Recensioni

A cura di: Oscar Buonamano

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Titolo:  In nome della madre
Autore: Erri De Luca
Editore: Feltrinelli 2008

“In nome del padre inaugura il segno della croce. In nome della madre s’inaugura la vita”. Nella premessa a questo straordinario racconto di Erri De Luca è sintetizzata la storia che leggeremo. Una storia in cui l’io narrante è una donna, la donna ideale secondo la tradizione e cultura cattolica, e dove la figura dell’uomo acquista una dimensione quasi aulica man mano che il racconto entra nel vivo. “Maestrale di marzo Non è strano in natura inseminarsi al vento, come i fiori. Fiore è il nome del sesso delle vergini, chi lo coglie, sfiora. Miriàm/Maria fu incinta di un angelo in avvento A porte spalancate, a mezzogiorno. Il vento si avvitò al suo fianco Sciogliendo la cintura lasciò seme nel grembo. Fu salita senza scostare l’orlo del vestito…” La storia la conosciamo tutti, è in qualche misura la nostra storia, la storia che ci raccontano fin dalla nostra nascita. Una storia che ci accompagna da più di duemila anni e che non sembra incappare in crisi d’identità e non sembra essere esposta a voglie di riscritture. La storia la conosciamo tutti ma il racconto che scrive De Luca modifica questa storia, supera la tradizione e le credenze per parlarci del rapporto tra una donna, promessa sposa, e di un uomo, futuro marito. Della tenerezza e dell’amore con cui questa donna circonda e invade quest’uomo e della dedizione assoluta con cui quest’uomo si concede a questa donna. E poi ci sono le carezze mute. In un mondo in cui le regole sono scritte da maschi per maschi e in cui la femmina non può guardare in faccia il suo promesso sposo prima delle nozze, Miriàm/Maria che quando concepì fu salita senza scostare l’orlo del vestito, è vergine e però sposa. Josef è incredulo quando apprende la notizia e questa sua incredulità è una incredulità vera, autentica. Non ci sono retropensieri nel suo chiedere con insistenza a Miriàm di ricordarsi le parole. Le parole con cui tutto ha avuto inizio. “Berukhà att’miccòl hannashìm”, ripete Miriàm, solo e sempre “Berukhà att’miccòl hannashìm”. Nel poco tempo che intercorre tra l’ascoltare e il realizzare ciò che è successo, l’unico pensiero che anima Josef è il modo con cui salvare la vita della sua promessa sposa. Le contromisure indispensabili da mettere in atto per salvare Miriàm dalle regole della loro comunità. “Ero felice. Avrei voluto abbracciare il mio Josef, per lui mi era salita in petto una tenerezza mai provata…con la tenerezza la gratitudine. Mi aveva creduto…Fai quello che è giusto Josef. Io oggi sono tua più di prima, più della promessa”. Sembra quasi di vedere gli occhi sorridenti di Miriàm e l’anima stessa di Miriàm che esce fuori attraverso quegli stessi occhi sorridenti e che inonda Josef quando pronuncia quelle parole. Mi era salita in petto una tenerezza mai provata è quasi onomatopeico e ci fa sentire nei panni di Josef che di fronte a una donna così non può che capire una volta di più che Miriàm è la sua donna e sarà la sua donna per sempre. “Gli uomini danno tanta importanza alle parole, per loro sono tutto quello che conta, che ha valore…” ripete Miriàm a Josef e Josef non può far altro che spiegare e spiegarsi che le regole sono regole e in quanto tali vanno rispettate e che quindi per salvare il loro amore bisogna trovare la soluzione nelle regole stesse. Sarà una ricerca dura e una ricerca che costerà a Josef l’inimicizia, la diffidenza e la contrarietà del suo gruppo. “Sorridevo nella mia stanza al mio Josef che sapeva dire sì a me e no a tutto il resto del mondo…Mi sentivo invincibile con lui al fianco e l’altro lui nel ventre”. La forza di Josef di rinunciare al mondo esterno e di seguire Miriàm nel progetto comune discende direttamente dall’amore che Miriàm nutre nei suoi confornti. Si alimenta di quell’amore e cresce in quell’amore. “Sellò l’asina con una stoffa morbida, mi fece salire sollevandomi di peso e appoggiandomi sopra la schiena della bestia. Fu il primo abbraccio delle nostre nozze. Lo ripetemmo a ogni sosta, un abbraccio per scendere, uno per salire…” Un amore che viene curato, custodito. Che non ha bisogno di mostrarsi perché, semplicemente, è. Un amore che trova nello sfiorarsi la sua fisicità. Anche un semplice abbraccio diventa momento di condivisione e di gioia. Un momento da ripetere per cercarsi e per continuare a cercare. Miriàm parla con il suo bambino quando è nella pancia così come tutte le mamme parlano con i loro bambini quando sono nella pancia. Parla è gli racconta il mondo, la luce, i sapori. Parla sempre, incessantemente, fino alla notte che tutto il mondo ricorda ogni anno da duemila anni. “Fuori c’è il mondo, i padri, le leggi, gli eserciti, i registri in cui iscrivere il tuo nome…Qui dentro siamo solo noi…poi entreranno e tu non sari più mio…Ma finché dura la notte, finché la luce di una stella vagante è a picco su di noi, noi siamo i soli al mondo…” Se potesse farebbe durare quella notte tutta una vita. Ha voglia di restare da sola con suo figlio tra le braccia. Vuole accompagnare i primi momenti di vita della sua creatura nel mondo da sola. Vuole sentire il suo respiro confondersi con quello di Ieshu. Vuole sentire il battito del suo cuore. E vuole guardarlo. Guardarlo, da sola. In nome della madre s’inaugura la vita ci dice Erri De Luca nella premessa e Miriàm/Maria ci ricorda che quel viaggio meraviglioso che è la vita, inaugurato dalla madre appunto, verrà chiuso sempre da un donna. Che sia essa madre o no poco importa, di certo sarà una donna. Di certo è una donna. “Ci vogliono le donne al momento della schiusa e all’ora di chiusura”.

Oscar Buonamano


Theorèin- Giugno 2008