Un’esordio brillante per Andrea Simeone. Il suo primo libro si legge tutto d’un fiato ed ha il potere di isolarti da tutto ciò che ti circonda, anche se il contesto in cui vivi è un non luogo della periferia campana dove trascinano le loro esistenze Ciro, Vinicio, Gaetano e Domingo i protagonisti di Recinto di porci.
Un romanzo dal rarefatto sapore pasoliniano che mette in scena la cruda realtà della periferia italiana. Periferia come terra di confine e di mafia e di camorra. Periferia che non riesce ad essere città e che non è campagna e che si adagia sul nulla come scrive Simeone, perché sul nulla è costruita e dal nulla è abitata.
Un romanzo costruito su tre aspetti fondanti della vita: l’amicizia, l’amore e la morte.
L’amicizia tra quattro ragazzi che abitano terre senza futuro come senza futuro sono le loro vite. Un gruppo che fonda le sue prime esperienze misurando tutto attraverso la lente deformata del vizio: si spezzano di canne da mattina a sera e quando non sono fumati è anche peggio perché sono costretti a misurarsi con una condizione di degrado deprimente.
Una realtà fatta di case superaffollate, di promiscuità, di assenze, di abusi. Vivono circondati, sommersi, dal brutto. Non conoscono, nel senso che ignorano, cosa sia la bellezza.
Un’amicizia che sarà capace di deviare i sentimenti e di sfociare nella follia omicida.
Uno di loro, CiroTramontano, sfiora l’amore. L’amore, quello vero che ti prende a morsi lo stomaco e ti contorce e ti sbatte. Che non ti da tregua e che ti bracca. L’amore che si materializza nella figura di Rosita e della sua chioma rossa. Per lei, Ciro, scrive anche una lettera d’amore, che le consegnerà in uno dei rari momenti in cui le loro solitudini s’incroceranno.
Questa vicenda è l’unico raggio di sole capace di oltrepassare il buio e la noia delle vicende umane narrate.
Ciononostante Simeone non si rifugia nella verità salvifica dell’amore. Non sarà l’amore la chiave che porta alla salvezza perché in questa storia, in questo pezzo d’Italia, non c’è salvezza e non c’è futuro e non c’è neanche presente.
E infine la morte. Morti violente. Morti come grani di un rosario che accompagnano e scandiscono il tempo in uno spazio senza tempo. La morte come rituale. La morte come prassi. La morte senza la quale le giornate non hanno un senso, un fine. La morte che tutti attendono e con la quale sanno di doversi confrontare molte volte nella loro, breve, vita.
Una storia che contiene molte storie e che ci parla anche di cose che non ci sono più o che rischiano di scomparire. C’è ad esempio l’uso di un linguaggio che non si sente parlare nelle città, nelle grandi città. Ciro, Vinicio, Gaetano e Domingo, così come gli altri personaggi del romanzo, usano delle espressioni che ci portano ad un mondo ormai antico, ad un mondo preglobalizzato in cui i modi di dire erano diversi da nazione a nazione, da città a città, da contrada a contrada.
“Adesso Ciro frequenteva un gruppo di ragazzi più giovani, perdeva il tempo con loro”. Perdere il tempo, un’espressione meravigliosa che sta ad indicare proprio l’attenzione a non sprecare tempo, e che ci rimanda ad un’epoca in cui il tempo era considerato un bene prezioso.
“Ciro, e se ce la prendiamo, non è che passiamo qualche guaio?”. Fare attenzione a non cercare situazioni spiacevoli o pericolose tali da farci passare qualche guaio, anche in questo caso, passare un guaio, un modo di dire che è di per se un romanzo nel romanzo.
“Andò nel cesso nel buio, senza accendere la luce. Si mise davanti alla tazza e pisciò “a cazzo””. Fare le cose a vanvera, senza pensarci, senza prestare attenzione, a cazzo appunto. Un’altra espressione che rende molto l’immediatezza e la negligenza del gesto.
Ci sono nella storia che Simeone racconta molte altre espressioni che rendono la sua scrittura un’esperimento linguistico che non è ancora la lingua meticcia di Camilleri o quella elegante e rivoluzionaria di Gadda ma che ha la capacità d’imporsi con la sua freschezza e personalità.
Mi piace infine sottolineare la stridente contraddizione che si manifesta tra la desolazione delle terre abbandonate e governate dalla malavita organizzata e la dimensione ludica del gioco che si ha quando ci si imbatte nella parte iniziale del capitolo intitolato Signora.
“Passarono davanti a un distributore di benzina, che dentro aveva un’armeria. Nello spiazzale una decina di ragazzi giocava a pallone, correndo e litigando ogni due secondi per un fallo, un tocco di mani, un rigore. La partita era arrivata al punteggio di 72 a 81”.
Infinite partite di calcio tra ragazzi che iniziano nel pomeriggio e terminano, con punteggi a tre cifre, quando non c’è più luce e il sole ha lasciato posto alla luna nel cielo. Partite epiche che si giocano tra una pompa di benzina e case a due piani. Una condizione questa impossibile da realizzare in città altre, diverse dai luoghi narrati, città piene di tante cose eppure vuote, terribilmente vuote, di spazi per giocare.
Simeone racconta storie dell’italia di oggi che sarà anche l’italia di domani e che speriamo non sia quella che abiteranno i nostri figli e i nostri nipoti.
Ci sono libri che quando arrivi alla fine vorresti cominciare di nuovo e farli durare ancora e ancora per altro tempo.
Ci sono libri che è bello leggere perché ti fanno riflettere. Perché ti fanno distrarre. Perchè ti portano altrove.
Recinto di porci è uno di questi.
Oscar Buonamano