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Peccato di gola
Peccato di gola, raccolta pubblicata nel 1989, esercita su chiunque le si accosti un fascino sottile dovuto sia alla voluttuosa ambiguità del titolo, sia al mistero che avvolge il suo percorso compositivo ed editoriale. L’avvertenza che precede le 26 brevissime poesie, conserva tracce di un’intrigante clandestinità da cui i preziosi componimenti sono stati tratti alla luce, pervenendo ad una pubblicazione che ne chiarisce solo in parte la genesi. Poche righe spiegano infatti che il destinatario dei versi, indicato con l’iniziale G., era figlio di un amico di Penna, ed era giunto a Roma da Perugia poco più che ventenne . Fra il giovane e il poeta sbocciò a poco a poco quella che viene definita un’amicizia amorosa, intensa e sofferta quanto clandestina. Vicino alla laurea, G. decise improvvisamente di interrompere gli studi e di tornare in Umbria. Sandro Penna iniziò così ad inviargli delle lettere che egli riceveva al fermo posta di Perugia. In ventisei delle trentaquattro missive erano presenti brevi componimenti lirici, spesso non più di distici. Il destinatario, senza uscire dall’anonimato, dopo molti anni decise di rendere pubbliche le poesie suggerendo come titolo un emistichio tratto da una di esse.
Le informazioni possedute riguardo alla raccolta sono dunque molto vaghe ma alquanto preziose. In margine all’apertura, infatti, una telegrafica nota fornisce ulteriori elementi chiarificatori: I numeri romani indicano una sequenza cronologica, desunta dalle date sulle lettere o dal timbro postale. Nelle lettere, le poesie sono inserite in contesto, continuando quasi sempre il discorso in prosa, tuttavia agevolmente estraibili in quanto i versi sono disegnati in forma poetica, oppure chiaramente indicati da una barra (/) che segna il capoverso. Le poesie X, XIV, XIX, e XXIV formano – insieme, di seguito, - un sonetto con lo schema: AAAA/BBBB/CCC/DDD. Ciascuna delle informazioni fornite merita una considerazione particolare. La dichiarata sequenza cronologica, in primo luogo, permette di stabilire con buona approssimazione i confini temporali entro i quali sistemare le composizioni. Annamaria Bonanome, nel saggio Peccato di gola pubblicato in ‹‹Studi novecenteschi›› , tenta preliminarmente di ricostruire proprio lo sfondo cronologico delle composizioni collocando l’incontro fra il poeta e G. nei primi anni cinquanta . Il giovane si era recato nella capitale per iscriversi alla Facoltà di Lettere, ma aveva poi abbandonato gli studi alle soglie della laurea. Verosimilmente, dunque, le epistole e le relative poesie risalgono alla fine del decennio. A quell’altezza Penna aveva già dato alla luce gran parte dei suoi lavori l’ultimo dei quali, Croce e delizia (1958), segnava l’inizio di una lunga fase di silenzio editoriale interrotto soltanto dodici anni dopo con la pubblicazione di Tutte le poesie (1970). L’aspetto forse più interessante è però quello legato all’effettiva genesi dei versi, inseriti nel preciso contesto rappresentato dalle lettere. Il curatore avverte infatti che le poesie non sono autonome rispetto al flusso epistolare e anzi ne proseguono il discorso pur mantenendo un’inequivocabile forma poetica. L’impossibilità di accedere al contenuto delle lettere probabilmente comprometterà per sempre l’indagine sull’autentica natura delle poesie in questione, nate dalle viscere di un discorso destinato a giacere nell’oscurità e a celare la trama originaria che le ha generate. La provenienza dei componimenti, però, offre un interessantissimo spunto riguardante l’opera del poeta perugino nel suo articolarsi fra prosa e poesia. Il rapporto fra le due forme di scrittura, infatti, in questo caso - limite assume una proporzione di enorme evidenza. Il fatto che Penna, in un esercizio di scrittura così intimo e personale come può essere quello epistolare, abbia inserito dei versi funzionali al discorso, è un segnale molto forte che indica come la prosa e la lirica fossero compresenti e in buona sostanza interscambiabili agli occhi del poeta. I componimenti presenti in Peccato di gola sono stati letteralmente partoriti dalla prosa, prelevati a forza dalle acque materne di un discorso che le comprendeva lasciandosi allo stesso tempo completare da esse. Questa osservazione non autorizza però a pensare che Penna non attuasse significative distinzioni fra le due forme di comunicazione. Le poesie, infatti, non sono ricavate “a orecchio” da una lettura volta a cogliere le accelerazioni liriche di un brano, ma sono inequivocabilmente rese riconoscibili grazie a precisi segni grafici che ne attestano la natura. Quando la poesia sorge, dunque, è un frutto totalmente maturo e autonomo nella sua veste formale, anche se il contenuto prosegue il concetto delineato nella prosa. Questo rapporto di filiazione, indagato nei capitoli precedenti a partire da opere fra di loro formalmente distinte, frutto di una volontà sistematrice e divulgatrice, si propone prepotentemente, miracolosamente quasi, nella forma privata e spontanea della lettera d’amore nella quale la poesia si offre in una struttura solida e riconoscibile generata dal flusso della parola prosastica. È fin troppo ovvio sottolineare il fatto che ciò che distingue le due modalità espressive sia la forma, eppure, da un certo punto di vista, la questione non appare del tutto oziosa. Penna non aveva in mente di pubblicare le poesie presenti nelle epistole, e questo dato appare incontestabile. Per quale ragione, dunque, avrebbe dovuto conferire alle sue liriche una così decisa veste formale? Qual è il motivo per cui, seguendo il filo di un discorso prosastico, Penna ha sentito l’esigenza di condensarlo nella folgorante sintesi del verso? Più che in qualunque altro caso, presumibilmente, nelle lettere inviate al misterioso G. la poesia sgorga gocciolante di viva passione, eppure, nell’urgenza di comunicare un sentimento tanto intenso, il Poeta ha deciso di intervenire facendo valere tutta la specificità del suo lavoro. Il fattore che qualifica l’attività poetica di Penna è rappresentato proprio dalla volontà di elaborare e scandire la forma di ciascuna composizione. Nessuna spontaneità espressiva potrebbe giustificare una mancanza in questo senso. La cesura fra prosa e verso appare dunque necessaria agli occhi di Penna che ancora una volta stabilisce, sia pur nell’assenza di una volontà concettuale, l’autonomia della parola poetica rispetto a quella prosastica. La continuità tematica, infatti, è spezzata lucidamente dalla specificità formale. Probabilmente le lettere in questione non reggerebbero una pubblicazione indipendente dalle poesie. Queste ultime, invece, si compongono in una raccolta che può addirittura contemplare una sorprendente contiguità metrico – formale. È il caso, ad esempio, delle liriche X, XIV, XIX, e XXIV che a distanza compongono un sonetto dallo schema metrico regolare. È pur vero che i versi conservano un’opacità di fondo che soltanto le lettere potrebbero dissipare, ma questo dato non compromette la loro autonomia e leggibilità. Allo stesso modo, come si è visto, le prose pubblicate dal poeta chiariscono spesso le occasioni e le riflessioni sottese alla produzione poetica, ma quest’ultima, presa singolarmente, non lascia trasparire i segni del lungo apprendistato linguistico e concettuale svolto sulla scorta del discorso narrativo. Le ventisei liriche di Peccato di gola seguono il filo della storia d’amore vissuta dal poeta e dal giovane G., costituendo quindi una sorta di Canzoniere generato da un’occasione ben definita. Il curatore ha suddiviso la raccolta in quattro sezioni, tre delle quali introdotte da versi tratti dall’Inferno e dal Purgatorio danteschi. La seconda sezione, invece, porta il titolo complessivo di Un’estate, e comprende le liriche VI VII VIII e IX, che insieme narrano l’evoluzione del sentimento amoroso del poeta nei mesi che vanno da maggio ad agosto. Da un punto di vista strettamente formale, le poesie richiamano molto da vicino l’intero repertorio penniano, dal tono minore dei giochi di parole all’intensità delle opposizioni ossimoriche e delle note sentenziose che rivelano appieno la vena sapienziale insita nell’operare del poeta perugino. Sul piano tematico, tornano i più tipici luoghi penniani rappresentati da treni, stazioni, ambienti acquatici e cittadini. Ciò che colpisce maggiormente in Peccato di gola è la sensazione di una viva contingenza sottesa a ciascun componimento. Più che in ogni altra opera penniana, infatti, le poesie in questione nascono da un’occasione ben definita almeno nelle sue linee generali. I luoghi e le circostanze, dunque, formano in questo caso un puzzle misterioso ma allo stesso tempo completo, nel quale ciascun elemento risulta indispensabile. In un contesto del genere, nato da un’urgenza di portata senza dubbio differente rispetto a quella che ha potuto originare le opere destinate alla pubblicazione, è quanto mai interessante esaminare le modalità del poetare penniano dal punto di vista tematico e formale per verificare l’effettiva coerenza che sta alla base del lavoro svolto dal poeta. In primo luogo bisogna rilevare che il repertorio tematico presente nella raccolta è subordinato alla rappresentazione del medesimo universo concettuale riscontrabile nell’intera opera penniana, a partire da alcuni elementi topici come quello del viaggio e della condizione appartata del poeta rispetto al mondo: Povero, certo: ricco di anatemi
Le coordinate spaziali in cui è inserita la scena rappresentata sono indicate con abbondanza di particolari. La stazione Termini offre la cornice per un addio fra il poeta e l’oggetto del suo amore. Il treno rappresenta ancora una volta l’elemento dinamico che permette lo slittamento di piani fra la condizione esistenziale del poeta e il mondo circostante. Nel caso specifico, però, il riferimento ad un episodio condiviso da Penna e il destinatario della lettera implica un rovesciamento di prospettiva che lascia comunque inalterato il nucleo centrale del discorso: in questa circostanza, infatti, colui che parte non è il poeta, ma il ragazzo. Il treno proietta il giovane in una dimensione indefinibile, in un altrove precluso al suo amante. Il quinto verso esemplifica mirabilmente il dislivello profondo che separa la condizione dei due protagonisti della scena. Il verso, infatti, è inciso da un segno di interpunzione forte che lo spezza in due emistichi, ciascuno dei quali rappresenta a livello concettuale una particolare dimensione. La parziale struttura a chiasmo evidenzia la dicotomia fra il “Tu” posto a inizio verso e l’io in posizione debole oscurata dal verbo “rimango”, fra l’altrove indefinibile e la concretezza della stazione Termini. Il primo emistichio, inoltre, costituisce quasi un elemento a sé stante, lasciato come sospeso nella sua intangibilità. La seconda parte del verso, invece, esemplifica la condizione di chi è costretto a restare nella propria dimensione attraverso l’impiego di un “enjambement” finalizzato a rimarcare con decisione il senso di un legame costrittivo e necessario che non permette di raggiungere l’oggetto del proprio desiderio. La presenza del poeta nella stazione si rovescia ancora una volta in una forma più sottile di assenza rispetto a ciò che gli è veramente caro. La seconda sezione di Peccato di gola, dal titolo Un’estate, attesta ancora una volta la presenza della tematica legata al trascorrere del tempo e delle stagioni, e permette di verificare la validità teorica delle conclusioni raggiunte nei capitoli precedenti. Le quattro poesie che compongono la piccola serie rappresentano altrettanti episodi appena accennati, frammenti vivi di una storia d’amore consumata fra maggio e agosto. L’apertura del componimento VI, oltre che serbare una forte eco leopardiana, ricorre in altri versi penniani in maniera molto simile: Era maggio, tremavo l’esplosione
Era il maggio felice. E tu, mia luna,
Il componimento VII prende avvio con il medesimo stilema, e delinea una scena di gelosia in cui riemerge un sentimento astioso nei confronti delle donne molto vicino a quello espresso in alcuni versi tratti da Una strana gioia di vivere: Era giugno, io spiavo, era la sera
Il gatto che attraversa la mia strada
Le situazioni descritte nei due componimenti sono evidentemente differenti, ma identico appare l’atteggiamento non tanto nei confronti della donna, quanto piuttosto del rapporto che può instaurarsi fra uomo e donna. È notevole, fra l’altro, come la smorfiosa e la puttana siano accomunate da elementi legati alla sfera animale come il nido e la tana. Se nel primo caso il riferimento è alquanto mitigato, risolto com’è in una metafora che in altri contesti potrebbe richiamare atmosfere più quiete e domestiche, la “tana” risulta essere un fattore indubbiamente più esplicito e intonato all’appellativo riservato alla donna. In entrambi i casi il cenno alla dimensione ferina è gravato da un puro disprezzo, e non ha nulla a che vedere con l’esaltazione della componente animalesca riscontrabile nei fanciulli. Il componimento che segue, VIII in ordine cronologico, è caratterizzato da un attacco in cui una similitudine associa il mese di Luglio a un garzone abbandonato sopra il muricciuolo: Luglio come un garzone neghittoso
La figura del garzone è tipicamente penniana, così come quella del muricciolo, luogo privilegiato dai fanciulli per le loro soste oziose. Nella poesia appare il disegno di un dialogo che si spegne immediatamente nei puntini di sospensione. L’occasione che ha generato la lirica può essere nota soltanto ai suoi protagonisti, ma il dato effimero della circostanza passa in secondo piano grazie ad una sapiente orchestrazione dei versi. L’anafora di “e” e la rima “muricciuolo”, “assiuolo” conferiscono infatti alla poesia un elevato tenore lirico e melodico che la rende in sé perfettamente compiuta. I versi successivi significativamente precisano nell’incipit l’atmosfera notturna, in questo caso elemento preponderante rispetto al mese, che nelle liriche precedenti assumeva invece un risalto ben maggiore posto com’era ad inizio verso: Notti d’agosto tra costellazioni
La notte sembra delineare un momento conclusivo, se non della storia d’amore almeno del corso stagionale. Le costellazioni di fanciulli, il lido, sono elementi talmente cari a Penna che non necessitano di ulteriori considerazioni. Ciò che colpisce, invece, è il sentimento del tempo che emerge da queste liriche e più in generale dall’intera raccolta. Fermo restando che la veste editoriale in cui figurano i componimenti prescinde naturalmente da qualunque intenzionalità da parte del poeta, le costanti formali riscontrabili ad un livello interno ai versi pubblicati nel 1989 permettono di ricostruire l’immaginario poetico e concettuale che li ha generati, e di effettuare un confronto con le conclusioni a cui si è giunti nel corso dei capitoli precedenti. Per quanto riguarda la concezione del tempo e dell’alternarsi delle stagioni, in particolare, si è cercato di dimostrare come l’apparente circolarità e immobilità più volte riscontrata nell’opera del poeta perugino celi in realtà una visione cronologica dinamica e lineare, certamente ben più complessa e sfumata di quanto si possa ipotizzare a colpo d’occhio. A questo proposito, le poesie racchiuse in Peccato di gola delineano una vera e propria storia che a livello macrotestuale, se tale si può definire, presenta un inizio ed una conclusione. La scansione del tempo in cicli e stagioni è attuata da Penna anche in altri contesti - come ad esempio nel più volte citato racconto Il ragazzo - in cui però, a dispetto di ogni apparenza, l’impressione destata con maggiore evidenza è quella di un tempo che si consuma nell’atto stesso della sua progressione. È più che ovvio rilevare che una storia d’amore fra due singoli individui abbia una durata limitabile, meno ovvio però è scandire tale durata attraverso i ritmi delle stagioni. Un’operazione di questo tipo, infatti, richiede di adattare una struttura naturalmente ciclica ad un sistema lineare. Questo accostamento implica evidentemente un diverso dimensionamento delle percezione circolare del tempo. La progressione delle stagioni, infatti, lungi dal preludere in questo contesto ad una perenne ripetizione, sembra consumarsi nella linearità senza ritorno che sfocia infatti nelle notti d’agosto. Attuando un confronto intratestuale - reso possibile dal fatto che la raccolta è stata ricavata da un materiale definibile omogeneo data la natura delle lettere, scritte in progressione e dirette tutte allo stesso destinatario in un lasso ristretto di tempo - tale ipotesi concettuale è suffragata dalla penultima poesia presente nella raccolta: Io mi guardo morire, a poco a poco
Theorèin - Gennaio 2008
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