Recensioni

A cura di: Oscar Buonamano

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Titolo: Quei bravi ragazzi
Autore: Claudio Fava
Edizioni: Sperling & Kupfer 2007

Un libro importante questo che consegna alle stampe Claudio Fava. Un libro che restituisce dignità alla politica, senso alle parole, dignità agli uomini. Un libro sul rispetto delle regole. E non è un caso che Fava apra con un omaggio ad un italiano di cui essere fieri e che del rispetto delle regole ha fatto la sua principale ragione di vita, fin quando è stato in vita, Giovanni Falcone.

“Mi fermai a dormire a casa sua all’Acquasanta la notte prima dei funerali di Giovanni Falcone…La mattina dopo vidi per la prima volta le lenzuola dei palermitani esposte ai balconi, e una folla di donne e di uomini, di vecchi e di ragazzi che si erano trascinati fino alla chiesa non per partecipare ai funerali ma per agitare i pugni e gonfiare la voce davanti alle facce di cera indossate per l’occasione dai ministri e presidenti. Era l’inizio di qualcosa, un principio di rabbia di popolo, l’ammonimento di chi non voleva morire suddito né complice. Restammo fuori anche noi: lì dentro, a parte i morti e il dolore dei sopravvissuti, non avremmo trovato nulla da imparare”.

Una storia che inizia a gennaio del 2006 nella stanza di Martin Schultz, il Presidente del PSE, quello del kapò di Berlusconi, e termina il 20 febbraio del 2007 con la relazione conclusiva della commissione d’inchiesta sulle carceri segrete della CIA e sulle extraordinary renditions, letteralmente consegne straordinarie, che proprio Claudio Fava in qualità di relatore tiene a Strasburgo.

Per questa sua attività Fava è stato selezionato dall’Economist tra i cinquanta candidati che si contenderanno il premio di Europeo dell’anno, unico italiano presente nella lista assieme a gente del calibro di Sarkozy e Merkel.

La scrittura di Fava ha un ritmo narrativo serrato e coinvolgente capace di trasformare situazioni complesse in scenari molto semplici da comprendere. Una commissione d’inchiesta da molti sottovalutata che invece alla fine riesce a portare a termine un lavoro imponente capace di coinvolgere nel suo lavoro tutti i paesi europei e perfino la Cia del presidente Bush ma non la Polonia e purtroppo l’Italia.

L’Italia protagonista importante di questo libro dapprima con il caso Abu Omar e il coinvolgimento diretto di Nicolò Pollari ex direttore del SISMI e Pio Pompa e poi nel rapimento dell’ingegnere arabo Maher Arar, totalmente estraneo a qualsiasi coinvolgimento con la Jihad islamica e Al Qaeda eppure tenuto prigioniero e torturato per quasi un anno.

“Dieci mesi e dieci giorni, corregge Arar. Poi comincia. Usavano un cavo elettrico lungo mezzo metro e largo cinque centimetri. Sapevano adoperarlo, il massimo della sofferenza senza lasciare troppi segni: i polsi, le reni, le piante dei piedi…Il primo giorno mi riempirono di botte e basta. Il secondo giorno m’interrogarono per dodici ore. Il terzo giorno, per diciotto ore. Volevano che confessassi di essermi andato ad addestrare in Afghanistan. Io rispondevo che non sono mai stato in Afghanistan e il tipo che mi interrogava continuava a indicarmi una specie di sedia di metallo con un buco al centro e un filo elettrico collegato al muro: se continui a raccontare balle ti mettiamo a friggere lassù. Finché l’hanno fatto sul serio”.

In questo caso siamo di fronte ad una doppia ingiustizia ma nel caso di Abu Omar che non era affatto innocente come ci dice Fava, “Il nostro compito è un altro: sapere se quegli uomini, colpevoli o meno, sono stati trattati come essere umani o come carne da macello. È per questo che siamo qui: il resto non conta”.

Ed è tutto qui il cuore del problema: si può sospendere il diritto, si possono sospendere le regole, ci può esser una terra di nessuno, anche in presenza di atroci delitti o di stragi?

Quando si trova a Strasburgo in assemblea plenaria Fava non rinuncia ai suoi principi, a ciò in cui crede, a ciò per cui tante persone perbene sono morte, il senso di giustizia e il rispetto delle regole appunto.

“Signor presidente, onorevoli colleghi…nell’attacco alle due torri morirono, più o meno, in tremila. Quanti ne sono morti per mano della mafia in Sicilia in questi anni feroci. A New York, come a Palermo, a pagarla sono stati i migliori e i più sfortunati…Vorrei parlare di loro per ragionare su queste strane guerre, noi contro i Corleonesi, gli americani contro Al Qaeda. Perché alla fine ti assale la stessa oscena tentazione, il bisogno di farla finita una volta per tutte, di considerare tutti quei macellai per ciò che sono stati: piccoli uomini capaci solo di sparare alle spalle o di trafficare con un telecomando a cento metri di distanza dal botto. Ed è lo stesso pensiero malato che alla fine della corsa ti porta a tollerare scorciatoie e processi sommari, a Palermo come a New York.

Eppure a quella tentazione ci siamo sottratti. Anche noi che avevamo da seppellire i nostri morti. Non per bontà d’animo ma per necessità, per non diventare come loro, per non impastarci della loro stessa miseria. Quel prurito ce lo siamo fatti passare contando fino a cento, e poi ancora cento e altri cento ancora, fino a quando abbiamo capito che i macellai di Capaci o di via D’Amelio andavano trattati come tutti gli altri: dandogli avvocati, giurie, codici, giustizia, e che proprio questo li avrebbe puniti, li avrebbe ridotti a uomini tra gli uomini. Che per quella gente è la pena maggiore”.

Così man mano che andiamo avanti nella lettura scopriamo come la Cia in spregio a tutte le regole del diritto occidentale, e con la connivenza colpevole di molti, abbia rapito e torturato moltissime persone alcune delle quali, come ci racconta Fava, assolutamente innocenti. E di moltissime altre non si sa nemmeno che fine abbiano fatto.

Michael Scheuer, l’uomo che ha inventato le extraordinary renditions, chiamato a deporre a Washington davanti ad un’altra commissione questa volta chiesta dal Congresso americano sullo stesso argomento ha dichiarato a proposito dell’uso di questa pratica: “Errori, vostro onore, me ne rendo conto…Ma loro non sono americani. So, I really don’t care…”. E più avanti “Io non sono pagato per fare il cittadino del mondo, sono pagato per proteggere il mio paese”.

Bill Delahunt, presidente della Commissione, a quel punto gli toglie la parola. “Nemmeno io sono pagato per essere cittadino del mondo signor Scheuer. Mi pagano per rappresentare gli americani, per far rispettare la costituzione e per difendere l’autorità morale del mio paese”.

E qui Claudio Fava conclude il suo racconto non prima di una chiosa finale che ci riporta all’inizio di questo nostro racconto, ad una delle tre qualità di questo suo lavoro.

“Ecco, quando ripenso a quella risposta, mi sembra che la storia delle extraordinary renditions sia tutta nel vecchio equivoco tra chi si arroga il diritto di negare ogni diritto e chi invece si ostina a credere nel significato delle parole. Ecco: credere nelle nostre parole. È solo questo, alla fine della giostra, che ci rende migliori dei nostri nemici. A Washington come a Palermo”.

Un libro che si legge tutto d’un fiato, in una notte, e che ci lascia sgomenti e però un libro che rappresenta anche una speranza, che ci fa credere che non tutto e non tutti sono uguali. Che c’è gente perbene che si batte per il rispetto delle regole e per un mondo migliore.

Per queste ragioni a questo libro aggiungerei qualcosa, un’epigrafe, che spiega bene e sintetizza al meglio il più profondo significato e messaggio che le parole di Claudio Fava vogliono trasmetterci.

“Fatti non fummo a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, ricorrerei a Dante Alighieri e al libro più importante per noi italiani che è la Divina Commedia. Buona lettura Oscar Buonamano


Theorèin- Novembre 2007