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Peccato di gola
Annamaria Bonanome, nel saggio citato, si interroga sul senso dell’antico gioco osservando che la morte è colta nel suo ripetersi ciclico e per ciò stesso, in certo senso, ludico. L’autrice sottolinea poi il fatto che nella poesia la tematica non sia quella del morire, ma piuttosto del guardarsi morire, giungendo unicamente alla conclusione che l’ambiguità sia generata dalla solita apparente semplicità penniana .
L’elemento ciclico della morte, esemplificato nel tema del gioco, acquista invece una precisa valenza proprio alla luce del fatto che il poeta non sta parlando genericamente del momento della morte, ma della sua propria morte individuale. Con tutta probabilità, infatti, è proprio questo il valore di quel guardarsi morire: che si tratti di una morte metaforica dovuta alla fine dell’amore o di una morte concreta, ciò che interessa è il fatto che il poeta parli di una avvenimento che lo investe in prima persona. L’inveramento dell’antico gioco, dunque, si attua nel momento in cui la ciclicità atavica acquista uno spessore individuale e quindi lineare. Anche in questo caso la circolarità viene misurata sulla base della linearità che caratterizza ogni percorso personale, il solo assolutamente vero, l’unico realmente possibile. Altri aspetti della poetica penniana sono variamente rappresentati nella piccola raccolta presa in esame, a partire dal gusto per le rappresentazioni cronachistiche o bozzettistiche: (Ho visto un) incidente Dio che martirio dentro la ferraglia
A proposito di questo componimento Annamaria Bonanome individua una certa vicinanza con Montale per l’uso insistito della laterale palatale, presente in maniera vistosa soprattutto nell’ultima strofa di Meriggiare pallido e assorto. In entrambi i casi, secondo la Bonanome, si tratterebbe di una ricerca di espressionismo linguistico . L’uso ripetuto del nesso “gl” ricorre anche in altri componimenti penniani, rivestendo in ogni occasione un forte valore fonico Alta estate notturna.
Nella poesia (Ho visto un) incidente, è dunque ravvisabile una certa propensione da parte del poeta per elementi fortemente concreti e visivi, accentuati dall’indugio su particolari dalla marcata valenza espressiva. L’indubbia coerenza formale e tematica fra questi componimenti non destinati alla stampa e le opere pubblicate dal poeta, spicca anche grazie ad alcune posizioni di carattere teorico assunte in versi apparentemente svagati e leggeri: Che vuoi che possa con la mia matita
Nel breva respiro del distico Penna ripropone la tematica già indagata dell’inadeguatezza della poesia in rapporto alla bellezza e alla vitalità della persona amata. La matita, infatti, sta a rappresentare in questo caso l’esercizio poetico, definito apertamente come impotente in quella che sembra essere una vera e propria lotta, marcata dall’uso della preposizione “contro”, ingaggiata con l’avvenenza volubile e sbarazzina del giovane. Dai versi trapela una certa dicotomia sussistente fra la poesia e la vita, determinata dal fatto che l’oggetto del desiderio ha fatto sua l’intera esistenza del poeta, il quale dichiara di non potersi difendere da questa espropriazione con gli strumenti della scrittura. Come si è visto nel capitolo precedente, alla concezione dell’amore totalizzante è strettamente connesso il tema della crudeltà. Tale aspetto della poetica penniana è puntualmente contemplato in Peccato di gola: Se nella pozza scorgo il mio nemico
Nei versi citati il tema non è propriamente quello della crudeltà, ma del malessere d’amore causato dalla crudeltà anche involontaria dell’amante, definito come nemico. Anche in questo caso il lessico è adoperato in senso piuttosto espressivo, con commistione di termini aulici, come dardo, e di parole legate ad un contesto più quotidiano, come pozza. Tale coesistenza, tipica in Penna, è riscontrabile in diversi componimenti della raccolta: Innamorarsi: sì! di chi? di cosa?
La Bonanome sottolinea soprattutto l’orma che si slabbra nel grecale, definendola espressione di un ermetismo di impronta montaliana . La portata fortemente aulica del secondo verso si inserisce in un contesto vistosamente colloquiale accentuato dall’uso dell’interpunzione e dall’ossimoro che chiude il componimento. Come si è cercato di dimostrare, la plaquette Peccato di gola presenta tratti caratteristici del poetare penniano sul doppio livello tematico e formale. Le consonanze più vistose interessano soprattutto le opere degli anni Cinquanta, in particolare Una strana gioia di vivere, dove il gusto per il componimento breve, per il gioco di parole e per il descrittivismo bozzettistico si lega alla raffinatezza e alla felicità degli esiti. L’accostamento fra Peccato di gola e la raccolta pubblicata nel 1956 proprio da Scheiwiller , naturalmente prescinde dal formato editoriale, ed è giustificato da una certa consonanza di tono facilmente individuabile. Fu la sera che venne il Levantino
L’aria giocosa che caratterizza il distico, unitamente alla semplicità della rima baciata ottenuta tramite due diminutivi, è la stessa che caratterizza molti versi orchestrati attraverso giochi di parole: La tenerezza tenerezza è detta
L’utilizzo di parole identiche che si differenziano solo per uno scarto grammaticale determina la riconoscibilità di versi tipicamente penniani. Un esempio di questo genere, in Peccato di gola, può essere rappresentato dal distico che chiude la raccolta: Tu intendi questo per Amore, amore?
In questo caso il gioco di parole appare meno ovvio, più sofferto, e anche la rima amore/odore rimanda ad un Penna più profondamente autentico, lontano dagli scherzi e dai facili aforismi. Fra Una strana gioia di vivere e i versi pubblicati postumi si possono rilevare facilmente altri puntuali riscontri tematici: Ti ho toccato: mi hai reso un rauco strillo!
Oh se potessi io lo compererei.
Nel confronto fra le due raccolte, comunque, bisogna tener presente quanto l’occasione abbia pesato sulle composizioni, soprattutto a livello tematico. Per quanto riguarda Peccato di gola, infatti, l’esistenza di un unico destinatario rende i versi riconducibili ad una ben precisa storia. Negli altri casi, invece, non è dato sapere quale sia la causa effettiva che ha dato origine alle poesie. Posta tale premessa preliminare, ciò che colpisce è l’omogeneità d’atmosfera e di resa che caratterizza i componimenti privati e quelli destinati al pubblico. Si direbbe anzi che, in alcuni casi, la raccolta pubblicata nel 1989 raggiunga esiti di una levigatezza e di un nitore tali da renderla esemplare. È il caso, ad esempio, del pregevolissimo distico da cui è tratto il titolo: Mi inginocchio e ti prendo, anima sola,
Naturalmente le consonanze non interessano soltanto Una strana gioia di vivere, ma percorrono l’intera produzione del poeta perugino. La finezza dei giochi oppositivi, ad esempio, unitamente a tutti gli altri aspetti tipici del poetare penniano, caratterizza la produzione del poeta fino ai versi resi pubblici alle soglie della morte: Non voglio baci sul volto dipinto
La bellezza di quelli che non sanno
Se riscontri di questo genere testimoniano quanto meno l’estrema coerenza compositiva di Sandro Penna, che non tollera cadute di tono o sbavature formali neppure in componimenti destinati ad una comunicazione intima come quella dello scambio epistolare, c’è un ulteriore elemento che merita una particolare considerazione, e che riguarda l’organizzazione interna dell’intera opera. Si è già evidenziato il fatto che le poesie, sistemate in ordine cronologico, delineano le varie tappe di una storia e dunque, sotto questo punto di vista, i rimandi tematici intercorrenti fra di esse appaiono più che ovvi. Nella nota posta all’inizio della raccolta, però, si precisa un particolare che desta un enorme interesse: i componimenti X, XIV, XIX e XXIV formano di seguito un sonetto dallo schema regolare. La prima considerazione che ne deriva riguarda il fatto che le poesie non sono state scritte una dopo l’altra, ma ad intervalli piuttosto considerevoli. La seconda riguarda il contenuto dei versi, che si strutturano in senso narrativo, delineando una vicenda in sé compiuta: (Ho visto un) incidente Dio che martirio dentro la ferraglia
(Eri andato soldato senza guerra
Ero ignaro, mi mandano a chiamare
Della piccola stanza io resto fuori
La dinamica dell’accaduto è chiara: il giovane amato dal poeta ha un incidente grave, che lo mette in pericolo di vita, tanto che la sua condizione è definita quella di un soldato senza guerra colpito a sangue. Il poeta corre al suo capezzale, ma la madre del ragazzo gli impedisce di assisterlo mentre sta morendo. La prima e la terza strofa conservano un ritmo dinamico e narrativo, mentre la seconda e la quarta assumono un tono fortemente riflessivo. L’equilibrio compositivo appare addirittura impressionante, e genera un preciso interrogativo: nell’ambito di un epistolario, quale può essere la funzione di un sonetto realizzato nelle sue parti a distanza di tempo con rimandi così puntuali? Non bisogna dimenticare, infatti, che il poeta ha utilizzato i versi in un contesto discorsivo di cui essi non spezzavano la continuità. È quantomeno improbabile ipotizzare la volontà del poeta di pubblicare i componimenti, data la natura privata dei testi. Bisogna dunque spostare l’attenzione su un altro versante, quello cioè che riguarda il momento produttivo della scrittura penniana. Soltanto separando l’uomo dal poeta, infatti, e considerando esclusivamente il rapporto che Penna ebbe con la parola, è possibile spiegare un calcolo così attento agli equilibri interni del testo privato rappresentato dalle lettere e, conseguentemente, dell’intera opera penniana. Nonostante i dubbi, i ripensamenti, l’addossamento delle responsabilità editoriali ad amici e consiglieri, nel corso della sua vita Sandro Penna decise di dare alle stampe un certo numero di opere che ne ripercorrono l’attività poetica. Agli sgoccioli della sua vicenda artistica e umana, l’Autore pubblicò un insieme di prose dichiarandone esplicitamente la funzionalità rispetto all’opera in versi. L’ultima raccolta a vedere la luce fu Stranezze, che si chiude con lo stesso verso citato nella chiusura di Un po’ di febbre. Questo percorso poetico, più volte ricordato, è stato variamente considerato dalla critica. In particolare, colpisce la posizione assunta a questo proposito da Daniela Marcheschi, che rimanda tale convergenza o preciso parallelismo all’idea di un Penna intento a offrire un suo moderno “canzoniere”, un’emblematica e sui generis storia autobiografica, la “vita d’un uomo”, distinta dalla maniera sia di Saba sia di Ungaretti. Un’affermazione di questo genere risulta valida se si considera la natura pubblica delle opere cui si fa riferimento. In questa prospettiva, infatti, la sistemazione formale è attuata in virtù del destino editoriale dei testi. Come spiegare, però, un altrettanto evidente equilibrio all’interno di un percorso testuale che per nessuna ragione il poeta avrebbe mostrato alla luce? Il limae labor, la qualità delle composizioni, le corrispondenze intertestuali e a livello di macrotesto, non si spiegherebbero meglio con un atteggiamento di tipo diverso, dettato non dalla volontà di esporre le propria vicenda autobiografica ma piuttosto dal tentativo di testimoniare, attraverso la coerenza delle realizzazioni, il rapporto esclusivo che il poeta intrattenne con il linguaggio? Nell’Avvertenza postposta a Un po’ di febbre, come più volte ricordato, Penna dichiara inequivocabilmente le sue ritrosie a pubblicare ed anche semplicemente a ripercorrere volti e momenti della sua vita. L’unica spinta veramente valida alla pubblicazione era rappresentata invece dal fatto che le prose attestavano un rapporto febbrile con la realtà e con il lavoro di poeta. Ciò che interessava Penna, dunque, non era la realizzazione di una biografia privata, ma il disegno di un percorso poetico centrato sull’esercizio della scrittura. Penna era un uomo che probabilmente non sapeva vivere, e un poeta che amava la vita fino al parossismo. La mediazione fra le due sfere spetta alla parola, ma quest’ultima conduce un’esistenza inevitabilmente isolata rispetto alla vita. A questo proposito la posizione di Penna appare inequivocabile, come si è tentato di spiegare nel capitolo precedente. Nella considerazione complessiva dell’opera penniana, dunque, non bisogna lasciarsi sedurre dalla facile argomentazione secondo cui per il poeta umbro sia valsa la sovrapposizione fra arte e vita. Le insidie di una simile posizione possono essere scongiurate se si presta la dovuta attenzione alla portata concettuale che riveste l’accenno al lavoro di poeta. Già Cesare Pavese, nell’appendice all’edizione del ’43 di Lavorare stanca dal titolo Il mestiere di poeta , aveva posto l’accento sull’idea della poesia considerata non più come sfogo e scavo ma come ricerca ed esercizio tecnico. La scelta di intitolare le poesie con l’espressione Lavorare stanca, inoltre, segna programmaticamente la distanza dalla visione ermetica, che relegava l’esercizio poetico nell’ambito dell’otium letterario. La concezione teorica di Penna non sembra essere così distante da quella dello scrittore piemontese, dato che il poeta perugino dichiara esplicitamente di aver portato avanti un vero e proprio lavoro. A dimostrazione di ciò, Penna ha creato un filo di raccordo fra le espressioni del suo linguaggio che ha condotto ad una resa poetica sempre più levigata e coerente non solo nelle opere destinate alla pubblicazione, ma in qualsiasi altra elaborazione lirica del poeta perugino. Il percorso interpretativo portato avanti nel presente lavoro, ha consentito di mettere in luce una quantità di fattori utili a definire meglio la natura del rapporto fra prosa e versi nell’opera di Sandro Penna. Il raffronto è stato imbastito in particolar modo allo scopo di individuare vari livelli di scambio e di derivazione reciproca fra i due modelli di scrittura. Il primo e più immediatamente riconoscibile fra questi livelli è senza dubbio quello tematico. All’occhio di qualunque lettore, infatti, non può sfuggire la pressoché assoluta identità di immagini e contenuti che accomuna le raccolte in prosa e le opere in versi. Nel caso specifico, le tematiche analizzate hanno portato al delineamento di un percorso volto a ricostruire nel modo più fedele possibile l’immaginario poetico di Sandro Penna, a partire dalla visione che egli ebbe del tempo fino ad arrivare alla ricostruzione del suo personale concetto di poesia. Considerando l’opera del poeta umbro da una prospettiva di questo genere, così strettamente legata ai contenuti, non è ovviamente possibile stabilire quali possano essere stati i criteri di elaborazione adottati da Penna soprattutto dal momento che, come si è più volte ricordato, gli approcci interpretativi non sono supportati da un sicuro punto di riferimento cronologico. Il secondo metro di valutazione, che è quello legato agli aspetti formali del rapporto fra prosa e poesia, ha permesso invece di formulare ipotesi più solide, e non a caso nel corso dei capitoli precedenti sono emersi vari elementi utili in questo senso. In primo luogo, i brani in prosa presentano un repertorio lessicale del tutto simile a quello adoperato in poesia. Penna, inoltre, utilizza frequentemente nei suoi racconti in modo più o meno esplicito citazioni poetiche, soprattutto leopardiane, con l’intento principale ma non certo unico di porre delle distanze concettuali rispetto al modello. Le prose, inoltre, sono caratterizzate spesso da un andamento ritmico e melodico che le avvicina al respiro dei versi. Viceversa, le poesie di Penna in molteplici casi si avvicinano ad una misura decisamente prosastica. A tal proposito Giulio Di Fonzo ha giustamente rilevato che le prose sviluppano appieno uno degli stili e toni che percorrono il canzoniere: si affiancano cioè al piano più realistico e quotidiano, discorsivo e prosastico, che era là demandato all’endecasillabo e al verso lungo, secondo strofe di misura più vasta, non epigrammatica. L’individuazione di una simile consonanza, ha posto le condizioni preliminari per formulare l’ipotesi di una dinamica di elaborazione che a partire dalla prosa confluisce nel verso. Come è stato più volte sottolineato dalla critica, il materiale prosastico penniano si presenta in varie occasioni sotto le sembianze di appunti. Appunto è il titolo di vari componimenti contenuti in Un po’ di febbre, in cui tra l’altro Penna definisce esplicitamente le sue carte cattivi appunti . Appunti è inoltre il nome scelto per la raccolta di versi pubblicata nel 1950 nelle edizioni della Meridiana di Milano. Lo stesso Roberto Deidier ha avuto occasione di scrivere che la poesia di Penna raggiunge il suo assetto formale dopo essersi espressa a uno stadio iniziale di cronaca, di ‹‹appunto››. Questa considerazione trova pieno riscontro nel confronto fra i brani in prosa e le opere in versi, da cui emerge precisamente un lavoro di riduzione e di estrazione, oltre che di astrazione, fattore quest’ultimo che determina la differente atmosfera da cui è avvolta la poesia. Le prose, strutturate nel respiro largo della narrazione, mostrano infatti una vena più distesa e discorsiva svolta prevalentemente in prima persona e attenta alla concretezza realistica delle circostanze descritte. In poesia il realismo penniano è definibile invece come tale solo su di un piano strettamente lessicale, come fa notare ancora una volta Deidier , mentre il tono appare maggiormente sospeso in una dimensione spesso onirica ed ovattata. Tale discrepanza ha fornito un’ulteriore argomentazione a favore della tesi avanzata, dal momento che è difficilmente supportabile l'ipotesi di un passaggio dalla rarefazione del verso all’ampia concretezza del brano in prosa. Più volte, nel corso della presente trattazione, si è cercato comunque di mettere in guardia da troppo facili schematismi: il rapporto di derivazione dalla prosa alla poesia, così come è stato delineato, non ha nulla di automatico e si appoggia all’idea di una semplice linea di tendenza che non presenta caratteri di irreversibilità. L’approccio formale con l’opera di Penna, congiuntamente all’analisi dei contenuti, è strettamente connesso con un terzo livello valutativo, che riguarda la possibilità di ricostruire il percorso concettuale affrontato dall’Autore nell’elaborazione dei suoi lavori. Nei capitoli precedenti, infatti, si è messa in luce quella che può essere considerata una delle funzioni principali della prosa, e cioè la sua capacità di chiarire ed esplicitare alcuni punti oscuri riscontrabili in poesia. Nei brani tratti da Un po’ di febbre, infatti, senza sottovalutare la raccolta postuma Cose comuni e straordinarie, è presente una forte densità teorica che ha permesso di individuare una serie di passaggi fondamentali per la piena comprensione dell’opera poetica. Grazie alle prose e al loro confronto serrato con le poesie, è stato possibile delineare con maggior nitore la concezione penniana del tempo, il peso che nell’opera del poeta perugino ha avuto la tematica dell’origine, l’assoluta mancanza di gerarchia fra gli aspetti del reale, eccezion fatta per quello che riguarda l’amore rivolto ai fanciulli e i fanciulli stessi. La considerazione che Penna ebbe per la poesia, infine, è affiorata con tutta la sua evidenza proprio grazie all’analisi approfondita del discorso in prosa e degli effettivi riscontri con i versi. Lo studio della dinamica intertestuale in questo caso si è rivelato particolarmente fecondo, e ha condotto all’elaborazione dell’ipotesi secondo cui agli occhi del poeta l’unico genere veramente autonomo fosse costituito proprio dalla poesia. Le prose sono state raccolte infatti in una fase molto avanzata della carriera artistica e del percorso esistenziale di Penna, e sono state sistemate secondo canoni strutturali adottati al fine di evidenziare non una vicenda autobiografica, ma la correlazione esistente fra i brani e lo svolgimento del lavoro poetico. Questo particolare, sul quale si è più volte insistito, riveste un’importanza fondamentale per la comprensione del rapporto profondo che intercorre fra il poeta e la parola nel suo doppio livello prosastico e lirico. La maniera corretta per interpretare un percorso poetico, infatti, parte proprio dalla considerazione delle modalità attraverso cui la parola attraversa le varie tappe che la conducono infine alla realizzazione del verso. Se Sandro Penna decise di pubblicare le sue prose e di creare un chiaro raccordo strutturale fra esse e le poesie fino all’ultima raccolta di versi, la sua scelta va ricondotta ad una dinamica interamente e strettamente poetica, e non ad una volontà autobiografica. Tale criterio interpretativo ha trovato sostegno nella valutazione complessiva della raccolta postuma Peccato di gola. Dall’analisi dei richiami formali e tematici presenti all’interno di un macrotesto non destinato alla pubblicazione, infatti, è affiorato un dato inequivocabile che conferma le posizioni fin qui sostenute: Sandro Penna non si è lasciato sedurre dal semplice autobiografismo neppure parlando della sua stessa vita. Questo atteggiamento gli ha consentito di costruire delle architetture formali solidissime e dalla funzione apparentemente inspiegabile all’interno di un impianto come quello epistolare. Ne è derivata la conseguenza logica secondo cui la pratica poetica di Penna, in qualunque occasione si sia esplicitata, ha seguito le medesime direttive dettate dalla perizia tecnica e dalla volontà di costruzione indispensabili per intraprendere e portare avanti il mestiere di poeta. Il meccanismo compositivo adottato per le opere destinate alla pubblicazione si è riproposto con schiacciante evidenza in un materiale raccolto a posteriori e indipendentemente dalla volontà del poeta, ma indicativo di come per Penna la poesia non solo derivasse intimamente dal discorso, ma se ne distaccasse allo stesso tempo definendosi come prodotto maturo e autonomo nei suoi parallelismi interni. Nella concezione di Sandro Penna, peraltro mai compiutamente teorizzata se non in interventi estemporanei a cui si è fatto accenno, la scrittura fu dunque globalmente lavoro, riflessione, organizzazione, e la prosa costituisce la testimonianza più chiara ed autentica di questo dato. Non si è forse molto lontani dal vero, dunque, se si immagina che il poeta abbia annotato sul suo bianco taccuino le parole che più di altre potessero esprimere il profondo amore che egli nutrì per il mondo, e che le abbia poi accostate per misurare la loro capacità di sostenere il flusso di un discorso, di un appunto, di un racconto. Dal laboriosissimo amore profuso in questo atto è sgorgato infine un limpidissimo canto.
Theorèin - Marzo 2008
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