Recensioni

A cura di: Oscar Buonamano

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Titolo: Pizzini veleni e cicoria
Autori: Pietro Grasso e Francesco La Licata
Editore: Feltrinelli 2007

Pizzini veleni e cicoria, di Pietro Grasso e Francesco La Licata è un libro importante per capire il fenomeno mafioso. Per certi versi costituisce una prosecuzione del lavoro di Giovanni Falcone che in Cose di Cosa Nostra, il libro intervista con Marcelle Padovani, traccia per la prima volta un quadro esauriente, e soprattutto supportato da fatti oggettivi e riscontrabili, per capire fino in fondo cos’è la mafia, al di fuori dell’iconografia classica che dipingeva la mafia con la coppola e la lupara.

Cominciamo con il dire che non è un libro intervista ma un vero e proprio dialogo tra due grandi esperti di cose di mafia. Il primo, Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia è l’uomo che ha scritto la motivazione della sentenza di primo grado del Maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone, il secondo, Francesco La Licata, giornalista serio ed apprezzato si è sempre occupato di temi connessi alla comprensione del fenomeno mafioso.

Un dialogo che diventa un vero e proprio confronto di idee e dal quale scaturisce un racconto che è un affresco degli ultimi quarant’anni di Cosa nostra.

Il sottotitolo recita, la mafia prima e dopo Provenzano, e perciò fin dall’inizio si capisce che la narrazione è centrata sulla cattura dell’ultimo dei capi dei capi di Cosa Nostra, Zi Binnu.

Il libro è perciò costruito come un viaggio nell’universo siciliano della mafia. E proprio come un viaggio ha una tappa da cui si parte ed una meta da raggiungere. La tappa da cui si parte è il Maxiprocesso della fine degli anni ottanta. Si può dire infatti che esiste una conoscenza della mafia prima del Maxi e una conoscenza totalmente diversa dopo il Maxi, così come esiste una mafia di prima del processo e una mafia che dopo il processo che cambia radicalmente il suo atteggiamento nei confronti dello Stato e muta, quasi geneticamente, anche il suo modo di rapportarsi alla politica.

Grasso e La Licata accompagnano il lettore, anche quello meno preparato sui fatti di mafia, a comprendere il fenomeno entrando, capitolo dopo capitolo, sempre più al cuore delle questioni. E così si passa dalla cattura di Zi Binnu e alle tante notti di appostamento che sono state necessarie per catturarlo, a capire chi è stato realmente Bernardo Provengano attraverso i codici di mafia e le misure che, da capo dei capi, ha adottato nel corso di questi ultimi anni, dalla cattura di Totò Riina ad oggi. Ripercorrendo la catena del comando degli ultimi quarant’anni, dalla triade Stefano Bontade, Gaetano Badalementi e Luciano Liggio si passa gestione di Gaetano Badalementi come uomo solo al comando per poi arrivare al “papa” Michele Greco, in realtà “uomo di paglia” che agisce per nome e per conto dello stesso Provenzano e di Riina, si arriva fino alla gestione sanguinaria di Totò Riina e a quella della cosiddetta “mafia invisibile” di Bernando Provenzano. In questo suo mutare la mafia muta anche strategia nei confronti della società e nei confronti della politica. In questo suo mutare restano fermi alcuni punti, l’omertà come valore da difendere e la ricerca continua del consenso sociale. E qui ci sono dei passi straordinari che ci spiegano l’origine del consenso sociale di cui gode la mafia e come si alimenta. Ve ne propongo uno di questi.

Racconta Grasso: “Nel corso di un interrogatorio a un a un collaboratore, reggente del mandamento di Palermo centro, in una pausa gli chiedo quasi per scherzo: “Ma quando finirà la mafia?” Come tutti i mafiosi, risponde con un aneddoto: “ Dottore, un mese prima di essere arrestato fui contattato nella latitanza da un giovane onesto e incensurato. Poteva avere vent’otto anni. Venne da me e mi raccontò che era scappato con la fidanzata e aveva una bambina di otto mesi che piangeva per la fame. Gli risposi di andare in un certo cantiere e rivolgersi a nome mio al costruttore, che certamente lo avrebbe assunto. Cosa che avvenne: ottenne il alvoro, anche se sottopagato e in nero. Dopo un certo tempo ritorna per dirmi: le sono grato, la mia bambina sta bene, mangia. Cosa posso fare per lei? E io gli dissi: dammi i tuoi documenti”. La parabola del pentito si chiude con questa osservazione: “Vede dottore, finchè quel ragazzo viene da me e non da voi, la mafia non finirà mai”.

Il viaggio prosegue e ci conduce nei misteri e nei veleni del Palazzo, laddove per palazzo s’intende il palazzo di Giustizia di Palermo. E qui il libro si arricchisce della presenza del Giudice Giovanni Falcone che di quella stagione dei veleni fu la vittima più importante. Il viaggio si conclude quindi con un dialogo complessivo sulle mafie e sulla crisi della mafia di oggi.

Come ha raccontato lo stesso Grasso la cattura di Provenzano è stata la liberazione da un incubo. La fine di un simbolo e dell’invincibilità della mafia. E soprattutto la fine di trent’anni di depistaggio. E rappresenta contestualmente la speranza, la speranza che cambiare si può e che lo Stato, quando è messo in condizioni di lavorare, è in grado di dare risposte veloci ed efficienti.

Un libro nel libro è costituito dalla prefazione di Emanuele Macaluso. Un’autentica chicca per capacità di sintesi e per l’acutezza delle osservazioni che sono esposte. Non manca una polemica, non solo formale ma di sostanza con il Procuratore Pietro Grasso su alcune riforme del codice di procedura penale che a lascio al lettore il piacere di scoprire nel libro.

Vi lascio invece con l’interrogativo che Macaluso pone in chiusura della sua prefazione.

“Dal momento che non c’è soluzione di continuità nell’opera criminale di Cosa nostra, la quale mostra di essere in grado di mutare strategia, effettuare un ricambio nella cupola, reclutare nuove energie criminali, ottenere ancora complicità negli apparati statali e pubblici, annodare legami con la politica, condizionare ancora l’economia e la società, la domanda è: ci sono politiche capaci di riflettere su queste amare verità?”

Oscar Buonamano


Theorèin- Ottobre 2007