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Due antecedenti storici: i Pitagorici e Parmenide Due antecedenti storici, la crisi dei Pitagorici dovuta alla scoperta degli irrazionali e la dottrina dell’essere di Parmenide, segnano l’inizio delle prime speculazioni di logica, anche se come vedremo a breve, è solo con Aristotele che si assiste ad una effettiva fondazione della stessa. La grande scoperta, che determinerà poi la loro importanza nell’occidente, consiste nel fatto che essi hanno riconosciuto nella misura matematica l’ordine e l’unità del mondo. I numeri quindi costituiscono la natura del mondo che diventa allora un ordine armonioso misurabile. Il numero è pertanto il principio da cui tutte le cose derivano e la loro causa immanente, la loro causa interna. L’uno è il principio generatore di tutti i numeri, perché dall’unità provengono tutti i numeri, così come è dai numeri che derivano tutte le cose. L’uno è parimpari, numero che, se aggiunto ad un pari lo fa diventare dispari, se aggiunto ad un dispari lo fa diventare pari. Il due, è il primo dei numeri pari ed esprime in questo senso l’illimitato (indeterminato, infinito), mentre il tre è il primo dei numeri dispari ed esprime il limite (limite che si incontra quando dividendo ottengo un’unità di scarto). Il rapporto armonico che il modo riceve da questa sua configurazione matematica, anzi per meglio dire aritmo-geometrica, in quanto il numero intero è costituito di unità che sono identificate a loro volta con un punto geometrico, le linee sono insiemi di punti geometrici, il piano è formato da un insieme di linee e uno spazio solido è l’insieme di più piani, ci permette di considerare le cose come formate da un numero finito di punti e pertanto misurabili. Nella sua Storia della filosofia occidentale Bertrand Russell scrisse su Pitagora: “Non so di nessun altro uomo che abbia avuto altrettanta influenza sulla sfera del pensiero. (…) L’intera concezione di un mondo eterno rivelato all’intelletto e non ai sensi deriva da lui. Le dottrine pitagoriche sono seducenti, a cominciare dalla trasmigrazione dell’anima. Non da meno sono gli insegnamenti scientifici. Ma la storia illustra che prestigio e passione per l’assoluto possono talora trasformarsi in integralismo”. Le misure con cui questi pensatori avevano trattato erano rappresentabili come interi o come parti ben delimitate di interi. Ad esempio, il numero 2/3 (due terzi) poteva essere visto come due lunghezze uguali allineate a formare un’unica lunghezza che poi veniva divisa esattamente in tre porzioni. Ovviamente, non è possibile nella pratica quotidiana dividere una lunghezza esattamente in tre parti; lo si può fare solo in via approssimativa. Nessuno doveva dubitare che i numeri interi e i loro rapporti, cioè i numeri razionali (‘razio’ in latino vuol dire ‘rapporto’, ‘porzione’, da cui anche il termine ‘razione’) fossero l’essenza genuina del Creato, basato su valenze etiche. Eppure, uno di loro, tale Ippaso di Metaponto, dubitò. Accadde nel V secolo a.C. quando i dotti della Scuola s’impantanarono in una problematica solo all’apparenza banale: calcolare la diagonale del quadrato. La risoluzione passò attraverso il famoso teorema di Pitagora sui triangoli rettangoli. Come impariamo sin dai tempi scolastici, se c è l’ipotenusa e a e b sono i due cateti di un triangolo rettangolo, deve valere: c2= a2+ b2 (il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti). Nel caso della diagonale del quadrato i due cateti sono uguali. Supponendoli unitari in una certa scala di misura (1 cm, 1 m, 1 miglio), si ha: c2= 12+ 12 = 2. Si tratta allora di attribuire a c quel valore che elevato al quadrato dia 2 come risultato, cioè si tratta di calcolare la radice di 2 (√2). I Pitagorici disponevano di sistemi ingegnosi per risolvere l’equazione pitagorica, ma nessuno funzionava per la diagonale c del quadrato. Ippaso comprese per primo che una semplice formula mai avrebbe fornito in quel caso un risultato preciso e nemmeno una serie limitata di calcoli avrebbe potuto derivarlo: sussistevano pertanto grandezze incommensurabili, inesorabilmente sfuggenti. Una di queste era senz’altro √2, ma molte altre, anzi infinite altre, dovevano essere possibili. Oggi sappiamo che i numeri irrazionali, come appunto √2, sono quantità reali che sviluppano dopo la virgola una serie di decimali infinita e imprevedibile. Che significa imprevedibile? Significa che per sapere quale sia il decimale in una certa posizione della sequela dobbiamo dapprima calcolare tutti i passi precedenti; non possiamo cioè contare su qualche scorciatoia. Questo vuol dire che non è in alcun caso possibile precisare un valore come √2; si tratta di una grandezza incommensurabile, cioè non misurabile esaustivamente con metodi numerici. La cosa non è per noi di grande impedimento in termini pratici, ma ha un significato teorico di enorme portata. Ippaso fu colpito dalla condizione, perché introduceva la matematica nei meandri affascinanti dello sconfinato; decise pertanto di divulgare la scoperta dell’incommensurabilità della diagonale del quadrato, contravvenendo ai tabù della Scuola che non poteva accettare l’idea di valori non del tutto calcolabili, riflesso di un cosmo incompiuto e impuro. La parola ‘cosmo’ fu coniata proprio da loro e stava a rappresentare un universo rigidamente ordinato. L’irregolarità imprevedibile dei decimali nello sviluppo di un numero irrazionale non poteva adeguarsi a questo punto di vista. E così i Pitagorici mancarono una grande occasione. Ippaso venne radiato dalla congrega per empietà. Quand’egli perì in un naufragio i suoi ex-compagni guardarono all’evento come a una punizione divina. È in verità probabile ch’egli fosse stato annegato per mano della Scuola. La sovranità dei numeri razionali durò 2300 anni, sino a quando il tedesco Georg Cantor tornò ad affrontare di petto la questione degli irrazionali e dell’infinito. E anche a lui ciò costò notevoli tormenti. La diagonale del quadrato corrisponde a una misura irrazionale, ossia non esprimibile esattamente con alcun metodo di calcolo aritmetico. Con Parmenide avviene la prima grande speculazione filosofica sull’essere. Parmenide è stato il primo filosofo ad esporre la sua filosofia in un poema in esametri. Senofane aveva occasionalmente esposto le sue idee intervallandole alle sue poesie satiriche, ma solo Parmenide per intero scrive un poema “filosofico” dal titolo Intorno alla Natura di cui ci restano solo 154 versi. Del poema possiamo dire che esso si divide in due parti: la dottrina della alètheia (verità) e la dottrina della doxa (opnione); in questa seconda parte egli espone le credenze dell’uomo comune, proponendosi, però, rispetto ad esse un compito valutativo e normativo. In seguito egli presenta un complesso di teorie fisiche probabilmente di ispirazione pitagorica perché al dualismo tra limite e illimitato egli fa corrispondere quello della luce e delle tenebre forse non ignoto agli stessi Pitagorici, e considera la realtà fisica come un prodotto della mescolanza di questi due elementi. Il filosofo portato al cospetto di una dea, la quale afferma che a condurlo da lei è stato non un destino avverso ma la legge divina e la giustizia, intende insegnargli ogni cosa: sia la Verità che le opinioni dei mortali di cui non vi è certezza alcuna. La verità è dunque pensata come ispirazione e rivelazione divina, ed essa è possibile trovarla solo attraverso la via della ragione non dell’opinione. E la ragione, non si ferma alle molteplici apparenze ma conduce veritativamente all’essere; essa dice cioè che l’essere è e non può non essere; negando invece la via che porta al non-essere, poiché il non-essere non è ed è impossibile che sia. Tema di fondo dunque della sua filosofia è proprio il contrasto tra la verità e l’apparenza; l’unico cammino possibile verso la verità, cioè verso l’essere è quello compiuto dalla ragione in quanto i sensi si fermano all’apparenza e pretendono di testimoniarci il nascere, il perire, il mutare delle cose, cioè insieme il loro essere e il loro non essere. Sulla via dell’apparenza è come se gli uomini avessero due teste, una che vede l’essere, l’altra che vede il non-essere, e vagano di qua e di là come stolti ed insensati senza potersi rendere conto di nulla. L’intento è quello di allontanare l’uomo dalla conoscenza sensibile insegnandogli a giudicare secondo ragione. La ragione intende innanzitutto l’essere come totalità. Attraverso il pensiero anche le cose distanti sono poste in una salda unità e vengono concepite nella loro totalità come un tutto che il filosofo chiama appunto Essere. Poiché l’essere è conoscenza assoluta secondo la via della ragione, si tratta di decidere se si vuole accettare la realtà così come essa appare ai sensi, dunque nella sua molteplicità e frammentarietà priva di legami, oppure attraverso il pensiero, coglierla come un tutto privo di contraddizioni, come una unità compiuta. In tal modo le cose che appaiono tra loro divise quando colte dai sensi, sono pensate unite dalla mente e l’essere in se stesso non è scisso e disgregato in un’infinita serie di parti, ma concepito come assoluta unità. Il pensiero e l’espressione cioè il linguaggio devono avere sempre un oggetto e questo oggetto è appunto l’essere. Parmenide determina con chiarezza il criterio fondamentale di validità della conoscenza che doveva dominare tutta la filosofia greca: il valore della verità della conoscenza dipende dalla realtà dell’oggetto e la conoscenza vera non può che essere conoscenza dell’essere. Da ciò deriva dunque la famosa espressione: “la stessa cosa è il pensiero e l’essere” o ancora “ la stessa cosa è il pensare e l’oggetto del pensiero: senza l’essere nel quale il pensiero è espresso tu non potresti trovare il pensiero, giacché nient’altro c’è o ci sarà al di fuori dell’essere”. L’essere viene poi descritto da Parmenide escludendo tutto ciò che implica il non-essere. L’essere infatti è ingenerato, imperituro, unico ed immobile. Come potrebbe nascere dal non-essere? Non è possibile neppure pensarlo, e qualora lo si facesse, non si potrebbe spiegare per quale necessità l’essere sarebbe nato dal nulla. Non vi è passaggio dall’essere a non-essere se non pensando all’idea di morte. Inoltre l’essere è l’eterno presente, senza passato o futuro. Infine l’essere è indivisibile. Né può avere un di più o un di meno di essere come sosteneva che la teoria della condensazione e della rarefazione di Anassimene, poiché è tutto pieno di essere. Esso è inteso come uno sfero, in quanto solo tale forma, come luogo dei punto equidistanti dal centro, è espressione materiale della perfezione. Bibliografia essenziale:
Theorèin - Maggio 2012 |