“Ognuno di questi figli di Anchise, ognuno degli ultimi giovani capi del PCI, ha interpretato a suo modo il ruolo di Enea. C’è chi lo ha fatto riuscendo a reinventarsi una fantasiosa ma efficace tradizione personale, come Walter Veltroni, selezionando gli aspetti meno spinosi di quella vicenda per adattarli morbidamente alle trasformazioni del sentire comune; chi invece ha affrontato gli inciampi senza alcun tentennamento apparente, come Massimo D’Alema, sorretto da una granitica convinzione nella coerenza della storia e nelle virtù della tattica politica; chi infine, ed è il caso di Piero Fassino, si è orientato verso una navigazione meno ambiziosa e più realistica, dedicandosi all’onesta amministrazione di un capitale di consenso e potere pur sempre significativo.”
Inizia in modo diretto e senza perifrasi il nuovo libro di Andrea Romano,
Cari compagni, per avvertire il lettore che continuando nella lettura non si troverà di fronte un saggio del quale non si afferra subito la sua ragion d’essere. Un atto di accusa implacabile alla classe dirigente che ha dato vita prima al Pds e successivamente ai Ds e che sta tentando, con il congresso di aprile a Firenze, l’approdo al
Partito Democratico.
La trama scaturisce direttamente dalle vicende che si sono sviluppate dal crollo del muro di Berlino ad oggi. È lì infatti, nella svolta della Bolognina, che il gruppo dirigente che Andrea Romano pone sotto la sua lente d’ingrandimento per analizzarne i comportamenti, pone le basi per governare il partito più grande della sinistra italiana ininterrottamente fino ad oggi. Questo percorso si snoda attraverso sette capitoli che partendo dal primo intitolato proprio Tutti i figli di Anchise, e passando attraverso
A ciascuno il suo Berlinguer, Giovane Guardia, Splendidi quarantenni, Don Chisciotte, Don Abbondio e Don Lurio, Una nuova verginità arriva al tema di stringente attualità che s’intitola
Il Partito democratico e l’eterno ieri.
Andrea Romano è severo, anzi severissimo nei suoi giudizi. Il protagonista assoluto del libro è Massimo D’Alema, con Veltroni e Fassino a far da comprimari. Pur riconoscendo al migliore di aver svolto un ruolo importante e positivo prima nella Fgci, poi nel traghettare il Pds del dopo Occhetto nei Ds, e sorvolando sulle incongruenze che vanno dalla annunciata rivoluzione liberale in contrapposizione alla restaurazione capitalistica piuttosto che l’incoerenza di passare dal comunismo al postcomunismo, dal socialismo europeo all’oltrismo dei giorni nostri, è sulla prova di D’Alema al governo che il giudizio diventa pesante. “La sinistra è un male che solo la presenza della destra rende sopportabile”, da questo momento in poi l’autore prende le distanze dal D’Alema sempre più pessimista che trova la forza di risalire ogni volta che cade facendo ricorso all’aiuto della famiglia, del clan, aiuto che peraltro non gli viene mai negato. E questa è la seconda grande accusa che muove al gruppo dirigente, quello di essere appunto un clan, una famiglia piuttosto che un gruppo dirigente politico, che definisce l’unica grande famiglia politica compatta e riconoscibile, dai confini ben delineati e dall’identità condivisa, pur nelle tante divergenze. L’accusa che muove Romano è per tutto il gruppo dirigente che è stato nella maggioranza del partito è le ultime parole del libro non sono sicuramente meno forti e sprezzanti di quelle che lo aprono: “…difficilmente una generazione reduce da due sconfitte consecutive – comunismo rinnovato e postcomunismo – riuscirà a dotare la sinistra italiana di quanto non è stata capace di imbastire in vent’anni di dominio incontrastato. Se non quando sarà costretta a farsi da parte, dalla forza della politica piuttosto che dalla propria generosità d’animo. Sarà forse allora che potrà nascere un soggetto capace di riunire la sinistra italiana dentro confini finalmente politici e non più dinastici.”
Oscar Buonamano
Theorèin- Febbraio 2007