Recensioni

A cura di: Oscar Buonamano

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Titolo: e donne infreddolite negli scialli
Autore: Cristina Mosca
Editore: Schena 2007

Il tempo e la memoria. Il mare e il dolore. E l’amore. E poi di nuovo il dolore. Ci sono tanti temi in questo che può considerarsi il vero esordio letterario di Cristina Mosca. Ci sono innanzitutto due storie, oserei dire due libri, ognuno con il proprio registro, che percorrono autonome strade per poi sfiorarsi, intersecarsi e infine fondersi. “Il rumore del mare non le dava pace. Un rombo di burrasca che si scagliava fragoroso sugli scogli e che le impediva di ascoltare i suoi pensieri. Sentiva solo il mare, e il fremito sulla pelle”. È quello che sente Sara quando sola di fronte a Lorenzo è pronta per chiudere i conti con il suo passato, la sua storia, la sua stessa origine, e aprire la porta del suo futuro. Due storie e quasi due libri. Una lunga e ininterrotta poesia, quasi un’orazione, e un racconto. Poesia e racconto che in un rapporto maieutico fanno emergere il tempo e la memoria, il mare e il dolore. E l’amore. E poi di nuovo il dolore. Leggendo questo libro mi è venuto in mente un autore che amo molto Wim Wenders. Scrive il grande intellettuale tedesco in uno dei suoi lavori più belli, The Act of Seeing, l’atto di vedere: “Noi, nella testa, abbiamo un nido che conserva un determinato numero di storie, non una di più o di meno; queste storie provengono dall’infanzia e dai sogni che produce, non c’è strada che ci porti a quel nido, non si può creare niente che non vi sia già stato immenso in precedenza.” Allo stesso modo Cristina Mosca attinge dal suo nido e frappone tra se e la sua infanzia, tra se e i sogni che essa produce, la letteratura e la poesia. E in questo doppio registro di scrittura, sospeso tra poesia e narrazione, ci accompagna in un viaggio che è insieme memoria e presente, memoria e futuro. “Le cose cambiano, se guardate da un’altra prospettiva. A volte completamente”. E l’atto di vedere, come scrive Wenders, che restituisce la percezione del mondo. Guardare con occhi altri e soprattutto darsi il tempo di guardare anche altro, perché “e per il tempo, che non basta mai”, che spesso tutto ci appare per quello che non è e non per quello che è o che potrebbe essere. “Quegli occhi, occhi del colore di una pozza d’acqua in un prato quando il sole arriva e ci sbatte sopra”. C’è un sistema sicuro per apprendere un concetto: ripeterlo più volte. E Cristina Mosca utilizza questo metodo per fissare e selezionare immagini e sensazioni che altrimenti si confonderebbero nel mare magnum di sentimenti e ricordi, di passioni e di pulsioni verso le quali Sara si lancia a braccia aperte. Sentimenti e ricordi, passioni e pulsioni che affollano la mente di un bambino e che fanno fatica a trovare la loro giusta collocazione nel presente. “Come si racconta la speranza ad un bambino di 15 anni? La sua era fatta di vestiti alla moda e di colazioni già pronte sul tavolo; di una persona pronta a dargli calore, a controllargli i compiti e preparare dolci per i suoi amici. Una nota di dolcezza nel pentagramma delle sue giornate, che dall’oggi al domani erano diventati ammassi inconcludenti di rumori e scelte fatte a caso”. La contrapposizione, linguistica e di contenuto, tra il lavoro materiale e senza tempo di chi va per mare e il lavoro immateriale e scandito da tempi frenetici della contemporaneità è il doppio registro di questo romanzo. Una contrapposizione che vive per tutta la durata del romanzo e che solo nell’epilogo trova il suo punto di equilibrio. E così come “Le immagini si ritirarono nel buio, con la stessa lentezza di un’onda che si ritira dalla battigia” anche i demoni del passato si ritirano nel buio di fronte a “baci che promettevano un futuro e che, se profumavano di passato, profumavano solo di quello che avevano costruito insieme”. E qui il cerchio finalmente si chiude e si intravedono nuove prospettive e nuove possibilità per Sara. Le stesse prospettive e possibilità che s’intravedono per Cristina Mosca che con e donne infreddolite negli scialli chiude una porta e si appresta ad aprirne altre. “Cosciente che quando sarà stato tutto detto, tutto resta ancora da dire, tutto resterà per sempre da dire, in altre parole è il dire che importa, non il detto, ciò che avevo scritto mi interessava molto meno di quello che avrei potuto scrivere in seguito”. Come ci ricorda André Gorz nel suo Lettera a D. Un romanzo in cui la poesia gioca un ruolo determinante. In alcuni casi ne detta il ritmo in altri si ritira in buon ordine per cedere il passo alla narrazione. La narrazione di luoghi fisici a volte contraddittori eppure affascinanti, come i piloni di cemento armato di una strada sopraelevata e il profilo di una montagna illuminata dal sole. Oppure alla narrazione di luoghi dell’anima anch’essi a volte contraddittori eppure affascinanti dove il sole spesso non arriva ma quando arriva è l’arcobaleno. E vorrei chiudere con un omaggio alla poesia. La preghiera laica, che “cantava piano alle Fontanelle mentre strofinava i panni tra la pietra porosa e il sapone, e che ritorna alla mente di Sara nel momento che precede il ritrovato amore,

E ti han portato via
senza neppure un fiore
senza una parola
senza di me…

e l’immediatezza della poesia di Gino Gervasini che chiude il libro,

O Luré! Lu mare ‘n t’ha sapite accundenta’
Ma sotte llu lampeio’
Ieie arvode angore a tò.

Oscar Buonamano


Theorèin- Giugno 2008