Bisogna aver vissuto nella Roma prima del 1914 per rendersi conto che la casa che Agostino Chigi si era fatta costruire sull’altra riva del Tevere non era la sua casa di città (egli infatti aveva un palazzo nel cuore di Roma, nella strada dei banchieri dove attendeva ai suoi affari), bensì una villa dov’egli intendeva godersi le sue ore di riposo.
Andare alla Farnesina, che ora si può raggiungere con l’autobus in dieci minuti, sembrava allora una specie di escursione, ed esigeva parecchio tempo, significava praticamente « andar fuori città ».
La Farnesina è ciò che gli antichi Romani avrebbero chiamato una « villa suburbana», cioè una villa da cui l’uomo d’affari poteva facilmente raggiungere il centro della città e che non distava tanto da non potervi rientrate la sera.
La posizione della Farnesina è caratteristica del personaggio che la fece costruire. Agostino Chigi era venuto a Roma da Siena. Poco dopo il suo arrivo fondò una banca, e divenuto banchiere dei Borgia, che avevano sempre bisogno di denaro (prestò i suoi servizi sia a papa Alessandro VI che a Cesare Borgia), fu ben presto una delle figure principali del mercato finanziario romano. La sua città natia, Siena, gli conferì non solo la dignità di senatore, ma persino il pomposo titolo di «Magnifico ». Da Siena egli acquistò il porto e il castello di Porto Ercole, dove attraccavano le sue navi mercantili, e dove aveva grandi magazzini per cereali e per allume, uno dei generi più importanti in cui commerciava la sua ditta.
Il Chigi non era dunque uomo da farsi costruire una casa in cui starsene in tranquillo ritiro. Ciò che voleva era una villa in cui poter ospitare sontuosamente i suoi amici romani e divertirsi senza allontanarsi troppo dal centro della sua vita, la città con il suo movimento e i suoi affari.
Il Chigi è noto soprattutto per la sua relazione con Imperia, famosa cortigiana dell’epoca. Non c’è dubbio che egli l’amasse e credesse di essere il padre della sua bambina, come non ci può esser dubbio che Imperia dovesse essere sotto ogni aspetto, sia per la sua bellezza che per il suo spirito, una personalità di rilievo. Quando morì, a soli ventisei anni, il Chigi organizzò uno splendido funerale, cui parteciparono molti membri della società romana, mentre in lode di Imperia si composero anche molte poesie.
Pochi anni dopo la morte di Imperia, il Chigi conobbe a Venezia Andreosia, una ragazza di onesti anche se non molto elevati natali. Egli la indusse ad abbandonare la famiglia, facendone la signora della Farnesina. Da lei il Chigi ebbe quattro figli, il primo dei quali fu chiamato Lorenzo Leone in onore di papa Leone X e fu battezzato dal papa in persona. I quattro figli erano tutti illegittimi, e quando poco prima di morire il Chigi decise di sposare Andreosia, fu ancora il papa che li congiunse in matrimonio.
Da tutto questo possiamo farci un’idea di che cosa potesse voler dire per un artista costruire e decorate una villa per il Chigi.
Costui non era un genio, come Lorenzo de’ Medici che riuniva intorno a sé i Platonici e componeva egli stesso canti deliziosi e poesie filosofiche; ma era un potente collaboratore dei papi del Rinascimento, un uomo dalla viva sensualità, la cui esplicita intenzione era quella di costruirsi una dimora in cui poter vivere assieme ai suoi amici circondato da tutto quello che la nuova arte classica poteva offrire di meglio.
Lo schema della villa, anche se non del tutto nuovo, era piuttosto inconsueto per l’epoca. La villa aveva una loggia aperta nel blocco centrale, dai cui lati si protendevano due ali.
La loggia è naturalmente la caratteristica principale, al pari della stanza aperta sul giardino, che dà al visitatore l’impressione di essere in campagna. Il tipo di questo schema è uno di quelli più frequenti nelle antiche ville romane. Non sappiamo se il Peruzzi, architetto del Chigi, conoscesse questo schema classico.
La Farnesina va considerata più come una continuazione della casa italiana del tardo Medioevo che come un imitazione dell’antica villa romana. Ma tutto lo spirito della sua architettura è certamente classicheggiante, soprattutto nei particolari, e basterebbe l’esterno per indurci a pensare che nelle stanze non ci fosse da aspettarsi tappezzerie francesi e fiamminghe come in quelle dei Medici.
L’architettura riflette l’idea che la vita brillante, quale la concepiva la generazione del Chigi, non si potesse realizzare che in un ambiente simile a quello in cui i grandi uomini dell’età romana tenevano le loro feste.
La stanza più intima della casa era al primo piano e le sue pareti erano state dipinte da un maestro proveniente dalla città natia del Chigi, Siena, che si chiamava Bazzi ed era comunemente detto il Sodoma. Questa era la stanza da letto del Chigi, che dal Sodoma vi aveva fatto dipingere tre scene della vita di Alessandro il Grande.
La scena che rappresenta il matrimonio di Alessandro con la bella Rossana era ben appropriata alla stanza destinata alla sposa veneziana del Chigi, Andreosia. Rossana siede
sul letto circondata da putti, mentre Alessandro si avvicina porgendole una corona e le sue tre cameriere stanno per lasciarla. Due uomini accompagnano
Alessandro e dei putti popolano ogni angolo della scena. Il pittore ha chiuso l’immagine, in primo piano, con una balaustra aperta al centro: sicché
stando, nella piccola stanza, molto vicino al muro, si ha quasi la sensazione di poter entrare a prender parte alla scena.
Non solo il quadro rappresenta un
soggetto classico ed è pieno di particolari classici, ma è l’esatta illustrazione di un passo di Luciano in cui questi descrive un quadro, che
dice d’aver visto in Italia, del pittore greco Aezione. Le descrizioni di dipinti fatte da Luciano godevano grande fama nell’Italia rinascimentale: ed
una è ricordata ad esempio nel trattato sulla pittura dell’Alberti: (1)
"Il quadro si trova ora in Italia, e io ne parlo come uno che ha potuto
vederlo. Rappresenta una bellissima camera da letto con un letto matrimoniale.
Su di esso siede Rossana, la fanciulla più bella che si possa Immaginare; tiene
gli occhi abbassati, troppo timida per alzarli su Alessandro che le sta di
fronte. E' circondata da numerosi cupidi ridenti, uno dei quali, standole alle
spalle le solleva il velo dalla fronte e la rivela allo sposo; un altro, in
atteggiamento di schiavo, le toglie i calzari affinché essa non esiti oltre a
distendersi; un terzo tira Alessandro per la veste e lo spinge con tutte le sue
forze verso Rosanna. Il re offre alla fanciulla una corona, e ha con sé come
testimone Efesto, che ha in mano una torcia accesa e accanto a sé un bellissimo
giovane, che probabilmente rappresenta il dio delle nozze, poiché il nome non
compare nel quadro. In un’altra parte del dipinto si vedono altri cupidi che
giocano con le armi di Alessandro; due portano la sua lancia e sembrano quasi
crollare sotto il suo peso. Sia detto per inciso, i risultati dimostrarono che
il dipinto era realmente pervaso di un certo spirito nuziale, se permise
all’artista di ottenere la figlia di Prosscnide. Il suo matrimonio fu, per così
dire, il corrispettivo di quello di Alessandro, e il re stesso ne fu il
testimone e ripagò Aezione del matrimonio dipinto con un matrimonio vero".
(2)
Tutti i particolari descritti da Luciano si ritrovano nel dipinto del Sodoma. Esso fu eseguito verso il 1510,
cioè intorno alla stessa epoca in cui Tiziano dipingeva per gli Estensi la famosa illustrazione della « Festa degli Andrii » da Filostrato. Ma è difficile immaginare una differenza maggiore nel modo di trattare un soggetto
classico di quella che c’è fra il dipinto di Tiziano e quello del Sodoma. Mentre Tiziano trasportò l’isola di Andro nella terraferma veneta, qui, in terra romana, il Sodoma fece del suo quadro un mosaico di particolari classici.
Naturalmente il paesaggio che si intravvede a destra è un elemento « moderno»; ma l’intenzione del Sodoma rivela una differenza netta rispetto a quella
di Tiziano, e l’archeologia ha una funzione essenziale nella sua opera.
Gli artisti che decorarono il
pianterreno erano di carattere completamente diverso. Iniziamo da una stanza
piuttosto scura che non ha dipinti sulle pareti ma solo un fregio tutt’intorno
in alto. Non è escluso che l’idea di dipingere un fregio continuo dai
soggetti svariati lungo tutta la stanza mirasse anche ad aderire allo spirito
dell’arte classica: nei templi ionici esistono infatti fregi del genere.
La prima scena rappresenta Mercurio che ruba la mandria di Apollo. Il pittore del fregio deve aver certo
avuto in mente la famosa figura di Mercurio che Ciriaco d’Ancona aveva riportato dalla Grecia per i suoi amici italiani. Sulla destra della scena si
vede un grazioso torello con gli occhi spalancati, che nuota nell’acqua portando sul dorso una leggiadra Europa, seguita con sguardo ansioso dalle sue
ninfe sulla riva.
La scena successiva rappresenta Danae e la pioggia d’oro, Giunone che persuade Semele a interrogare Giove e la povera Semele colpita dal
fulmine di Giove. In un’altra parte del fregio si vede Apollo che afferra Mida per le sue orecchie d’asino; Apollo che suona il violino mentre Pan con la
siringa in mano lo guarda con un’espressione di. agrodolce ammirazione; infine, a destra, Tantalo assetato nell’acqua che non riesce mai a
raggiungere.
Un’altra scena mostra Bacco, seduto su un tronco d’albero, che solleva una tazza, con Amore in piedi accanto a lui; entrambi guardano verso
destra, dove Marsia viene scorticato per ordine di Apollo, che non ha perdonato al vecchio satiro d’aver presunto di suonare non meno bene di un
dio dell’Olimpo. E’ uno strano assortimento di vicende: scene d’amore e di morte, di crudeltà e di gioia.
I temi sono ricavati dalle Metamorfosi di
Ovidio, che era la bibbia di tutti coloro che nel Medioevo e nel Rinascimento si occupavano di mitologia.
Che cosa si trovava di attraente in Ovidio? C’era naturalmente il fascino del racconto fantastico terminante
con qualche metamorfosi e anche l’incanto delle descrizioni delle movimentate scene d’amore fra gli dei. Ma ciò che conferisce ai racconti di Ovidio il loro tono più profondo è qualcosa che egli aveva tratto dalle sue fonti greche.
I racconti ovidiani risalgono a leggende greche che originariamente appartenevano alla sfera religiosa, e che finiscono con una metamorfosi o con
qualche altra amara conclusione: Sisifo si affanna senza speranza, Dafne resterà per sempre una pianta d’alloro, Orfeo, il mirabile cantore, viene miseramente straziato a morte dalle donne tracie durante un’orgia bacchica;
Meleagro trova la morte per la maledizione di sua madre. Nel fregio si vedono le tre Moire che tagliano il filo della vita, e Altea che accende il tizzone e pone
fine alla vita di Meleagro. Questo fregio ovidiano è un poema dedicato all’amore e alla sua triste fine; e ben a ragione queste storie sono state definite una specie di « danza macabra », il « Cantico dei Cantici », per così dire, della vita e della morte.
Nella stanza accanto c’è una serie di affreschi di Raffaello e della sua scuola che rappresentano la
storia di Amore e Psiche, forse una delle opere più famose di tutta la storia
dell’arte. La stanza dà sul giardino, e questi affreschi brillanti, con le
loro numerose ghirlande di frutti e di fiori, vanno visti in rapporto con il
piacevole scenario esterno. Essi sono per la maggior parte opera di allievi di
Raffaello e hanno subìto molti ritocchi.
La storia di Amore e Psiche esercitava un forte richiamo sulla fantasia degli uomini del Rinascimento, che
vi trovavano riuniti i due elementi che maggiormente li interessavano: l’Amore
e l’Anima.
La storia ha radici antiche e profonde. Psiche era in origine una
dea orientale.
(3)
Aveva un marito, Eros, che le si accostava solo nell’oscurità e che le
era proibito vedere; ma in un momento d’insofferenza essa infranse il divieto:
guardò Eros, e fu subito colma di vera passione per lui.
Nel mito antico pare
che Eros, in conseguenza dell’atto di Psiche, rimanga esanime, e allora
Psiche, in prova del suo amore, va a prendergli le acque della vita dalla fine
del mondo. Egli ritorna allora in sé e l’abbraccia riconciliato; vola poi dal
padre degli dei e ottiene il permesso di dare a Psiche il nettare che la renderà
immortale, e quindi porta la sposa con la sua barca oltre l’oceano dei cieli
nel regno beato degli dei.
Un mito di questo genere è alla base del racconto di
Apuleio, ed è ciò che rende tanto attraente la storia, altrimenti piuttosto
banale, narrata dal poeta latino.
I Platonici del Rinascimento furono molto
attratti dal concetto che Eros e Psiche siano legati l’uno all’altra e che
Psiche, una volta contemplata la bellezza divina, sia presa da un invincibile
desiderio di essa.
Apuleio introduce nella sua narrazione i numerosi elementi
che si trovano di solito in storie di questo tipo, e la povera Psiche deve
subire varie prove da Cenerentola prima del lieto fine.
Raffaello aveva dunque
davanti a sé un curioso miscuglio composto da una storia narrata più o meno
realisticamente e da un mito antichissimo che già aveva subito varie
vicissitudini nella società filosofeggiante della tarda antichità.
Ma ciò che si vede alla Farnesina sono solo scene e personaggi di grande splendore. Vediamo per esempio
Amore con le tre Grazie, alle quali egli addita la sua amata Psiche. Vediamo il padre degli dei, Giove, seduto sulla sua aquila e col fulmine nella mano
sinistra, mentre Venere attorniata dalle sue colombe gli compare dinanzi supplicante. C’è poi Giove che bacia Amore, e Psiche che sale al palazzo di
Venere con in mano un vaso contenente l’essenza della bellezza sufficiente per un giorno, che la perfida Venere le ha ordinato di portare dagli inferi. Nei due
grandi riquadri della volta si vede Psiche finalmente accolta fra gli dei, e le nozze di Amore e Psiche: chi sa di archeologia non ha difficoltà a riconoscere
tutti gli dei.
Il ciclo di Amore e Psiche della Farnesina è l’esempio
più puro, in pittura, di quella «imitazione» di cui allora tanto si
discuteva, non solo fra gli artisti.
Nei circoli letterari, in cui la
discussione durava da vari decenni, tutti erano d’accordo sulla necessità
di imitare i classici, e il solo problema era di stabilire se il latino
ciceroniano fosse l’unico degno di imitazione.
I dipinti di Amore e
Psiche rappresentano il più grande tentativo di illustrare i miti pagani nello
spirito dei marmi classici che venivano alla luce dal sottosuolo di Roma. L’amore e gli strani miti
antichi che sono argomento di tutte le favole classiche, erano cari nel
Rinascimento agli intellettuali d’ogni parte d’Italia. Nel complesso,
gli artisti romani erano più inclini di quelli di Firenze o di Venezia ad
aderire strettamente ai precetti dell’imitatio nel senso tecnico ed elevato
che il termine aveva per i contemporanei di Raffaello, e si direbbero
caratterizzati da una particolare inclinazione verso l’archeologia. I
risultati di questa imitatio variano in artisti dal temperamento diverso come il
Sodoma e Raffaello. Appunto perché il Sodoma è cosi fedele ai modelli
classici fin nei più minuti particolari, non è facile per il gusto moderno
sopportare la sua sensualità; e proprio perché Raffaello segue tanto
fedelmente le linee dei marmi antichi, il suo Amore e Psiche sono talmente privi
di sensualità da risultare quasi inumani.
Il Sodoma e Raffaello rappresentano i due estremi: il Peruzzi, architetto della villa e autore del
fregio ovidiano, sta a metà strada tra di loro.
Sulla volta della seconda
loggia egli creò un’opera che tende a combinare i due estremi, un’opera in
cui gli dei appaiono come i sublimi personaggi omerici e al tempo stesso come
i demoni che reggono il fato dei mortali: da un lato come abitatori
dell’Olimpo, dall’altro come divinità astrali dalle cui rispettive e
variabili posizioni l’astrologo predice il destino degli uomini.
La loggia del Peruzzi è una delle stanze più celebri della villa. Su una parete si vede Galatea che si allontana sulle acque da Polifemo: è il famoso dipinto di Raffaello ispirato a una poesia del Poliziano. Gli altri dipinti sulle pareti della stanza non furono purtroppo eseguiti secondo il piano originale, che prevedeva scene simboleggianti l’aria in quanto elemento.
Sul soffitto però ci sono delle scene che a
prima vista sembrano molto simili a quelle delle altre stanze della villa: Giove
ed Europa, la nascita di Venere, Saturno con Venere in una disposizione simile a
quella che aveva di fronte a Giove nell’Amore e Psiche di Raffaello. Sembra di
trovarsi nuovamente dinanzi ai miti classici di un altro ciclo ovidiano.
Ma nel
riquadro centrale del soffitto non troviamo, come ci si poteva aspettare, un
banchetto degli dei, ma Perseo che uccide Medusa, e Pegaso in figura Famae che
sorge dal sangue di Medusa e soffia in una lunga tromba. La tromba è rivolta
verso il centro del soffitto, dove si trovava una volta lo stemma della famiglia
Chigi. L’idea della Fama che fa risuonare la gloria del proprietario della
casa non e affatto straordinaria in una società che aveva fatto propria fino in
fondo l’idea classica della gloria individuale. Ma questa scena apparentemente
ovidiana è cosparsa di stelle. E' difficile che ciò voglia indicare che la
scena si svolge nel cielo anche se potrebbe significare che la fama del Chigi si
è diffusa fino a quelle altezze. Ma un’altra spiegazione sembra più appropriata:
Perseo non solo appartiene alla grande famiglia degli eroi greci, ma ha anche
dato il suo nome a una delle principali costellazioni dell’emisfero
settentrionale. Si direbbe che la vita e la gloria del Chigi siano in qualche
modo connesse con la costellazione di Perseo e determinate da essa. Possiamo
dunque interpretare la scena come se volesse dire che la fama del Chigi traeva
origine non da vicende terrene ma dal suo destino determinato dalle stelle.
Se si accoglie questa
interpretazione, le scene mitologiche che si trovano intorno a quella centrale
assumono un significato completamente diverso da quello che abbiamo attribuito
alle scene delle altre stanze della Farnesina. Nella scena del ratto d’Europa,
per esempio, notiamo che sullo sfondo al disopra del toro, c’è un altro
animale che sembra dirigersi proprio verso il volto del padre degli dei: si
tratta di un ariete, che non avendo niente a che fare con la storia qui narrata,
deve avere qualche significato simbolico.
Nella scena seguente vediamo Amore e
Venere, accanto a Saturno che in un certo senso e padre della dea e ai piedi di
Amore ci sono dei pesci. Non conosciamo alcun mito in cui Saturno incontri
Venere accompagnata da un Cupido pescatore: non ci sono dunque ragioni
mitologiche per questi accostamenti. Ma in un autore classico che scrisse sui
miti astrali c’è una storia su Venere, Amore e i pesci. Essa narra che un
giorno Venere e Amore, inseguiti da un mostro chiamato Tifone, si trasformano in
pesci, e così trasformati divennero i patroni del segno zodiacale che porta
quel nome.
(4)
Nell’affresco che rappresenta la nascita di Venere la dea è accompagnata non
solo dalle sue colombe, ma anche da un animale strano e molto meno animato delle
colombe che le svolazzano intorno: un animale con la testa di caprone e la coda
di delfino, tale che non ci si può sbagliare a chiamarlo col nome di un altro
segno dello zodiaco, « Capricorno ».
Questi pochi esempi dovrebbero
bastare ad avvalorare l‘interpretazione astrologica della scena di
Perseo-Pegaso; analoghe indicazioni di significato astrologico si trovano in
tutto il soffitto.
La struttura è molto semplice: intorno al pannello
centrale ci sono raffigurazioni dei dodici segni dello zodiaco, e in alcune di
esse compaiono divinità planetarie. Venere come pianeta appare nel segno del
Capricorno; Giove nel segno del Toro; il Sole, Apollo, nel segno del Sagittario; e così via.
Queste indicazioni sono abbastanza precise perché ci si possa chiedere se le posizioni astronomiche rappresentate nel soffitto si siano mai verificate durante la vita del Chigi.
Possiamo disegnare una precisa carta delle stelle dell’emisfero settentrionale in cui figurino tutte le costellazioni dipinte negli affreschi del Peruzzi; e vediamo che Pegaso e l’Orsa Maggiore sono opposti fra di loro al centro, come nel soffitto. Dopo una serie di calcoli è stato possibile stabilire quando i pianeti si sono trovati nelle posizioni che occupano alla Farnesina. (5)
Una delle date in cui si è verificata questa configurazione di pianeti e zodiaco è il
1° dicembre 1466.
Per quanto possa sembrare strano, non c’è nessun documento
che ci dica esattamente la data di nascita del Chigi, ma sappiamo che dev’essere stata intorno al 1465; non c’è quasi dubbio perciò che quello che vediamo sul soffitto della Farnesina sia l’oroscopo del Chigi. Sappiamo che chi lo dipinse, il Peruzzi, era egli stesso astrologo, e sappiamo pure che il Chigi
credeva nell’astrologia e che gli era stata predetta una vita lunga e prospera.
Arriviamo qui a uno dei più importanti aspetti della rinascita pagana. Come altri facevano dipingere sulle pareti delle proprie case le storie dei loro santi patroni, ad esempio San Giorgio o San Cristoforo, quali custodi del loro destino,
così questo romano dalla mentalità pagana fece dipingere le divinità astrali pagane, che gli avevano promesso ogni buona sorte in terra, sul soffitto
della loggia in cui riceveva i suoi illustri ospiti e con loro godeva le ricchezze di questo mondo.
Si direbbe che siamo riusciti finalmente a decifrare il vero significato di questi dipinti, che dapprima ci erano sembrati una semplice continuazione di quelli delle stanze adiacenti. Ma torniamo ora alla prima scena che abbiamo considerato
in questa stanza, quella di Saturno e Venere. Si ricorderà che una seconda Venere l’abbiamo vista nel segno del Capricorno sull’altro lato del
soffitto. È strano che Venere debba apparire due volte in uno schema astronomico. Ma in termini astrologici la prima scena non rappresenta che il pianeta Saturno nel segno dei Pesci: Venere e il figlio di Cupido sono stati aggiunti solo per ricordarci il mito che
spiegava l’origine del segno zodiacale e il rapporto fra Venere e Saturno. Entrando nella stanza, chiaramente non ci si chiede di attribuire a questa scena
un significato maggiore delle immagini ovidiane della stanza accanto. Nella scena di Giove ed Europa, la presenza di Europa si spiega col fatto che proprio per aver portato lei sulla sua groppa
il Toro fu assunto al cielo come segno dello zodiaco. In se stessa Europa non ha ovviamente alcun significato astrologico. Allo stesso modo, la scena di Leda col
cigno non è un’illustrazione della storia di Ovidio; vuole invece ricordarci l’origine di Castore e Polluce, i quali nacquero dall’amore di
Giove per Leda e vennero assunti in cielo come costellazione dei Gemelli. Non credo che sia difficile indovinare perché questi e altri personaggi mitologici siano stati introdotti in scene delle quali sembrano solo Oscurare il
vero significato astrologico. Il pittore e i suoi consiglieri volevano evidentemente rappresentare l’oroscopo del Chigi nel modo più corretto e in
tutta la sua importanza; ma entrando nella loggia il visitatore doveva sentirsi dentro lo stesso regno di poesia classica e di vita classica evocato nelle altre
stanze. Perciò il Peruzzi vestì i suoi soggetti astrologici di abiti ovidiani.
L’astrologia pagana aveva una forte influenza sulla mentalità degli uomini della generazione del Chigi, amanti della vita; e nei loro ruoli astrologici i vecchi dei non sono esseri esangui di bianco marmo, ma hanno riacquistato effettivo potere. In realtà, i demoni astrali del paganesimo erano tornati a vivere molto tempo prima che rinascessero le marmoree divinità dell’Olimpo. Quello che c’è di essenzialmente nuovo qui non è il fatto che Agostino Chigi e i suoi amici credessero nei demoni planetari pagani, bensì che cercassero di ridurre la forte presa che quelli avevano su di loro. Essi cercano come di stendere un velo su quegli dei; raccontano le loro leggende e storie d’amore un po’ come potrebbe parlare un servo che voglia ridurre la distanza tra sé e il suo padrone. Non è il merito minore dell’educazione classica l’aver aiutato gli uomini di questa generazione a liberarsi dalla credenza, con cui erano nati, nella inevitabilità del fato astrologico: anche se qui si trattava solo d’una specie di espediente estetico Il fatto che più colpisce nelle decorazioni della Farnesina è l’assoluta mancanza di qualsiasi elemento cristiano. La vita vi si esprime con una ricchezza incomparabile. Gli artisti
che le hanno create parlano il latino dei loro antenati pagani, non quello dei Padri della Chiesa. La descrizione di Luciano della festa nuziale di Alessandro è presa come exemplum di un’unione fra due esseri libera dai legami del sacramento: non c’è sacerdote officiante mentre il più grande dei conquistatori pagani sceglie la sua sposa.
Nella danza macabra costituita dalle scene ovidiane il Peruzzi ritrae il « vivere pericolosamente » dell’amante che insegue e dell’amata che sfugge, di chi disprezza gli dei e ne viene aspramente punito: la gioia di vivere viene esaltata, mentre il castigo degli dei non appare rispondente a nessuna legge scritta o morale.
Con uno spirito analogo Raffaello ha illustrato la storia dell’anima dedita alla bellezza, che non ha bisogno di purgatorio o di mediazioni per trovare la via della felicità.
Sul soffitto infine, il Peruzzi ha dipinto trionfalmente per il Chigi le radici celesti della sua felicità terrena; e questo spettacolo di esultanza è rappresentato dalle bellissime figure dell’Olimpo classico, senza alcun
accenno a un Padre Celeste che governi al di là delle stelle.
Che poi questa immagine della società romana del Rinascimento ci dica solo una parte della verità, e che sarebbe sbagliato credere che uomini come il Chigi fossero pagani nel senso precristiano, lo dimostra la fede cristiana del Chigi, quale si esprime nella sua cappella tombale a Santa Maria del Popolo.
(1)
R.FORSTER. Wiederberstellung antiker Gemalde durch Kunstler der Renaissance, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen », vol. XLIII, Berlino, 1922,pp. 126 ss.
(2)
Erodoto o Aezione, 5-6, ed. Jacobitz, in Luciani Opera. Lipsia, 1909
(3)
REITZENSTEIN Die Gòttin Psyche in der bellenistischen und frubchristlichen Literatur, in «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie dcr Wissenschaftcn», Phil.-hist. Kl., 1917, 10,
(4)
R. FORSTER Farnesina-Studien, Rostock, 1880, p.57
(5)
SAXL, La fede astrologica di Agostino Chigi. Interpretazione dei dipinti dì Baldassarre Peruzzi nella sala di Galatea della Farnesina, R. Accademia d’Italia, Collezione La Farnesina, 1, 1934, pp. 61 ss. (Parte II Arturo
Beer).
Theorèin - Febbraio 2004
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