto ridimensionato a favore degli altri elementi citati. Il lavoro dell’uomo, dunque, non assume una funzione predominante anche se, chiaramente, rappresenta il fattore che mette in moto l’intero meccanismo poetico. L’impressione che deriva dalla lettura di questo testo è quella di una tranquilla scena di vita quotidiana in cui non domina alcun elemento, se non quello della concretezza. Significativamente, la lirica non si chiude con un riferimento agli uomini, ma ad alcuni oggetti che sembrano animarsi assumendo caratteristiche umane. Ancora una volta i vari elementi del reale si incontrano in una zona osmotica e straniante che li pone sullo stesso piano, rendendo così impossibile l’individuazione di una qualsiasi scala di valori.

Il riassorbimento dell’elemento umano e del lavoro in quello naturale e la conseguente sensazione che esista, nella mente del poeta, un piano unico sul quale ogni aspetto del reale subisce un livellamento, sono fattori che vengono riproposti in un passo in cui Penna si sofferma a riflettere esplicitamente sull’operare dell’uomo:

La cara città industriale sapeva avere la sua bellezza di orizzonti. E naturale era pensare al lavoro dell’uomo, chiuso sotto quei fumi lenti e quell’intrico geometrico del ferro, mentre nel mondo solo viva era la pioggia, viva monotona carezza su tutto.

L’amore e la considerazione che Penna aveva per le tematiche riguardanti l’uomo e il suo rapporto concreto con il mondo, possono affiorare anche a partire da un confronto più esplicito con la tradizione poetica italiana, sostenuto dal rapporto di filiazione molto stretto che intercorre, ad esempio, fra la poesia Lavoro di pescatore (p. 334) e L’infinito di Giacomo Leopardi. Si è già notato come il poeta di Recanati abbia ispirato molti dei passi penniani. Il raffronto fra i due scrittori, in effetti, ha aperto fin qui interessanti scenari interpretativi. Nel caso che si vuole ora esaminare, il testo di Sandro Penna presenta delle innegabili affinità con quello leopardiano a diversi livelli, primo fra tutti quello strettamente letterale:

Sebbene il moto del sole
fosse presente e vivo
sembrava il tempo sostare
eternamente.

[…] e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei […]

L’infinito è un testo in cui Leopardi, più che in ogni altro suo componimento, rappresenta il salto che intercorre fra la coscienza vigile e la dimensione estatica. Gli elementi che rimandano alla citazione penniana sono proprio quelli che sintonizzano il testo leopardiano nel momento del passaggio dalla dimensione dell’estasi a quella coscienza, dopo che l’Io poetico si è inabissato nel mare dell’infinito. Anche il testo di Penna sembra rappresentare una dicotomia, e nello stesso tempo una confusione, fra una percezione lucida e razionale e il suo risvolto estatico. Nel breve volgere di quattro versi, infatti, il moto lineare del tempo si ricompatta e resta sospeso nella sosta. Il cerchio quindi si chiude, ma ad un livello che non è più quello della coscienza. La stessa costruzione sintattica respinge la percezione vigile all’interno di una subordinata concessiva. La proposizione principale è caratterizzata da una forma verbale imperfettiva che sottolinea una dimensione di sospensione, rimarcata anche da quel sostare eternamente.

È innegabile, quindi, che i due testi presentino anche una notevole affinità tematica, soprattutto per quanto riguarda il livello più profondo del loro significato. Il poeta moderno, però, condensa fin dal titolo il nucleo principale che marca la differenza con Leopardi: l’attenzione di Penna non è centrata, infatti, sull’indagine della propria interiorità, ma sul lavoro di un pescatore. Il passaggio fondamentale che egli compie è proprio quello del ritorno alla realtà, colta nei suoi elementi più semplici e concreti. La confusione di piani fra il sogno e la lucidità non costituisce più un punto di partenza per una fuga dalla realtà, ma appartiene alla realtà stessa. L’Io poetico che analizza sé stesso ha lasciato dunque il posto all’emergere di un altro punto di vista, che è quello che si forma a partire da uno stretto contatto con le cose del mondo. Un mondo animato dagli uomini, dal loro lavoro, dalla natura, dal paesaggio e dall’armonico fondersi e confondersi di questi elementi senza alcuna soluzione di continuità.

Se i fanciulli, come rilevato, appaiono come piccoli dèi della luce rappresentati nella loro vitalità corporea e a tratti animale che provoca nel poeta uno stupore sempre rinnovato, gli uomini, pur nelle loro variopinte caratterizzazioni, conservano sempre, nell’opera di Penna, un alone di opacità, quasi di stanchezza. È di grande interesse raccogliere una serie di espressioni usate dal poeta per connotare in questo senso l’universo umano:

Mi portano lontano
dal mondo le campane
del vespro. Ma le umane
trite cose? La mano
di quell’uomo al lavoro
su la spiaggia lontana
che già s’abbuia… Umana
tenerezza nel coro. (p. 43)

[…]
Qui tra la gente solita, che muove
il passo verso le solite cose
anch’io mi muovo tra cose non nuove.
[…] (p. 167)

[…]
uomini siamo, più stanchi che vili. (p. 146)

[…] operai e contadini si aggiravano radi là intorno, bambini giuocavano con le solite loro mosse […]

[…] amo la vita del popolo, ma questi spettacoli sono poi sempre gli stessi.

Se mi guardo intorno: le siepi, le strade di campagna, la gente disseminata: le solite cose.

La frequenza dell’aggettivo “solito” e l’insistenza sulle umane trite cose, i costanti riferimenti alla stanchezza e alla mancanza di novità, caratterizzano ugualmente la prosa e la poesia, gettando un alone grigio e malinconico sull’esistenza dell’uomo e sul suo lavoro. Questo aspetto della produzione penniana rientra nella zona nostalgica e umbratile che minaccia costantemente l’esuberanza vitale della luce. Uomo fra gli uomini, il poeta proietta sull’opacità della vita quotidiana la stessa opacità che ossessiona una parte della sua coscienza. La medesima, stanca disillusione grava sulla concezione del rapporto fra i due sessi, verso il quale il poeta assume un atteggiamento piuttosto disincantato:

L’amore dei due sessi
accentua la commedia. (p. 322)

[…] Poi quel sorprendere inutili sguardi, inutili cose tra gli uomini e le donne.

Sempre a questo proposito, sia in prosa sia in poesia il cinema buio è il luogo in cui si consuma l’abbandono della ragazza da parte del compagno, o in cui il fanciullo preferisce seguire l’amico piuttosto che piegarsi alle tenerezze di una giovane:

Era nel cinema, dove le porte
s’aprono e chiudono continuamente.
A quel rumore ella pensò
ch’egli tornasse;
ma non tornò. (p. 319)

Dai posti di avanti si leva una ragazza e, venendoci incontro, nel buio, cerca con la bocca qualcosa: è la bocca del fanciullo che essa bacia per salutare. […] Ma dalla fila di dietro un giovane s’alza e, diretto anche lui al bimbo: ‹‹Vieni con me o resti ancora?›› Il bimbo scatta su e, ansiosamente: ‹‹Con te, con te in motocicletta›› […]

Lo scetticismo nei confronti dei rapporti di coppia fra uomo e donna è rafforzato forse da una certa misoginia, che serpeggia fra le pagine penniane in maniera a volte piuttosto esplicita:

[…] Strillano,
frammiste come sono ai loro cani,
le operaie che lasciano il lavoro.
Saranno forse sceme ma la loro
gioia frutterà come un buon seme. (p. 399)

Alcune ragazzette avevano ormai guastato la mia solitudine […] Dissi al mio amico la sensazione di noia e di angoscia che mi procuravano e lui pronto si mise a cacciarle esclamando convinto: ‹‹Sono sempre delle femmine.››

È l’ora nel sole, è l’ora in cui le donne, nei giardini, disputano lungamente un posto nel sedile pubblico.

Se i giovani operai destano interesse e ammirazione, le operaie sono definite apertamente sceme mentre le ragazzette, a differenza dei divini fanciulli, turbano la solitudine del poeta. Nell’ultimo frammento citato, inoltre, l’afflato lirico che anima l’anafora nella prima parte del periodo, si spegne nella descrizione ben poco poetica delle donne che rumoreggiano per accaparrarsi un posto a sedere. Accanto a note così negative nei confronti dell’universo femminile, a volte il poeta è capace di esprimere un delicato senso di comprensione per la vita operosa delle donne e per i drammi causati loro dagli uomini, come nel caso della lirica intitolata Donna in tram:

Vuoi baciare il tuo bimbo che non vuole:
ama guardare la vita, di fuori.
Tu sei delusa allora, ma sorridi:
non è l’angoscia della gelosia
anche se già somiglia egli all’altr’uomo
che per ‹‹guardare la vita, di fuori››
ti ha lasciata così… (p. 251).

Nello scenario fin qui delineato, in cui la figura femminile assume un ruolo marginale e spesso riduttivo, stupisce quasi la lettura di una lirica dal titolo Adolescenza, in cui l’immagine della donna viene accostata a quella della campagna con note quasi pavesiane:

Nelle notti d’inverno mi tuffavo
nella campagna buia: mi perdevo
come nel caldo di un grembo di donna.

Il componimento reca la data del 28 dicembre 1929, ore 12. A quel tempo Penna non aveva certamente avuto modo di leggere le liriche e i romanzi di Cesare Pavese, ma i versi presi in esame denotano un sentimento quasi mitico e panico nutrito nei confronti della natura, vista in questo caso come madre. Nonostante dalla poesia emerga una sorta di cupio dissolvi reso possibile dal buio della campagna che accoglie e disperde, in altri casi è piuttosto raro che in Penna emerga un forte sentimento panico. Nei confronti della natura, infatti, il poeta assume lo stesso atteggiamento adottato nei riguardi degli uomini: la natura viene costantemente descritta con accensioni fortemente liriche anche nella prosa, e rappresenta, come già indicato, un elemento costante nell’opera penniana. Essa però, pur assumendo a volte il ruolo rassicurante di amica e confidente, è osservata sempre da una distanza incolmabile che divide il poeta allo stesso tempo dagli uomini e dalle cose. L’assenza del poeta è un fattore che agisce in modo sotterraneo e quasi automatico, per cui nessun sentimento di comunione profonda riesce ad annullare lo spazio invalicabile che intercorre fra Sandro Penna e il mondo, sia esso concepito come natura, come amore o come consorzio umano.

In qualche circostanza l’elemento naturale può essere caricato di un valore metaforico. È il caso, ad esempio, del fiume che, definito spesso come amico e confidente, in più di un’occasione diventa metafora del desiderio del poeta:

Ho puntato la brama in ogni luogo.
Sotto la pioggia ho perduto il mio seme.
Ora si gonfia il fiume e in me fiorisce
- straripa il fiume - un desiderio nuovo. ( p. 183)

Il paesaggio naturale, inoltre, così come quello cittadino, non viene mai colto in un momento di frenesia o di stravolgimento. Una calma ovattata sembra infatti avvolgere gli scenari penniani in cui il mare, le nebbie, la pioggia, il fiume, assieme agli uomini e ai fanciulli, sono descritti con una serie di qualifiche in cui prevale prepotentemente l’aggettivo lento. Così nelle pagine di Penna si assiepano il fiume lento, la nebbia lenta, il lento ragazzo, il lento respiro, ma anche la lenta vicenda, il lento gioco, la lenta angoscia.

Scenari, persone, stati d’animo, si caratterizzano tutti per l’estrema lentezza, per la pacata indolenza dietro cui si nasconde forse un principio di dolce rassegnazione, del poeta più che delle cose evocate. Il paesaggio, inoltre, sembra quasi evaporare nell’umidità dell’atmosfera. Non a caso l’aggettivo umido, assieme a lento, ricorre con elevata frequenza nella selettiva scrittura penniana.

Nonostante la ripetitività del lessico e degli scenari abbozzati, però, Sandro Penna non si lascia mai sedurre da un linguaggio facile e impreciso, acceso soltanto da scontati voli lirici. Il vocabolario penniano, infatti, appare costantemente esatto e cristallino, soprattutto quando indulge nella descrizione di particolari umani e paesaggistici:

[…]
con gli occhi di quel cielo puro e fermo. (p. 154)

La precisione di tale linguaggio è facilmente riscontrabile sia nella prosa che nella poesia, quasi che Sandro Penna volesse riportare sulla pagina la solidità degli scenari da lui celebrati. E in effetti una forte sensazione di concretezza e precisione deriva dall’immagine del cielo puro e fermo, delle chiari, molli, lente nuvole, del sole che riappariva a rari intervalli e poi le grosse nuvole rioscuravano la terra. Da alcuni passi penniani, inoltre, affiora quasi distrattamente anche un certo interesse per la scienza e le sue leggi, a testimonianza di un rapporto con il mondo non superficialmente ingenuo:

Ripensai alla legge fisica del lento propagarsi dei suoni in confronto delle luci, e mi spiegai così il fenomeno. Il quale non cessava però di essere bello e misterioso per me.

Il mistero permane appena sotto il velo delle verità conclamate dalla scienza, ma non apre le porte di un fantomatico altrove magico e incantato. Piuttosto esso fa parte delle cose, così come i canti che risuonano lontano nell’oscurità, così come il divino splendore dei fanciulli. La poesia e la prosa di Penna, infatti, pur protese verso l’origine e la bellezza delle cose, non si arrogano mai il diritto di sublimare il reale, né tantomeno di renderlo incontaminato: esso lo è già, intriso di ombra e di luce, misterioso e rigidamente regolato, puro nei suoi orinatoi e nei suoi odori guasti, nelle sue virtuose perversioni. Il mistero e la bellezza evocati dalla poesia non aprono voragini fantastiche, non coprono lo squallore del mondo. Agli occhi innocenti e insieme scaltri del poeta il mondo stesso è bello e misterioso, puro e poetico. La quotidianità opaca delle case popolari, degli ospedali, delle stazioni, delle officine, infatti, non è così diversa dallo splendore esuberante degli scenari naturali che incantano le pagine penniane. L’attenzione che Penna riserva agli uomini e alle cose, come si è ripetutamente notato, non conosce preferenze di tipo gerarchico. La prosa e la poesia accolgono senza censure ogni cosa del mondo, costituendo due poli di un discorso unitario e compatto. Si è già osservato come, nella trattazione della figura umana, il linguaggio poetico diventi più rarefatto e meno analitico rispetto alla prosa, pur mantenendosi ugualmente denso ed efficace. Nella prosa, infatti, l’Autore si abbandona spesso a riflessioni e a descrizioni maggiormente particolareggiate. Questo atteggiamento permette di ipotizzare ancora una volta un rapporto di dipendenza che dalla prosa influenza i versi, e non viceversa. La capacità sintetica espressa nelle poesie, infatti, presuppone un lavorìo di riduzione che parte proprio dalle divagazioni espresse nei racconti. Tale ipotesi non è purtroppo suffragata da prove incontrovertibili ma, data la natura del materiale scrittorio lasciatoci da Penna, appare la più logica.

Dall’analisi dei testi penniani, inoltre, sembra emergere un atteggiamento forse non del tutto volontario ma a tratti geniale: prosa e poesia si riflettono l’una nell’altra chiarendosi, completandosi, lasciando aperto un margine interpretativo talvolta inquietante, talvolta illuminante. A volte le tracce lasciate da Penna sembrano essere concepite per creare confusione, e invece costituiscono preziosi indizi che lasciano presupporre l’esistenza di un disegno complessivo sotteso alle opere e lasciato forse volutamente incompleto. Anche in questo caso non si tratta che di un’ipotesi, ma non si è forse troppo lontani dal vero se si sostiene che la poesia, nata dalla prosa, costituisca di essa un progressivo chiarimento che in alcuni casi può anche sortire un effetto straniante, ma pur sempre efficace ai fini di una più profonda comprensione. Viceversa, non bisogna dimenticare che anche la prosa, se letta in relazione alla poesia, può offrire preziosissime possibilità interpretative.

Personaggi e scenari naturali o antropomorfi costituiscono elementi costanti nell’opera penniana, che molto spesso da essi trae linfa e ispirazione. Le riflessioni sollevate da tali soggetti, però, confluiscono in una concezione teorica in cui l’amore nelle sue varie forme sembra assumere un ruolo unificante e totalizzante. È il poeta stesso, infatti, a rivelarci di amare ogni cosa del mondo, e di avere un bianco taccuino sotto il sole come unico mezzo per esprimere tale amore. Amore e scrittura sono dunque inestricabilmente connessi, e costituiscono il sostrato anche teorico di tutta la produzione penniana. Attraverso il raffronto fra prosa e versi, resta dunque ora da chiarire come Penna concepisca l’amore in senso assoluto e in rapporto alla scrittura poetica.


Theorèin - Novembre 2007