VIRGILIA D’ANDREA: STORIA DI UN’ANARCHICA
A cura di: Francesca Piccioli
Entra nella sezione STORIA

Se vuoi comunicare con Francesca Piccioli: francesca164@interfree.it
Profilo biografico

E' l’11 febbraio del 1888. A Sulmona, una piccola cittadina ai piedi della Majella, viene alla luce Virgilia D’Andrea. Resta prematuramente orfana di madre. Il padre morirà poco dopo, insieme agli altri due figli, assassinato dalla furia omicida dell’amante della sua nuova compagna. Virgilia resta improvvisamente sola e a sei anni è condotta in collegio dove rimane fino alla maggiore età. I ricordi e le esperienze di quegli anni resteranno vivi nella maggior parte dei suoi scritti. Entra subito in contrasto con quell’istituzione rigida e dogmatica e sviluppa la sua intelligenza trovando rifugio nella lettura. Giunge la sera e con essa arrivano silenzio e solitudine: Virgilia si rifugia nei suoi libri. Leopardi, Ada Negri, Mario Rapisardi, Giosué Carducci sono cari e dolci amici, buoni e fedeli: «amici che non dimenticano mai. Amici di tutte le ore, sempre pronti all’indulgenza e al perdono». Legge avidamente i libri che riescono a varcare furtivamente la cinta del collegio: «li avevo divorati senza una guida e senza un consiglio, senza una selezione; ma nessuno di essi aveva profondamente scossa la mia mente in formazione.

La D’Andrea è in convento nel 1900 quando sente parlare per la prima volta di anarchia.
Nel luglio del 1900, il re d’Italia Umberto I è assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci perché ritenuto corresponsabile, durante i mesi precedenti, delle aspirazioni a un colpo di forza militare contro il parlamento. Bresci vuole vendicare la brutale repressione del maggio 1898, quando centinaia di milanesi organizzarono una rivolta per il prezzo del pane troppo alto, per le tasse locali ed altri motive di lagnanza. Il suo gesto aumenta notevolmente la notorietà degli anarchici italiani, come Malatesta, Gori, Galleani, alcuni dei quali scappano dall’Italia per evitare l’arresto. Al convento le suore ripetono alle educande di pregare per l’anima del re morto.

Nel 1909, Virgilia consegue il diploma di maestra e deve andar via dal collegio.
«Il direttore rispose appena al mio saluto e fece il viso buio delle circostanze gravi e serie» -racconta Virgilia- e aggiunge con tono severo: «Ancora qui…e il vostro numero di matricola è già stato assegnato ad una nuova educanda». Sono queste le parole che le cadono addosso, lasciandola in silenzio. E ancora: «ho fatto io le veci del vostro tutore. Ho parlato con un deputato molto influente e voi siete a posto…e bene a posto. La settimana entrante partirete per la nuova destinazione». Virgilia rimane a guardarlo come se non avesse ben compreso le sue parole e ricorda di essere rimasta incapace di una qualsiasi osservazione o cenno di replica. Cominciano, adesso, gli interrogativi.
C’è un mondo sconosciuto fuori; un mondo diverso da quello regolato e protetto del collegio! Virgilia è sola.

Un diploma e una valigia piena di libri e di un umile corredo, sciupato dall’uso e dagli anni, sono il suo unico bagaglio.
Dopo essersi iscritta all’università di Napoli, con molta probabilità intorno al 1910, consegue una licenza per l’insegnamento e lavora come insegnante in alcuni paesini alle porte di Sulmona. Scrive Borghi: «La maestrina del popolo entrò in classe con i capelli a coda di cavallo, e il cuore amareggiato dalla ribellione e dal bisogno di giustizia».
Il sentimento di rivolta è probabilmente nutrito dal suo stretto contatto con studenti ignoranti e ridotti in miseria; lei stessa vive in una condizione di relativa indigenza come insegnante indipendente in una tra le più povere regioni d’Italia.
Nel brano La rivolta della terra redatto intorno al 1930 e pubblicato in Torce nella notte, la D’Andrea rievoca il disastroso terremoto che colpisce l’Abruzzo nel gennaio del 1915: «Una scossa formidabile: un traballare spaventoso della casa: lo squarciarsi ed il rinchiudersi delle mura: tragiche voci, rauche di disperazione, […], e poi, su di me lo sfasciarsi ed il crollare della volta a crociera: infine il silenzio e l’immobilità del sepolcro». Bastano solo pochi secondi, ogni cosa è sfigurata e distrutta: case, affetti, amori…Anni di lavoro e di sacrifici sono sradicati e abbattuti in un soffio di vento; ci sono solo ammassi di rovine fumanti e macerie giacenti alla rinfusa. Il terremoto colpisce l’intera piana del Fucino e devasta la città di Avezzano dove Virgilia insegna a centinaia di persone.
Nessuno si ricorda, adesso, di migliaia di rozzi e analfabeti contadini; ma nessuno si dimenticherà di loro quando saranno chiamati alla cruenta difesa della patria in pericolo; osserva Virgilia in Torce nella notte. La risposta inadeguata e l’indifferenza dello Stato acuiscono il senso di ingiustizia della D’Andrea, che scrive indignata: «Non l’ombra di un re, d’un duca, o d’una principessa reale, passò, per qualche ora, fra quelle rovine».

Nel 1917 la troviamo alla guida del movimento delle donne socialiste abruzzesi: Donne socialiste abruzzesi aderivano congresso saldissima immutabile fede recita un minuscolo foglio firmato Virgilia D’Andrea, sequestrato dalla prefettura de L’Aquila. Questo documento è, con molta probabilità, quello che attesta la prima segnalazione di Virgilia presso le forze di polizia.
Conosce, proprio in quegli anni, alcuni esponenti del movimento anarchico abruzzese (tra questi c’è l’avvocato Mario Trozzi) e, si avvicina all’ideale con quell’entusiasmo che sempre accompagnerà le sue scelte. Intraprende un giro di propaganda in tanti piccoli centri dell’Italia centro-meridionale, partecipa a numerose conferenze e convegni ed esprime il proprio dissenso nei confronti della guerra e di tutti gli imperialismi chiedendo a gran voce una rapida smobilitazione e il conseguente avvio di un armistizio.

Come per molti giovani italiani della sua generazione, l’opposizione di Virgilia alla guerra si sviluppa all’interno di una più ampia critica del capitalismo e dell’imperialismo e descrive le peculiarità del suo primo gesto di sfida politica durante la prima guerra mondiale, quando lascia, appunto, l’insegnamento per associarsi alla campagna antimilitarista, contro l’intervento dell’Italia in guerra. Secondo Virgilia, la scelta del governo di partecipare alle operazioni belliche mentre gli italiani soffrono per la mancanza di cibo, case e vestiti dimostra il difetto morale dello Stato. Questa critica allo stato borghese diventa un principio fondante del radicalismo della D’Andrea.

Nella primavera del 1917, Virgilia D’Andrea incontra Armando Borghi, noto e influente anarchico romagnolo, leader indiscusso del movimento e del sindacato, internato all’Impruneta (a pochi chilometri da Firenze). È accusato di cospirazione contro lo stato per aver sostenuto posizioni antinterventiste durante le agitazioni della “settimana rossa”. All’epoca Virgilia è maestra elementare a Terni; frequenta gli ambienti anarchici ma senza svolgere propaganda attiva.
Un amico e compaesano, l’avvocato Mario Trozzi, anch’egli internato, l’accompagna all’Impruneta proprio per conoscere Borghi. Quest’incontro segnerà a chiare lettere l’inizio della loro vita insieme: quindici anni di lotte e privazioni, di sofferenze e carcerazioni, fino al forzato e inevitabile esilio. Le parole che Borghi riserva per descrivere quei giorni sono dolci e misurate: «Aveva un’anima gentile, e dava colore e vita di poesia e di pietà ad ogni cosa che le vivesse accanto. Spiritualmente era una lottatrice indomabile».
Armando Borghi pone l’accento sulla loro totale convergenza d’opinioni e racconta dell’infanzia difficile della compagna, dei suoi studi e del suo instancabile lavoro come maestrina del popolo. Delinea i tratti di una “creatura di eccezione”, altruista e responsabile; scrive: «Conosceva la gioia di fare il bene. Seguiva la voce del dovere a qualunque costo». È l’esordio di una storia d’amore, d’impegno civile e di passione politica.
L’anno successivo li troviamo insieme ad Isernia dove Borghi viene trasferito. È guardato a vista dalla polizia e la sorveglianza diventa ogni giorno più stretta.
La trama di relazioni che è riuscito a crearsi è irrimediabilmente distrutta: «La mia vita ad Isernia era di una monotonia sconcertante». È volutamente isolato. Grazie alla presenza attiva e infaticabile di Virgilia, il noto foglio dell’Usi, “Guerra di classe”, continua ad uscire a Firenze. La voce anarchica si fa sentire nonostante la sorveglianza serrata. Un’unica stanza senza acqua né servizi igienici per Borghi, Comunardo (figlio della prima moglie di Borghi) e la D’Andrea.
Il 10 aprile del 1918, proprio da Isernia, Armando Borghi scrive una bella lettera a Luigi Spada. Comunica all’amico-compagno di aver “preso moglie” e di essere ansioso di fargliela conoscere in un momento meno rischioso per tutti. Nella sua autobiografia, il leader anarchico ricorda Virgilia con queste parole: “Ci intendemmo, e presto fummo marito e moglie. Amore ‘libero’, dicono taluni,come se potesse esistere l’amore “schiavo”. Restammo uniti quindici anni di lavoro, di lotte, di ansie, ostracismi, persecuzioni, carcerazioni, esilii, immutati e legati sempre l’uno all’altra dall’affetto e dalla stima».

Unendosi a Borghi e all’Unione Sindacale, la D’Andrea abbraccia l’attivismo sindacale.

La politica di Virgilia è fortemente influenzata da Malatesta, che all’epoca in cui lei si avvicina all’anarchismo, si trova in esilio. Egli colloca l’azione anarchica all’interno delle unioni sindacali e sostiene la necessità di attuare un’azione diretta a favore dell’iniziativa individuale.
Nelle parole di Virgilia gli anarchici sono fiamma che si procura il combustibile dal fuoco della rivolta secolare: «la nostra Idea […] significa rivolta che pone la novazione permanente alla base della verità, e che nega, quindi a se stessa, un limite ufficiale, un bollo sacramentale, un credo unico, un sacerdozio interprete del clero”.
Come Malatesta, la D’Andrea immagina una società composta da federazioni di libere associazioni di produttori e consumatori che operano armoniosamente in un reciproco interesse. Libertà e giustizia non significano solo diritti civili, ma anche l’annullamento di sofferenza, odio e superstizione; la fine dell’oppressione dell’uomo sull’uomo attraverso l’abolizione del governo e della proprietà privata. Con l’armistizio arriva la fine dell’internamento e con esso comincia per Virgilia quella vita errabonda che la condurrà all’esilio.

Proprio verso la fine del 1918, inizia il suo infaticabile lavoro per la causa anarchica. Collabora come redattrice alla realizzazione di “Guerra di classe”, organo dell’Usi, e scrive, successivamente, su “Umanità nova”, organo dell’Uai. Il congresso del sindacato l’aggiunge alla segreteria accanto a Borghi e Malatesta: è responsabile dell’ufficio di propaganda. Il 14 marzo del 1920 Virgilia si trasferisce a Milano. Le nebbie, il grigiore ed il frastuono dell’assordante città lombarda la infastidiscono; vorrebbe “chiudere indisturbata gli occhi e rimettere speranza e sole nello sguardo e nella parola, [...], laddove le nebbia del cielo e della vita avevano sbiadite le tinte, raffreddati gli slanci, attenuati gli entusiasmi e le bellezze».
Le carte di polizia ci informano che risiede in via Achille Mauri 8, nella sede milanese dell’Usi con Armando Borghi ed Errico Malatesta. I mesi di coabitazione contribuiscono a consolidare la bella amicizia che lega Virgilia ad Errico fondata su stima reciproca e affinità intellettuale. La loro corrispondenza è una dimostrazione concreta dell’affetto che li unisce. Il soggiorno milanese è denso di attività. Il 26 febbraio del 1920 esce il primo numero del quotidiano anarchico Umanità Nova; continuerà le sue pubblicazioni fino al 24 marzo 1921, giorno dell’assalto fascista alla sede del giornale, per poi riprendere più tardi a Roma. Alla fine di agosto prende il via il movimento della “occupazione delle fabbriche” che presto dilaga in tutta Italia. La D’Andrea insieme a Malatesta tiene comizi nelle officine e nelle piazze. Manifestazioni popolari a favore delle vittime politiche e di solidarietà con la rivoluzione russa si susseguono in tutta Italia. Gli scontri fra polizia e dimostranti culminano nella repressione più tenace. Tra il 18 e il 21 ottobre vengono tratti in arresto i massimi dirigenti dell’Usi.
Il 27 ottobre anche Virgilia è dietro le sbarre; deve rispondere dei seguenti reati: a) Cospirazione contro i poteri dello Stato ed incitamento all’insurrezione; b) Istigazione a delinquere, apologia di reato, associazione diretta all’apologia stessa e per complicità morale in atti terroristici commessi da terzi con esplosioni di bombe. Il 30 novembre del 1920, Virgilia esce di prigione. Continua, con ostinazione, la sua attività di propaganda antigovernativa e provvede da sola e con pochi mezzi alla redazione e alla pubblicazione di “Umanità nova”. Nel marzo dell’anno successivo, detenuti da cinque mesi nel carcere di San Vittore, Malatesta, Borghi e Quaglino iniziano lo sciopero della fame.

L’attività delle forze che si oppongono al nuovo governo diventa ogni giorno più difficile. Coercizione, imperio e violenze d’ogni genere si vestono di una lecita quotidianità. Iniziano a profilarsi anni di eccezionale intolleranza e vigorosa persecuzione. Comincia l’interminabile e tristemente nota storia dei fuoriusciti che Garosci ci ha magistralmente raccontato. Anche per Virgilia la situazione si fa ostile. È un’esponente dell’Usi, tra i redattori del quotidiano anarchico Umanità nova e compagna del noto sindacalista anarchico Armando Borghi. Il loro soggiorno a Milano è denso di difficoltà: nessuno li vuole ospitare come locatari e negli alberghi li pregano di andarsene perché la polizia non può garantire.

Il 19 dicembre la D’Andrea chiede e ottiene dalla questura di Milano il passaporto per la Germania. La nota sulla sua scheda personale alla prefettura di Bologna, informa: “ Dalla Questura di Milano. Il 22 dicembre u. s. è partita alla volta di Berlino per partecipare al congresso operaio sindacale internazionale”. Il congresso sindacale internazionale del movimento anarchico la porta così in Germania. Armando Borghi è con lei. È il 1923. Alcune settimane successive al loro arrivo, i due ricevono la notizia che, a Milano, è stato emesso un mandato di cattura nei loro confronti. Decidono di rimanere in Germania, mentre Malatesta è trattenuto a Roma, sorvegliato a vista da agenti fascisti. Per tutta la prima metà degli anni venti, Berlino è la stazione d’arrivo dei profughi della patria dei lavoratori. Uomini insigni nelle lotte sociali e militanti provati da mille durezze per la causa della libertà tornano dalla Russia malati e sfiniti. Il soggiorno berlinese è denso d’incontri e attività. La D’Andrea conosce Rudolf Rocker, Emma Goldman, Berkman, Shapiro e Volin; tutta gente che ben conosceva i decreti d’espulsione e le ristrettezze esilio. Intanto il 13 marzo di quello stesso anno, il questore di Milano comunica all’ufficio dell’Aquila che su D’Andrea Virgilia, di Sulmona. Anarchica. pende una denuncia per istigazione a delinquere a causa della sua ultima pubblicazione: Tormento.

A proposito di Tormento, risulta di significativa importanza la lettura del rapporto del questore di Milano inviato al ministero degli Interni. Il documento presenta, inizialmente, una dettagliata descrizione della copertina: “Il libro ha la prammatica copertina rossa . In alto, in nero, la figura d’una donna alata, con disperata espressione di invocare dall’alto, verso cui vola, la liberazione dalle catene, cui è legata nei polsi, e che sono trattenute in una seconda vignetta, in fondo alla pagina, da mani artigliose di evidente marca borghese, e nell’intermezzo è semplicemente stampato: Virgilia D’Andrea, Tormento.”. Successivamente il funzionario di polizia si preoccupa di sintetizzare il contenuto del volume, e scrive: “ Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito”.
In Germania, intento, è il tempo dell’occupazione della Ruhr e della caduta del marco.
Era il tempo del lusso dei pochi e della miseria dei molti. La denutrizione e l’abbattimento fisico della povera gente sono impressionanti. Il militarismo è spogliato dei suoi paramenti. La situazione economica del Reich diventa intollerabile. Procurarsi da mangiare è sempre più difficile.
Virgilia, già debole e malnutrita, inizia ad avvertire dei seri problemi di salute. Verso la fine dell’anno diventa necessario lasciare Berlino. Nella primavera del 1925 la troviamo ad Amsterdam con Borghi, ospiti del professor De Lyght, ex pastore protestante passato all’anarchismo.

Borghi parte per Parigi nei primi mesi del 1924. Virgilia lo raggiunge, con ogni probabilità, verso la fine di quello stesso anno. Vi trovano prezzi modici, facilità di studio, comodità d’accesso a musei e biblioteche. L’aria parigina è amabile e le condizioni di vita sono notevolmente migliorate. Parigi offre una posizione strategica nelle lotte contro il fascismo. Qui affluisce gran parte dell’emigrazione politica italiana.
Nella città francese, vive una vibrante comunità di persone espatriate: da alcune tra le più stimate figure del socialismo italiano ( Filippo Turati e Claudio Treves), a decine di liberali, democratici, comunisti e repubblicani, fino ad un piccolo contingente di anarchici italiani. Nonostante le difficoltà di una reclusione all’aperto e del crescente spionaggio degli emissari mussoliniani, nella capitale francese sopravvive attivo e operoso un frammento d’Italia. Dalle testimonianze di Armando Borghi apprendiamo dell’iniziale contrarietà di Virgilia al nuovo trasferimento. Egli attribuisce questo rifiuto alla particolare propensione della compagna “di attaccarsi al suo luogo e a sentire come sconosciuto ogni luogo nuovo”. In una lettera, che Virgilia scrive all’amico e compagno Francesco Spada qualche anno dopo, traspare chiaramente questa inclinazione. Riferisce, infatti, l’anarchica: “Perché questi continui spostamenti, e mutare case e ambienti, e abitudini, mi tolgono ogni possibilità di concentrazione per un serio lavoro creativo”. Virgilia e Armando alloggiano al Quartiere Latino, in Rue de Malebranche, a pochi passi dal Pantheon. Sono i luoghi dove “vivono” Voltaire, Rousseau, Victor Hugo, Zola, Jaurès! Lei è incantata e conquistata dalla bellezza di quei luoghi che evocano un passato di vibranti passioni e intensi ideali. Osserva così in Torce nella notte: “Festoso, chiaro, garrulo e giovanile il Boulevard di Saint Michel si snoda nel cuore del vecchio quartiere latino, là dove poeti, pittori, musicisti, studenti e bohèmiens si danno convegno nelle piccole stanze del sesto piano, negli storici caffè carichi di nomi, di memorie, di sogni[…]”. Nel 1925, la D’Andrea s’iscrive alla Sorbona e prosegue così i suoi studi in un ambiente ricco di stimoli sempre nuovi.
La denutrizione berlinese l’ha notevolmente debilitata. Soffre d’insonnia, d’inappetenza e di frequenti crisi di debolezza. Instancabile, continua a portare avanti le sue molteplici attività.

Fonda e dirige, tra il 1925 e il 1927, una rivista che intitola la Veglia.
Questa pubblicazione rimane unica nella storia del giornalismo anarchico in lingua italiana. Al costo di 2.50 franchi ogni mese si poteva acquistare una rivista di circa venti pagine.
Propone articoli che spaziano dalla più stretta attualità, alla storia del movimento anarchico, che sono spesso corredati da uno scelto materiale fotografico. Virgilia ama molto Parigi; la celebra con toni lirici e inquieti in un bel componimento raccolto nell’opera L’ora di Maramaldo, uscito in quello stesso anno per i tipi de La Fraternelle, dal titolo Nel covo dei profughi. Il 12 aprile del 1928 una circolare del Ministero dell’Interno ci informa che la Regia Ambasciata d’Italia a Parigi comunica che non ci sono variazioni da segnalare sul conto dell’anarchica. Virgilia D’Andrea si trova ancora in quella città dove svolge “propaganda anarchica collaborando in giornali e riviste sovversive”. Il 9 luglio dello stesso anno il regio Consolato Generale d’Italia a Parigi scrive alla Regia prefettura de L’Aquila accludendo la domanda di nulla osta per il rilascio del passaporto a Virgilia D’Andrea “con preghiera di voler rispondere con cortese sollecitudine”. Il 30 luglio viene negato al Regio console d’Italia a Parigi il nulla osta per il rilascio del suddetto passaporto. La polizia politica teme un ipotetico rientro della D’Andrea in Italia.
In un rapporto delle forze di polizia, del 30 ottobre del 1928, si legge: “Tra gli anarchici si parla con insistenza del ritorno in Italia della compagna di Borghi cioè Virgilia D’Andrea che è sorella al D’Andrea Ugo scrittore del Giornale d’Italia. La D’Andrea è pericolosissima e quindi non credo sia in condizioni di fare ritrattazioni o atti di pentimento”. Un ritorno che le autorità ritengono dettato dalla necessità di compiere qualche crimine. Secondo gli agenti la D’Andrea è scaltra, audace, furba e dunque molto pericolosa, e gli anarchici sanno bene che essendo sorella di un gerarca fascista potrebbe godere dell’impunità. Nessuna di queste congetture è effettivamente confermata dai fatti!

Alla fine del 1928 l’anarchica si trasferisce, contrariamente ai sospetti, negli Stati Uniti. La nota del servizio schedario che la riguarda riferisce che la D’Andrea giunge a New York il 19 novembre del 1928 «avendo avuto dal console americano in Parigi il permesso di andare negli Stati Uniti come visitatrice temporanea». Lì raggiunge Armando Borghi che vi si era trasferito nel 1926.
Persecuzioni e difficoltà continuano a tormentarne la loro laboriosa vita clandestina.
Le autorità italiane di Roma comunicano a Washington che, sebbene stesse andando negli U.S.A. per riunirsi al suo compagno Borghi, la D’Andrea era una pericolosa propagandista e un’ organizzatrice di attività radicali che si nascondeva sotto le spoglie di un’ antifascista. Il suo attivismo riflette lo stato d’assedio del movimento anarchico italo- americano e il desiderio profondamente radicato nei nuovi esuli di sconfiggere il fascismo in Italia. In questi anni, Virgilia tiene, di città in città, fino alla California, conferenze che non saranno dimenticate. Questo lavoro di propaganda le piace molto. In una lettera che Malatesta invia all’amica lontana, leggiamo: “Il clima della California e forse ancora di più il fatto che hai potuto spiegare un’attività conforme alle tue doti e alle tue aspirazioni, ti hanno certamente fatto molto bene”. In un’altra bella lettera, compilata qualche giorno prima, Malatesta osserva: “ Son felice per te pensando che ora tu vivi una vita attiva che, son convinto, ti piace e ti soddisfa; e, a dirtelo francamente, ci penso con nostalgia, quasi con invidia io che non posso né muovermi, né parlare, né scrivere come vorrei”.

Secondo l’opinione di Armando Borghi, la D’Andrea si sente emotivamente inaridita dall’esperienza del nuovo esilio. Lasciati a Parigi gli amici e i colleghi più cari, si muove verso una più intensa malinconia. Inizia a soffrire, proprio in quegli anni, della terribile malattia che l’avrebbe uccisa. Borghi osserva che il suo dolore è mitigato solo dall’impegno politico e ricorda: “Quel lavoro di propaganda le piaceva. Era amatissima da tutti i compagni. Ma le sue forze non l’aiutarono come avrebbe voluto”. Nel luglio del 1932, mentre si trova a Boston, Virgilia riceve la notizia della morte di Malatesta.
La notizia della morte del maestro e dell’amico la avvilisce ulteriormente.
In seguito ad un’emorragia, Virgilia è operata d’urgenza dalla figlia di Luigi Galleani, Ilya, dottoressa in ospedale di Boston.
Borghi ricorda quel giorno con queste parole: «Conservo il telegramma, in cui Virgilia mi domandava se doveva venire a piangerlo con me. Fui io a recarmi da lei. E la trovai in un ospedale».

Dopo aver subito d’urgenza l’intervento in seguito ad una crisi emorragica, Virgilia torna a New York dove lavora alla redazione di Torce nella notte. Nella primavera dell’anno successivo è nuovamente tormentata da atroci dolori.
Il suo compagno richiama alla mente quei momenti e scrive: «dopo molti alti e bassi, che la rendevano sempre più debole […] ricadde di nuovo in tormenti atroci. […]. Passava notti terribili. Vi erano momenti in cui temevo che perdesse la ragione, o che io stesso non avessi il coraggio di resistere a vederla tanto soffrire». Nessuno sospetta la gravità del suo male. La visita da uno specialista rivela tutta la serietà della malattia.
Borghi ricorda quel giorno con queste parole: «questi, visitatala, mi terrorizzò con un cenno furtivo del capo che non aveva bisogno di altra spiegazione». Virgilia chiede al suo compagno, che in quei giorni prepara la prefazione per il suo libro, di non riferire nulla sulle sue condizioni di salute. Scrive che la malattia non è bella da guardare e che quelle povere e modeste pagine contengono quel poco di buono e di bello che resta nella sua anima. Per un po’ di tempo il libro risulta un’utile distrazione dalla malattia e la poetessa si impegna per sottometterlo agli editori il più presto possibile. È il primo giorno di maggio del 1933. Nelle strade di New York sfilano cortei di lavoratori e riecheggia il canto degl’inni popolari. Borghi e una cara amica di Virgilia, Catina, l’accompagnano in ospedale. Nell’atto di firmare il foglio d’ingresso, Virgilia legge la terribile parola: cancer.
Non c’è più posto per pietose bugie. Accetta il suo destino con raro coraggio.
Queste le parole di Armando Borghi: «Non si perdette d’animo un solo momento. Rifiutò (garbatamente) l’offerta, troppe volte ripetuta dall’infermiera e dal medico, dell’assistenza del prete». È nuovamente operata. Il console italiano a New York scrive, in proposito, al ministro degli esteri italiano il 4 maggio 1933: “La nota Virgilia D’Andrea è stata nuovamente ricoverata all’ospedale e dovrà subire un’operazione per un’ulcera cancerosa all’intestino retto. Da quanto mi viene segnalato il medico curante avrebbe dichiarato che non v’è speranza di guarigione”. Muore dopo dieci giorni di strazianti dolori: «L’11 maggio i tipografi mi consegnarono la prima copia del suo libro. L’accarezzò, e lo baciò. Morì nella notte». Nel libro, che rappresenta un testamento sulla sua difficile esistenza come esule politico, Borghi ricorda: “negli Stati Uniti avevo pianto la morte di mia madre nel 1929, di mio padre nel 1930 e di Malatesta poco prima del 1932. In questi lutti avevo sempre avuto a fianco lei per assistermi. Ora ero solo”. Elena Melli Malatesta comunica il suo dolore per la perdita della comune amica a Osvaldo Maraviglia: «Non puoi immaginare quanto male mi ha fatto la tristissima notizia arrivatami come un fulmine a ciel sereno. Sono rimasta come intontita, quasi incredula, non potevo crederci, poi, dopo averla letta e riletta mi è sembrato che un coltello acuminato mi penetrasse nel cuore a rimuginare dentro la ferita già aperta, sanguinante». Successivamente aggiunge: «Ho pianto, ho imprecato contro il destino che tronca l’esistenza di una così giovane donna, piena di fede e avida di libertà e di amore: Errico qua in catene, Virgilia costà in esilio». L’ultima nota, che riguarda la D’Andrea, sulla carte di polizia risale al 20 giugno 1933. La pericolosa propagandista anarchica è esclusa dal casellario della questura. Il documento recita, con i toni freddi e distaccati della burocrazia: «L’On. Ministro dell’Interno con nota n. 36764/3033 del 7 andante informa che è deceduta in Fitht Avenue Hospital New York per ulcera cancrenosa.
Viene perciò in data odierna radiata dallo schedario, dall’elenco degli attentatori e richiesta la revoca dell’iscrizione alla Rubrica di Frontiera».
Amici, compagni e semplici lavoratori rendono il loro estremo saluto alla D’Andrea nel cimitero di New York. Il suo amico Osvaldo Maraviglia pronuncia poche parole sulla sua tomba aperta e il compagno Nino Crivello recita una poesia scritta per l’occasione e la definisce un appropriato saluto per la poetessa. Secondo le notizie diffuse in quei giorni, l’ “Adunata dei Refrattari” fu sommersa da lettere e telegrammi inviati dall’Italia e dall’Europa.
Il giornale paga il suo tributo a Virgilia per le diverse pubblicazioni postume dei suoi scritti e delle sue conferenze.
Le parole di Elena Melli mi sembrano significative per definire l’enorme vuoto procurato dalla morte della D’Andrea presso gli anarchici italiani.
La moglie di Malatesta osserva infatti con evidente commozione: «E noi con la scomparsa dei nostri cari ci sentiamo invadere l’anima da un dolore, da uno sconforto che ci fa restare come annientati. Ma che fare, che fare caro Osvaldo: stringerci sempre più forte in un abbraccio ideale, quasi fraterno per non soccombere e per poter resistere a questa raffica spietatamente violenta che ci percuote». A luglio di quello stesso anno Armando Borghi scrive sull’ “Adunata dei Refrattari” condividendo il proprio senso di perdita con quello dei compagni di lotta.
Esprime gratitudine e manifesta pubblicamente la propria commozione per le parole gentili di così tante persone nei confronti della sua compagna che definisce “grande e buona, senza confronti”.


Theorèin - Maggio 2004