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Rapporto fra prosa e poesia
in relazione alle tematiche dell'amore e della poesia
‹‹Poeta esclusivo d’amore››
Agli occhi di Sandro Penna amore e poesia appaiono come due elementi fra loro fortemente concatenati, inscindibili l’uno dall’altro. Il sentimento amoroso, infatti, informa i versi e i racconti del poeta perugino in modo pressoché totalizzante, assumendo svariate forme. Nella poesia citata, Penna si preoccupa proprio di precisare quale sia l’effettiva natura del suo amore, concetto così complesso e sfumato da non poter essere caratterizzato in maniera troppo esclusiva. L’amore sensuale rivolto ai fanciulli è senza dubbio la forma più evidente che il sentimento assume nell’opera del poeta, ma non è certo l’unica. Il vento, l’erba, i rumori, la città, le nuvole calde, sono anch’essi amore, amore pieno e ardente. In quest’ottica l’amore cessa di apparire come un sentimento autonomo e unilaterale che Penna riversa sulle cose per diventare essenza profonda delle cose stesse. Esso è cantato dal poeta poiché costituisce la sostanza primaria del tutto, e dunque anche della poesia. Distinguere le varie sembianze che il sentimento amoroso assume nelle pagine penniane è un’operazione forse un po’ troppo riduttiva e schematica, ma forse utile ad individuare quale fosse il vero valore attribuito dal poeta all’idea assoluta dell’amore e conseguentemente della poesia. In merito alla questione riguardante il legame fra amore e poesia, più che in ogni altro caso la prosa si pone come solido sostegno teorico su cui appoggiare le possibili interpretazioni dei versi. Sandro Penna, infatti, ha inserito dichiarazioni di poetica più o meno esplicite in molti passi della sua opera. In quest’ottica, il dialogo fittissimo intrecciato fra le varie espressioni della scrittura penniana risulta essere oltremodo prezioso, soprattutto perché nei brani raccolti in Un po’ di febbre le questioni metapoetiche assumono in più di un caso un vero e proprio spessore teorico. Alla luce di tale premessa, bisogna ora rilevare che il sentimento espresso nei versi sopra citati viene delineato in modo esplicito anche nella prosa , confermando così una predisposizione d’animo ben definita: Il giorno: amore della folla. La sera ho quasi paura di esser solo. E sento che è sempre amore. […] Sento con lucidità l’amore della città come persona, la città per la sua luce estiva, i suoi ragazzi che sento come compatti, cellule di un solo organismo, ed io estraneo, innamorato che si meraviglia che la persona amata stava vivendo all’infuori di lui! L’amore nutrito per la città, in questo caso Roma, si fonde con quello rivolto alla luce e ai fanciulli che della città fanno parte. Rispetto alla metropoli questi elementi si costituiscono come cellule di un unico grande organismo. La folla, la città, la compattezza di un’unica grande vita che respira in modo autonomo e soprattutto estraneo rispetto al poeta, evidenziano un atteggiamento tipico e costantemente riscontrabile nell’universo penniano. L’Io poetico e il mondo, infatti, sono distanti, e fra di loro intercorre lo spazio dell’amore. Nel 1946 Sandro Penna, collaborando a ‹‹Campi Elisi›› e ‹‹Maestranze››, inviò a Francesco Flora le prose Il sonno del povero e Ragazzi, dal titolo complessivo di Viaggio in Ciociaria, accompagnate da una lettera in cui un passaggio appare fondamentale: Se il titolo, così generico, non le va (è una mia mania non riferire mai nomi geografici) potrebbero mettere semplicemente questi due versi (sono miei) senza indicazione dell’autore: ‹‹Ero solo nel mondo e non avevo / che il mio bianco taccuino sotto il sole›› . Nella versione definitiva del distico (Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo / che il mio bianco taccuino sotto il sole) il senso di solitudine è sostituito dal sentimento transitivo dell’amore filtrato programmaticamente attraverso la scrittura, unico strumento concesso al poeta. L’accostamento fra le prose e la lirica appare in questo caso altamente significativo, ponendosi come dichiarazione esplicita della sostanziale continuità fra le due forme espressive. La proposta di Penna indica anche l’estrema coerenza di un pensiero e di un atteggiamento poetico: ciò che lega poesia e mondo è l’amore, e solo in virtù di questo legame il poeta può porsi come tale. Ancora una volta, dunque, emerge l’idea di un interesse rivolto a tutti gli aspetti del mondo, senza alcuna distinzione. In virtù di una simile concezione persino la solitudine può essere concepita come amore. A conferma di ciò, Penna lascia intendere chiaramente che restare distanti dall’oggetto del proprio desiderio non compromette l’innamoramento: Sempre affacciato a una finestra io sono,
L’immagine emblematica della finestra rimarca con convinzione il concetto dell’assenza. La finestra permette infatti di guardare, mai di partecipare. Al tempo stesso, però, restare affacciati ad una finestra permette di amare. Anche in questa circostanza l’oggetto d’amore è costituito dalla vita stessa . Non a caso il discorso sull’amore si lega nel terzo verso a quello della poesia, confermando ancora una volta la sostanziale identità fra i due elementi. Il dono conferito al poeta consiste nell’unire parole ed uomini e, più in generale, parole e mondo inteso nella sua totalità. Una tematica frequentemente connessa alla sfera del sentimento amoroso è senza dubbio quella incentrata sull’idea del bello, che, in vari casi, può legarsi anche alla riflessione teorica sulla poesia. Nel suo approccio con il reale concepito come oggetto d’amore, però, Sandro Penna non crea mai gerarchie dovute al criterio della bellezza. Questo aspetto della sua poetica non solo è confermato fattivamente dalla disponibilità ad accogliere in poesia elementi formali e tematici di ogni genere, ma è anche ribadito con chiarezza in un passo tratto da Un po’ di febbre in cui l’autore, come accade di frequente, in modo apparentemente ozioso fa luce su alcune problematiche-chiave della sua opera: […] E del resto non ho mai capito quello che è bello e quello che è brutto. Mi pare che tutto quello che esiste sia bello perché esiste o, anche, sia brutto per la stessa ragione, secondo l’animo ma non in se stesso. Ma io non sono un esteta. Lo sono un poco riguardo alla bellezza delle persone, e non ammetto nasi torti o pelli vizze […] Nel passo citato, tratto dal racconto Passeggiata notturna, in primo luogo Sandro Penna afferma di non avere una particolare cognizione di ciò che è bello: ogni cosa che esiste è bella proprio perché esiste, e dunque, conseguentemente, è degna di poesia. Il poeta aggiunge poi un particolare non trascurabile che riguarda ciò che è brutto. Nulla è brutto in sé e per sé, ma solo secondo la percezione che se ne ha. Qualunque cosa può essere bella solo perché esiste o brutta per lo stesso motivo. Soltanto l’esteta può attuare simili distinzioni, non il poeta. Significativamente, nella poesia La lezione di estetica (p. 259), Penna stigmatizza con ironia le pretese dei critici d’arte di stabilire il concetto di bello assoluto: ‹‹Ma che bellezza c’è nella poesia?››
La rappresentazione buffa del vecchio signore che cerca nel mondo e forse fuori belle cose sempre più belle, si conclude con la distinzione fra due differenti forme d’amore. L’amore del critico per la poesia da lui definita bella si contrappone infatti frontalmente all’amore tutto terreno del poeta, che teneramente chiede un bacio all’ignoto interlocutore senza preoccuparsi di stabilire un legame con quanto argomentato nel corso della poesia, quasi che la riflessione sulla bellezza fosse solo un pretesto poco interessante per iniziare un discorso letterario che non riveste alcuna importanza in presenza di chi ascolta e guarda in attesa di tendere un bacio. I versi esaminati ripropongono con forza quanto affermato nella prosa: in poesia non esistono il bello o il brutto, e soltanto un buffo vecchietto che risponde al nome di critico può sollevare oziose questioni a riguardo. L’unica eccezione ammessa a questo proposito è costituita dalla bellezza delle persone. A differenza delle cose, infatti, le persone possono generare amore, dunque passione, solo se sono belle. Arrivati a questo punto, il passaggio che si compie è fondamentale, e riguarda il nocciolo duro della produzione penniana. Finora, infatti, si è sostenuto che la scrittura di Sandro Penna non conosce gerarchie fra i vari elementi in essa presenti, tutti legati da un sentimento d’amore costante e, si direbbe, uniforme. La discrepanza esistente fra amore per il mondo e amore sensuale, però, crea evidentemente una scala di valori: i discorsi del critico vengono accantonati con estrema disinvoltura a favore del contatto diretto costituito da un bacio. Nel brano precedentemente citato da Un po’ di febbre, e tratto dal racconto intitolato Passeggiata notturna, accanto alla convinzione che ogni cosa nel mondo possa essere indifferentemente bella o brutta viene avanzata inoltre una distinzione ben precisa riguardante la bellezza umana. È evidente che il vagheggiamento della perfezione nella figura umana è strettamente legato all’idea dell’amore. La poesia può dunque occuparsi di ogni cosa che esista al mondo, perché ogni cosa è degna d’amore. L’unica eccezione riguarda l’amore sensuale, nei confronti del quale si modifica la concezione stessa della poesia, e in maniera sostanziale. A questo proposito, infatti, è molto interessante notare come Penna spesso rinunci a descrivere la bellezza dei fanciulli da lui amati, denunciando apertamente l’inadeguatezza di ogni mezzo linguistico a questo fine: Egli è un angelo e non voglio descriverlo. Giorgio è molto bello, e perché dunque descrivere i suoi lineamenti? […]
I frammenti citati testimoniano esplicitamente la volontà da parte di Penna di non descrivere la bellezza, verosimilmente a causa di un difetto di capacità della parola non meno che del poeta. La parola, infatti, non sembra essere adatta a rappresentare la bellezza umana che coinvolge sentimentalmente l’Autore, dunque egli non può far altro che arrendersi di fronte a questo limite insormontabile: […]
Le parole secche sono parole morte, prive della forza che permetta loro di levarsi in canto per sfogare il dolore. Significativamente, al tentativo fallito di comporre parole, subentra l’eco dei cani. Si è già rilevato come a volte il poeta si identifichi negli animali, soprattutto nei cani. L’accostamento delle secche parole all’eco dei cani assume ora un forte valore metapoetico indicante l’impossibilità per la parola di comunicare in modo razionale, chiaro ed adeguato la profondità dei sentimenti. Esiste dunque una zona oscura poco accessibile alla poesia, ed è la fonte della poesia stessa. Per il poeta ogni cosa è degna d’amore nella chiarezza solare della sua esistenza, ed ogni cosa in effetti lo innamora e trova diritto di cittadinanza nella sua poesia, incluso il lessico tratto dal repertorio della più bassa quotidianità. Allo stesso tempo, però, l’amore sensuale decreta quanto meno la discutibilità di ogni parola. Di fronte ad esso, sia concepito come bellezza del fanciullo amato o come dolore, il poeta dichiara infatti fortemente indebolita la sua capacità di espressione. Nella mente di Penna, dunque, se non esiste una scala gerarchica di valori fra gli aspetti del reale, sussiste invece una dittatura da parte dell’amore terreno, fonte ineffabile della poesia, rete che avvolge ed inquieta il tutto , chimera inafferrabile e tirannica. L’amore per i fanciulli costituisce dunque un elemento gerarchico che si pone come tale non rispetto agli aspetti concreti del mondo, dato che i fanciulli ne fanno intimamente parte, ma rispetto alla poesia. A questo proposito sono molto frequenti da parte di Penna riferimenti anche espliciti alla scarsa pregnanza della scrittura al cospetto dei fanciulli. Un brano molto significativo in questo senso è quello intitolato Il racconto, in cui viene narrato un episodio che vede come protagonista Giorgio , giovane scrittore che, fiero di aver pubblicato il suo primo racconto su un giornale, deve arrendersi alla fredda indifferenza per la sua opera da parte del fanciullo da lui amato. Inizialmente Giorgio sottopone con soddisfazione il racconto al suo padrone di casa ma questi, nonostante l’apparente entusiasmo, mostra di non apprezzarlo adeguatamente. Di fronte all’indifferenza del signor Antonio, appassionato di politica e ‹‹parole incrociate››, Giorgio si prende la sua momentanea rivincita grazie all’ammirazione da lui suscitata nel piccolo Pierino, che quando ebbe letto il grosso titolo e il nome di Giorgio in fondo, così bello stampato, guardò il giovane autore con tacita ammirazione, come se lo avesse visto a braccio di una ragazza: era già grande lui! […] La vanità del giovane autore otteneva dunque una piccola vittoria, finalmente. L’interessamento di quel ragazzo che egli amava gli appariva adesso più sincero di tutti. […] Lui lo aveva sempre detto che l’arte è una cosa ingenua, un dono di Dio, una cosa che è meglio compresa dagli esseri semplici come i ragazzi, che dai ‹‹grassi borghesi››. L’illusione di Giorgio riguardo alla comprensione dell’arte da parte dei ragazzi è destinata purtroppo a spegnersi presto: Giorgio si sentiva finalmente come rassicurato, quasi felice d’essere amato. Ma quando entrò per salutarlo trovò il suo giovane amico immerso nella lettura di un libro, il suo giornale essendo buttato là da una parte. […] Accorato, domandò chiaramente: ‹‹Il raccontino non lo leggi?›› ‹‹Oh! È una noia,›› […] ‹‹No, no. Hai ragione›› riconobbe malinconicamente Giorgio. E non poté fare a meno di dare un bacio al fanciullo. Come accade nella poesia La lezione di estetica, la scena si chiude con il riferimento ad un bacio. Di fronte all’esuberanza del ragazzino, che preferisce leggere un romanzo d’avventura di Salgari, il giovane protagonista non può fare altro che arrendersi amorevolmente. Il racconto di cui Giorgio va tanto fiero, infatti, perde qualunque valore di fronte all’ingenuità sincera e un po’ crudele di Pierino. Dovendo scegliere fra l’amore del fanciullo e l’orgoglio personale dovuto alla letteratura, Giorgio accetta di riconoscere la mediocrità della sua opera. In questo, come in altri casi, Sandro Penna ironizza chiaramente sulle convinzioni romantiche dello scrittore, che crede ancora nell’ideale omerico del poeta ingenuo e nella purezza evangelica dei fanciulli. Una situazione simile a quella narrata nel racconto si ripresenta in poesia con variazioni che non ne modificano il senso: Il fanciullo che ascolta nei libri
All’ascolto degli antichi canti d’amore il fanciullo preferisce la visione di un vetro rotto che brilla sul tetto. La reiterazione del verbo guarda alla fine del terzo verso e all’inizio del quarto sottolinea l’atteggiamento del piccolo protagonista che non capisce niente di quanto sta leggendo e per questo si lascia facilmente distrarre da elementi visivi forti e concreti, come il tramonto che accende la scheggia di vetro. Nel finale poi, la carne viene assimilata significativamente ad un bianco diario. La sensualità accesa del fanciullo sostituisce eloquentemente quindi proprio l’atto della scrittura. Nel brano Psicologia personale , inoltre, Penna narra del suo tentativo di avviare un discorso con un ragazzino cercando le parole adatte a destare il suo interesse: Bada bene però: entusiasmo sportivo, cittadino, sempre per cose reali, se no…il ridicolo, o almeno la noia se cadi in intelligenza, in sentimento, in discorsi che in te premono, ma lascerebbero in loro falso odore di carta. Il falso odore di carta è un’espressione molto pregnante, e testimonia in modo inequivocabile la scarsa capacità di qualunque scrittura di avvicinare la vitalità fervida dei fanciulli, al cospetto della quale qualsiasi preoccupazione degli adulti, compresa quella artistica, genera noia: […] Pensavo come evidenti siano le ragioni dell’amore che tutti portiamo ai giovani. Essi hanno la vita, che a noi tutti piace. E non hanno altro piacere che di scambiarla con la nostra povera noia. I giovani senza dubbio sono parte integrante del mondo, partecipano della sua esistenza, sono cellule di un solo organismo, eppure l’amore concreto nutrito nei loro confronti è di un genere diverso rispetto a quello rivolto al resto del creato. Nel capitolo precedente si è messo in evidenza come la vita quotidiana degli uomini sia intessuta spesso di stanche consuetudini che le conferiscono una certa opacità. Per contro, i fanciulli sono simili a piccoli dèi della luce, quindi della vita. Solo i fanciulli sono i veri depositari della vita e dell’amore che genera la poesia. Per questo motivo Penna si lascia spesso andare a riflessioni sull’intrinseca inadeguatezza della letteratura e delle composizioni in versi. La poesia, infatti, al pari del poeta, può cantare il reale soltanto da una certa distanza. Qualunque tentativo di comunione profonda con esso e soprattutto con l’oggetto d’amore è destinato a fallire, perché la parola non riesce a sostituire la vita pulsante e dirompente dei fanciulli. In ultima analisi, il limite invalicabile della poesia è costituito precisamente dalla fonte originaria della poesia stessa: l’amore sensuale è la condizione imprescindibile grazie alla quale nascono i versi, eppure esso si pone come elemento noumenico inconoscibile nella sua essenza, quindi intimamente non comunicabile. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, però, in una simile concezione del sentimento amoroso non c’è quasi nulla di languidamente romantico. I fanciulli, con l’amore che suscitano, creano una faglia nella poesia di Penna, costituiscono la maglia che non tiene, lo squarcio che apre nuove prospettive di vita, l’unico elemento gerarchico indispensabile a reggere le fila dell’intero complesso penniano. Il ruolo dei ragazzi, però, non si sottrae alle leggi del mondo e della naturalità, e di conseguenza l’amore sensuale il più delle volte appare inesorabilmente lontano da qualsiasi forma di idealizzazione. Nonostante questo, la poesia di Penna non conosce il senso della colpa, e quello del peccato vi è inserito in modo soltanto coatto perché fa parte delle convinzioni e delle leggi artificiali degli uomini. A questo proposito, la naturalezza dell’amore viene spesso stigmatizzata dalla morale comune che agli occhi di Penna risulta invece falsa e perversamente corruttrice: Due ore e più sempre a camminare e durante le quali ho avuto la forza di non toccarlo, di non fare un ragionamento che la triste legge direbbe poi corruttore. […] Ma quest’angelo, non era lui per corrompere me? Fuggono i giorni lieti
La sensualità agli occhi del poeta è un gioco innocente, puro nella sua mancanza di malizia. Il peccato e la colpa non sono sentimenti originari ma indotti forzatamente, impressi nelle coscienze degli adulti dagli adulti stessi. Solo i fanciulli conservano il senso autenticamente originario e ingenuo della sensualità: Lascia l’orinatoio il giovanotto
La negligenza adorabile è sintomo di un atteggiamento naturale e primario che non ammette censure né barriere. Anche in questo caso emerge prepotentemente l’idea dell’origine come asse portante dell’intera poetica penniana. Nella concezione di Penna, però, l’origine non ha nulla di idilliaco o di edenico. La crudeltà, ad esempio, è il crisma che segna ineluttabilmente la naturalezza, è il dato originario che marchia a fuoco ogni autentico rapporto umano e carnale. L’elemento della crudeltà affiora continuamente nell’opera di Penna, ed è spesso contrapposto alla poesia, secondo la logica precedentemente esposta per la quale qualunque sentimento viscerale nutrito nei confronti dei fanciulli è difficilmente traducibile in versi, poiché questi ultimi potrebbero suonare falsi e incolori. La poesia stessa, in effetti, nelle argomentazioni del poeta appare talvolta quasi avvolta da un alone mistico e sacro che ne esalta e allo stesso tempo comprime le potenzialità: (Faccio una poesia quasi religiosa, ma sempre partendo dalla contemplazione di un’‹‹umana figura››.) La nota metapoetica inserita nel brano Tutte storie trova parziale riscontro anche in altri luoghi penniani, confermando un afflato religioso mai completamente espresso: Dico Signore e poi non so cos’è
E io, allora, come farò? Tutto per me il mio amore? […] La poesia. Ecco la vera essenza. Più soli di un santo! Ma cosa vorrei, infine, da te? Baci non mi sazierebbero. Niente mi farebbe entrare in te, veramente, più di così… A meno che io non ti sbrani. Forse se ti torturassi infinitamente… sarebbe questo l’unico possesso vero. […] Imploreresti cogli occhi di lacrime. Ma io non cederei per non far scemare il tuo amore per me. E che colpa ho io, fanciullo divino, se Natura vuole così? Io non sono cattivo. Questo è l’amore, vieni. Il brano citato è tratto dalla prosa intitolata Verità , tutta articolata sulla base del rapporto fra poesia e amore. Fin dalla prima frase, in effetti, viene stabilito un legame fra il fanciullo, la bellezza e la poesia: Fanciullo bello della bellezza delle mie più belle poesie. La bellezza del fanciullo e quella della poesia sembrano inizialmente coincidere, ma quest’impressione è destinata a svanire. La poesia, infatti, prescinde dal possesso e genera una solitudine molto simile a quella ascetica. La vera essenza della poesia è dunque l’assenza, la distanza contemplativa che non permette alcun contatto. A conferma di quanto precedentemente esposto, il poeta dichiara esplicitamente di poter comporre soltanto quando è solo a consumare un amore sterile. L’unico possesso vero, infatti, sarebbe reso possibile soltanto dalla crudeltà di un’infinita tortura perpetrata ai danni dello splendido fanciullo. In una visione di questo genere non c’è spazio per alcun senso di colpa perché Natura vuole così. Questo è l’amore. Fra Natura e poesia si genera dunque un distacco nettissimo che implica l’impossibilità da parte dell’espressione lirica di assecondare l’istinto. L’elemento ancestrale della crudeltà riemerge con toni crudi e aspri anche nella poesia: È la terra assolata dove giace
Theorèin - Dicembre 2007
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