VIRGILIA D’ANDREA: STORIA DI UN’ANARCHICA
A cura di: Francesca Piccioli
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Capitolo 2

Parigi, l’esperienza di «Veglia»e la lotta antifascista.

Nell’inverno del 1924, la D’Andrea si trasferisce a Parigi.
L’aria parigina è amabile e le condizioni di vita sono notevolmente migliorate.
La capitale francese offre una posizione strategica nelle lotte contro il fascismo e diventa il ricettacolo di una gran parte degli esuli politici italiani di ogni colore. L’emigrazione politica sotto il regime fascista presenta caratteristiche originali e si differenzia dalla tradizione italiana dei secoli precedenti. Quest’ ultima non vede,una vera e propria emigrazione di intellettuali, contrariamente a ciò che si era verificato in passato. Emigrò, infatti, un gran numero di lavoratori “cui il fascismo rendeva impossibile la vita e che si riversò, soprattutto nella vicina Francia”. Proprio questa massa costituisce la base per la propaganda e l’azione politica dei fuoriusciti.
Parigi diventa, così, il teatro privilegiato del variegato movimento antifascista e consacra uno dei periodi di più intesa attività politica e sociale della D’Andrea. L’anarchica fonda e dirige, tra il 1926 e il 1927, una rivista che intitola “Veglia”.
Il periodico è scritto in lingua italiana ed esce a cadenza mensile. Al costo di 2.50 franchi si poteva acquistare una rivista di circa venti pagine e leggere eterogenei articoli, spesso corredati da uno scelto materiale fotografico. Molte sono le illustrazioni; quasi una in ogni pagina! Svariati i soggetti così come le tecniche pittoriche (da Matisse ai futuristi). Curata nell’impaginazione e nella complessità dei contenuti, la rivista rivela tutta la sensibilità e la delicatezza del direttore. L’impatto visivo è disarmante.
In copertina campeggia l’immagine di una donna dal viso magro e il profilo severo. Gli occhi persi vuoto, i seni scoperti e le dita intrecciate fra i capelli di un uomo che sembra morto. In secondo piano si scorgono altri volti con gli occhi chiusi e i tratti sofferenti. In alto a destra risalta, scritta con caratteri maiuscoli, la parola veglia. Virgilia scrive al compagno lontano: “Non so se hai ancora visto ‘Veglia’. Per il prossimo numero ti preparo una bella sorpresa. Una poesia; non so se ti piacerà; fammi sapere se ti è piaciuto l’articolo che ho fatto su Anteo Zamboni”. “Veglia” si presenta come una rivista armonica, curata e intelligente. Riporta articoli di molti collaboratori; voci complesse e spesso discordanti dell’anarchismo di quegli anni. Ricorrono le firme di Armando Borghi, Leda Rafanelli, Auro D’Arcola, Alexander Berkman, Camillo Berneri, Raffaele Schiavina e molti altri. Le finalità della rivista sono chiaramente indicate: “Veglia è la rivista di tutti gli anarchici, si propone di lavorare per una salda unione spirituale fra tutti noi, unione tanto necessaria per la difesa dell’essenza vitale dell’anarchismo, essenza che è comune a tutti gli anarchici”. Un intento unificante, dunque, che cerca di mettere da parte le differenze individuali. Braciere ardente: ecco il titolo dell’editoriale firmato da Virgilia per il primo numero del suo mensile.
Un gruppo di amici, in una fredda sera d’inverno, pensa alla pubblicazione di una rivista mensile: “A me parve di vedere, quella sera, dei Veglianti fedeli e sublimi in attesa del giorno. Attorno ad un braciere ardente fra le braccia immense della notte più buia. Per essere desti alla prima alba domani”. In un articolo uscito su “La Tempra” nel gennaio del 1926, Virgilia racconta ai suoi lettori le motivazioni che l’avevano spinta ad assumersi l’incarico di una pubblicazione mensile: la certezza che “Veglia” avrebbe portato “un modesto e serio contributo alla difesa delle nostre idealità anarchiche”. La redazione de “La Tempra”, dal canto suo, saluta con entusiasmo l’annuncio di questa nuova pubblicazione e lancia una campagna per la raccolta di fondi a sostegno della pubblicazione di “Veglia”. “Veglia”, chiarisce la D’Andrea, nasce per essere la cassa di risonanza delle angosce e dei dolori del mondo, per raccontare storie di angherie e sopraffazioni, per descrivere le difficoltà di una vita d’esilio e povertà, ma, anche e soprattutto, per portare sollievo e restituire forza agli animi che si abbattono dopo la battaglia. “Una Rivista agile, fresca, sorridente come il nostro Ideale”, groviglio di passione e sensualità, che sprigiona coraggio e trasforma il dolore: “Tutto, tutto il nostro grande dolore, immenso dolore si è distaccato da noi, si è liberato dalla materia, si è rifugiato sui vertici, si è fuso con l’azzurro. È diventato la montagna di luce che ha rovesciato le tenebre”. Il 9 dicembre del 1926, Virgilia scrive una breve lettera al compagno, in cui lo mette al corrente della situazione parigina e del suo lavoro al giornale. Scrive: “Veglia è uscita da due settimane. Prima impossibile perché non avevo denaro e quella gente della Fraternelle non fa più un soldo di credito ed ha ancora aumentato i prezzi del 10/100. Adesso sono sotto per l’altro numero e sono carica di lavoro. Pensa che sono sola a sbrigare tutto”. Il pensiero della D’Andrea avanza rapidamente verso l’angosciosa convinzione di una patria asservita ad una forza violenta e intollerante. Il potere è ormai nelle mani di Mussolini.
Virgilia nota in una lettera, scritta da Parigi il 2 dicembre del 1926, al compagno: “Che tempi caro Armando! Intanto altri, chi ha fatto a tempo, (perché ora i confini son guardati dalla camice nere) hanno abbandonato l’Italia, fra cui Mario Mariani che pare abbia intenzione, dalla Svizzera, di passare in Francia. Egli è stato fortemente abbandonato. È stata innalzata la forca in varia città d’Italia. Tutta la stampa è stata soppressa ed i giornali che vengono da laggiù non dicono nulla che…mirabilia del governo fascista”. Una lettera che Malatesta invia alla D’Andrea nel 1924 chiarisce la pesante situazione che domina sulla penisola : “Qui siamo in una situazione insopportabile. In buona salute tutti e tre ma incatenati peggio che se fossimo al confino. Abbiamo alla porta tre guardie, che stanno là notte e giorno: due seguono me ovunque vada, ed una segue Elena”. E in un’altra lettera: “ ‘Fede!’ e ‘Libero accordo’ hanno cessato le pubblicazioni. Damiani è andato via. ‘Pensiero e Volontà’ continua e spero continuerà; ma siamo in grandi difficoltà perché alla posta di portano via gran parte della corrispondenza”. La tensione cresce ogni giorno di più.
L’anziano leader anarchico è presto costretto all’isolamento e all’inattività.
I suoi legami epistolari con Virgilia e con pochi altri compagni emigrati all’estero sono gli unici mezzi per stabilire contatti col mondo anarchico. Gran parte delle lettere che Malatesta scrive alla D’Andrea sono il chiaro esempio della sua esigenza, che definirei quasi vitale, di avere notizie sugli sviluppi della situazione politica e sulle evoluzioni in seno al movimento. La testimonianza dell’anarchico è chiara: “non si può nemmeno fiatare”.
Malatesta afferma di essere all’oscuro di tutto, di avere una grande sete notizie e di ricevere sempre con riconoscenza ogni segno di vita che arriva da amici e compagni.
In Italia tutta la stampa è soppressa ed egli non ha modo di esercitare alcuna forma di attività politica né di contestazione. Riferendo sulle sue condizioni di “prigioniero in casa propria”; il leader anarchico osserva: “Da qualche tempo hanno incominciato a fare metodicamente quello che prima facevano solo occasionalmente: domandano generalità e locamenti a chiunque viene a bussare alla nostra porta, e se non restano persuasi lo menano in questura. Sicché noi non possiamo visitare gli amici per non comprometterli, e dobbiamo d’altra parte far sapere alla gente di non venire da noi per non venire segnalati e non compromettersi”. La censura lavora a pieno regime e controlla la sua corrispondenza, il fascismo ha ormai definitivamente imposto un bavaglio alla stampa.
Malatesta lamenta il bisogno di conoscere più a fondo le vicende interne al movimento e dichiara a Virgilia la sua volontà di collaborare alla redazione di giornali e riviste, servendosi di uno pseudonimo. L’anziano leader anarchico nota in un’altra lettera alla D’Andrea: “Oggi, stesso, malgrado tutto, potrei, con uno pseudonimo se non col mio nome, collaborare nei vostri giornali, se fossi al corrente delle cose che in questo momento interessano i compagni, delle correnti d’idee che agitano il nostro campo. Ma così , senza leggere i giornali, senza ricevere lettere che mi dicano qualche cosa oltre il domandarmi notizie della mia salute ed assicurarmi dell’affetto dei compagni, che cosa potrei scrivere d’interessante? Manca la materia e la voglia”. Successivamente aggiunge: “Lo so i compagni temono che le lettere, se dicono qualche cosa non mi sono date, e in generale hanno ragione. Ma non bisogna esagerare; e se non mi si vuole lasciare all’oscuro di tutto bisogna rischiare di scrivere qualche volta per la censura invece che per me”. La situazione è difficile anche fuori d’Italia.
I profughi politici vivono spesso in ristrettezze ed hanno difficoltà a procurasi il pane.
Virgilia scrive ad Armando: “Mi dici che mi hai spedito 40 dollari.
Fino ad oggi, 9 dicembre non ho nulla ricevuto.[…]. Sono in pensiero per questo denaro, cambierò alcuni nostri dollari di riserva e farò una vaglia alla Tunina, senza attendere oltre”. In una precedente lettere informa il compagno di aver ritirato i suoi documenti al commissariato di polizia. Scrive tenere parole: “Nella lunga attesa davanti al commissariato, ho ripensato a quando andammo ritirare insieme la ricevuta. Faceva lo stesso freddo; ma allora c’eri tu che mi proteggevi dagli urti e dagli scossoni. E la tua formichina questa volta ne ha presi tanti e faceva tutti i ragionamenti di Don Abbondio!”. Gli amici di sempre sono dispersi nel mondo , i compagni vengono derisi e violentati, i lavoratori sono ovunque sfruttati e prevaricati.
Per Virgilia le difficoltà si moltiplicano in misura esponenziale ed è facile scoraggiarsi: Borghi è partito per gli Stati Uniti e lei nuovamente sola. La fase iniziale, spontanea ed improvvisata dell’emigrazione antifascista volge al termine.
In Italia, gli ultimi ritagli di libertà stanno per essere definitivamente cancellati.
Lo stato totalitario sta per raggiungere la perfezione. Il punto critico dell’emigrazione organizzata va riportato al momento dell’attentato Zamboni contro Mussolini a Bologna, all’ondata di violenze che si scatena contro gli oppositori, alla soppressione di partiti e riviste e alle leggi repressive che seguirono.
Il 5 novembre del 1926, il consiglio dei ministri decide di annullare tutti i passaporti, di impedire con pene severe e con l’obbligo dell’uso delle armi, da parte della milizia confinaria, il passaggio clandestino della frontiere, di istituire il confino di polizia e il tribunale speciale. Proprio in quel periodo, tra gli ultimi mesi del 1926 ed i primi del 1927, escono dall’Italia molti esponenti dei partiti parlamentari, socialisti e parlamentari. L’espatrio clandestino è già un reato. Le frontiere sono vigilate. Alcuni riescono ad emigrare con le famiglie, ma nella maggior parte dei casi queste rimangono in Italia, sorvegliate da agenti fascisti.
L’emigrazione del 1927 contribuisce a consegnare al fenomeno del fuoriuscitismo un suo carattere definitivo. L’autorevolezza dei nuovi emigrati, fra i quali i capi dei partiti socialisti e del partito repubblicano, concorre ad accelerare la formazione dei “partiti in esilio”. Essi trovano una base politica comune ed un accordo con l’emigrazione che li aveva preceduti nella Concentrazione Antifascista, a cui danno vita nell’aprile del 1927. Secondo l’immagine che la stampa fascista presenta agli italiani, la Concentrazione è un centro tenebroso di intrighi e di complotti. In realtà è un accordo tra i fuoriusciti per la propaganda e l’azione all’estero. Alla concentrazione antifascista aderiscono il Partito Socialista e il Partito Socialista dei Lavoratori, il partito Repubblicano , la Confederazione generale del Lavoro, ricostituita in esilio e la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo.


Theorèin - Giugno 2004