theorèin/musica
THEOREIN GROUP
Guida all'ascolto
Viviamo in un momento storico in cui il peso dei mezzi di comunicazione nelle nostre scelte di vita stanno assumendo un’importanza quasi totalizzante.
Non c’è episodio del nostro quotidiano che non venga ripreso e commentato da uno o più strumenti di comunicazione, tra i quali primeggia in maniera indiscutibile la comunicazione televisiva.
Fino a qualche decennio fa, la stampa tentava di mettere in prospettiva gli avvenimenti, di compilarne una sintesi, di permettere la riflessione su di essi; oggi in gran parte delle riviste i testi sono ridotti al minimo, gli articoli sono riccamente illustrati e intramezzati da pagine pubblicitarie che ne rompono il ritmo e sviano la riflessione.
Questo è accaduto in passato e accade ancora oggi; è uno schema consolidato che attribuisce al nuovo media valore assoluto rispetto a quello precedente esistente; è accaduto per il giornale contro il libro tradizionale; per la radio e il cinema contro il giornale; per la televisione contro radio e cinema ed oggi per internet contro lo stesso strapotere della televisione.
Si dirà che questo è il progresso e che quindi si tratta di un processo naturale che al vecchio venga sostituito il nuovo, ma bisogna fare attenzione perché di tutte le mistificazioni della comunicazione indubbiamente la più grande è stata quella di presentarsi sotto le insegne del progressismo democratico, mentre costituisce la configurazione compiuta dell’oscurantismo populistico. (Mario Perniola Contro la comunicazione).
Guardando almeno a ciò che sta succedendo in Italia, il problema è che da noi la tv ha assorbito tutto il restante universo dei media.
I giornali le dedicano due pagine al giorno, il cinema viene prodotto in funzione della tv, un concerto esiste se viene ripreso dalla tv, così come una mostra o un convegno esistono solo in funzione di uno spot pubblicitario fatto in un telegiornale.
La politica si fa in televisione. Ne consegue che la gente forzatamente è incanalata dentro quel contenitore. Lì c’è tutta la vita sociale italiana. Allora siamo un popolo teledipendente? Secondo Omar Calabrese, se non riusciamo a coltivare un pò di ecologia mentale diventeremo sempre più un Paese con l’analfabetismo di ritorno più alto del mondo.
Secondo l’economista francese Jean-Paul Fitoussi, la nostra età non sarebbe affatto caratterizzata dal tramonto delle ideologie, ma semmai da una loro semplificazione e banalizzazione estrema che fa cadere l’aspetto concettuale a favore dell’emozionalità. Per il sociologo francese Jean Baudrillad il virtuale avrebbe assorbito il reale.
In funzione di quanto detto nasce questa produzione multimediale, dove immagini, testo e musica cercano di raccontare, attraverso alcune piccole narrazioni, dove si pone il limite fra apparenza e realtà.
L’apparire è in sé una forma di autoaffermazione, al di là di ciò che si può dire o fare in televisione. Ma è anche la dimostrazione del fatto che per continuare a vivere in televisione, un vero animale televisivo, deve sapere essere quello che il pubblico vuole che lui sia. L’importante è stare al gioco, non lasciarsi intimidire, non tirarsi indietro. Nel brano intitolato
La ballata degli ex, si racconta di come diverse categorie professionali ed esistenziali, pur essendo state allontanate dall’attenzione dei media, perchè non fanno più notizia, non fanno più “audience”, e pertanto non vendono più, cercano in tutte le maniere di restare a galla, anzi vengono prodotti dei sottoprogrammi in cui questi “scarti di produzione” vengono di nuovo alimentati e rimessi nell’arena competitiva. I loro casi umani, le loro vicende professionali diventano oggetto di riflessione e di spettacolo. Difatti non passa giorno o trasmissione in cui alcuni di loro sono chiamati a fare opinione sui più disperati argomenti.
Una sera d’estate ritornando a casa con la mia famiglia rimasi bloccato in macchina per un’ora sulla strada del lungomare; non si trattava di un incidente o di un rallentamento causa lavori in corso, l’intasamento era dovuto da una grande fila di macchine e motorini di giovani che si recavano nei locali e negli stabilimenti balneari alla moda. Mi accorsi che una parte consistente di miei concittadini usciva di casa quando il resto di noi andava a dormire, per poi capovolgere l’azione al mattino seguente, quando loro andavano a dormire e il resto andava a lavorare. Si trattava del cosiddetto “ popolo della notte” che molti come me non avrebbe mai avuto il piacere di incontrare. Questa transumanza umana, è bene sottolineare che non si limita ad attivarsi in estate, quando è più che naturale che il bisogno di relax e di divertimento prevale su tutto il resto; questo popolo di nomadi mette in atto questo processo tutto l’anno, e al sabato sera il loro numero diventa di proporzioni spaventose. Il brano intitolato
La febbre del sabato sera racconta di un sabato sera di due coetanei che scelgono di impiegarlo in maniera differente e per certi versi opposta.
Un ragazzo cerca di omologarsi alle tendenze del momento, prende in uso la macchina del proprio genitore, si veste nella “maniera giusta”, carica la ragazza e gli amici, fa il pieno di sostanze eccitanti e parte lungo la tangenziale per andare a trascorrere una notte brava in qualche discoteca di tendenza.
L’altro ragazzo indossata la divisa del volontario di pronto soccorso, si prepara a trascorrere la notte in ambulanza sperando di non dover intervenire. La sorte vuole invece che al mattino presto, quando l’alba annuncia un nuovo giorno di vita, questi due ragazzi si debbano incontrare in modo tragico. I ragazzi muoiono in un incidente stradale, che i telegiornali commenteranno come l’ennesima strage del sabato notte, e al volontario venuto in loro soccorso non resta che attestarne la loro morte. Questo è l’ennesimo tributo al progresso ad ogni costo, al benessere in ogni circostanza, al voler chiedere alla propria vita solo spensieratezza, divertimento.
Pochi giorni prima della celebrazione pasquale, urla lancinanti dilaniano la notte. “Hanno ucciso Small Simba!”. Small Simba (Piccolo Leone) giace a pochi passi dalla nostra baracca, nel bel mezzo della strada, con il costato squarciato. Sanguina ancora. Cerco di calmare la sorella che, urlando, strattona il corpo del fratello. “Non può essere morto. Non era un ladro!”. Si guadagnava da vivere rovistando tra i rifiuti della discarica. Condivideva quel poco che trovava con la mamma e le sorelle (era l’unico maschio in famiglia). Sento una tale rabbia nello stomaco. Mi siedo nella polvere al bordo della strada, nell’oscurità della notte. Small Simba è lì davanti a me intriso di sangue. Dall’altra parte della strada una baracca con una porta imbrattata di sangue e a fianco un graffito: una croce nera con la scritta: “God” (Dio). Questo brano è tratto dal libro di Alex Zanotelli
Da Korogocho con passione, e racconta una delle tante storie di uomini che il mondo ignora. Nel brano
Saluti da Korogocho ironicamente si racconta di un banale scambio di valige e di documenti di due viaggiatori.
Colui che era andato in Kenya per “turismo” si tratti di un safari o di una vacanza ristoratrice o di un servizio fotografico per un nuovo calendario, ha poca importanza, si ritrova seguendo istruzioni errate a Korogocho lo slam – baraccopoli – dove vivono centomila persone su una collina a dorso di asino, lunga un chilometro e mezzo e larga uno. Korogocho nella lingua locale, Shuaili, significa “confusione”; pochi chilometri di distanza e ci si ritrova nella parte bella e privilegiata di Nairobi, la ricca Langata dove gli spazi sono enormi, indefinibili all’occhio; piena di villette all’interne di un parco nascoste da alte siepi che non permettono dalla strada di vederne l’interno. Prati all’inglese, ben curati in ogni minimo particolare, pieni di piante rigogliose, che esprimono tutta la bellezza della natura africana.
Vivere nel mondo reale o in quello artificiale? Il brano intitolato
L’omologato cerca di rispondere a questo interrogativo, guardando dentro di uno dei mondi possibili contemporanei. Si tratti di una festa in un locale alla moda, di una discoteca di tendenza, di un club esclusivo, di un circolo selezionato, l’omologato cerca in ogni maniera di stare al passo, di farsi accettare, di essere nell’elenco degli invitati. Mentre faticosamente e con determinazione tenta di riuscire in questo intento e riesce a ricavarsi un proprio spazio di notorietà, non si accorge che il ponte che sta costruendo tra lui e il mondo reale sta cedendo inversamente proporzionale alla sua ascesa.
Il lupo della steppa prende spunto dall’omonimo libro di Hermann Hesse pubblicato nel 1927 dove l’autore accusa il suo tempo, criticando la decadenza della civiltà occidentale attraverso il tema della lotta fra la bestialità e la santità di un’anima d’eccezione. Harry Haller il protagonista è un intellettuale sulla cinquantina che riconosce nella sua individualità due modi di essere: da un lato l’uomo, cioè un mondo di pensieri, di sentimenti, di cultura, dall’altra il “lupo”, cioè un mondo di istinti selvaggi. Il brano è anche un’esortazione a mettersi in viaggio, anzi a ri-mettersi in viaggio, in discussione, abbandonare le certezze, i punti di arrivo e rinnovarsi rimettendo tutto in discussione. Molti non capiranno queste scelte fatte al confine tra sogno e realtà, tuttavia ci timbreranno il nostro lasciapassare, pur ridendo della nostra presenza.
C’è un momento nella nostra vita che si sentiamo particolarmente estranei al mondo circostante; viviamo in mezzo alle gente, discutiamo degli stessi problemi, respiriamo la stessa aria eppure siamo assenti. Nuotiamo in un mare di indifferenza in cui molti sono morti prima del tempo non interrogandosi della loro esistenza. Eraclito da Efeso, un pensatore vissuto circa cinquecento anni prima dell’età cristiana, diceva che la maggior parte degli uomini, vivono come immersi in un sonno, perciò ad essi “rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo”. Allora se non siamo capaci di “percepire dei crepacci nascosti” come dice un altro pensatore Fritz Waismann, meglio staccarsi dal treno in corsa, meglio rallentare il passo, meglio essere i peggiori attori chiamati a recitare in questo stupido teatro. Questo è il senso del brano
C’è un tempo.
L’ultimo brano volge all’ottimismo, alla speranza per un futuro che sappia comprendere il punto di svolta ed invertire il senso di marcia. Il brano
La forza micidiale tenta di sollecitare questa inversione. Scagliare un sasso per provocare una reazione, un risveglio. Saper andare incontro all’altro, abbattendo innanzitutto le barriere che sono in noi; saltare lo steccato che ci divide dal mondo che ci circonda. Dietro un gesto di apertura si nasconde una forza micidiale, quella di sapersi accettare ripartendo con nuova linfa vitale, con nuovi entusiasmi, con nuove parole, superare la siepe metaforica leopardiana.
|